
Uno strumento per la meditazione quotidiana basato sulle letture del giorno, che si arricchisce dei ritratti dei santi del mese e delle testimonianze di chi vive e mette in pratica gli insegnamenti del testo evangelico, e da significative note esegetiche. Il sussidio quest'anno contiene alcuni elementi di novità rispetto alle edizioni passate: commenti spirituali ai brani evangelici "popolari", fatti prevalentemente da laici, non necessariamente specialisti; note esegetiche ai brani evangelici brevi e non tecniche, anch'esse accessibili ad un vasto pubblico; esperienze flash di Vangelo vissuto provenienti da tutto il mondo e tutti i contesti sociali e culturali; brevi ma succosi profili di "testimoni": santi del mese, ma anche semplici cristiani (cattolici o di altre confessioni) che con la loro vita coerente fino all'ultimo si possono definire esemplari. Non mancano "testimoni" di altre fedi, sì da offrire una gamma varia di persone che hanno arricchito l'umanità con la loro vita e il loro messaggio.
Annuario della Facoltà di Diritto Canonico della Pontificia Università Urbaniana. Comitato Scientifico Internazionale - International Scientific Committee: Jesus Manuel Arroba Conde (Roma), Giuseppe Dalla Torre (Roma), Velasio De Paolis (Città del Vaticano), Victor George D'Souza (Mangalore), Petér Erdö (Budapest), Carlos José Errázuriz M. (Roma), Brian Ferme (Città del Vaticano), Fabien Lonema Dz'djo (Nairobi), Petér Szabó (Budapest). Direttore: Luigi Sabbarese. Segretario di redazione: Elias Frank. Consiglio di redazione: Jean Yawovi Attila, Andrea D'Auria, Giacomo Incitti, Maurizio Martinelli, Vincenzo Mosca, Claudio Papale. Hanno collaborato a questo numero: Jean Yawovi Attila, Andrea D'Auria, Carlos José Errázuriz M., Brian E. Ferme, Elias Frank, Giacomo Incitti, José Omar Larios Valencia, Lorenzo Lorusso, Antoine Mignane Ndiaye, Claudio Papale, Peter Paul Saldanha.
La struttura del giorno è così composta: 1a pagina: è presentato il giorno e il santo con una frase che introduce liturgicamente le letture o la festa del giorno;
2a-3a-4a pagina: le letture del giorno; 5a-6a pagina: un commento alle letture, una preghiera che personalizza il rapporto con Dio, e un approfondimento biblico su una parola chiave delle letture.
Dall’introduzione:
Molti pongono la solita domanda: «Don, io non riesco a pregare! Come faccio a sentire vicino il Signore?» Questo strumento vuole essere un tentativo di risposta al desiderio di preghiera e di interiorità espresso da molti in un mondo frammentato e caotico.
Nasce dall’esperienza fatta in questi anni in cui assistiamo ad un crescente desiderio di riscoperta di una fede che non sia una vaga appartenenza culturale.
autori
Direttore responsabile: don Nicola Baroni ssp
Coordinamento editoriale: don Vito Morelli ssp
Contiene:
• Letture della messa del giorno
• Ordinario della messa
• Orazioni delle domeniche
e solennità
• Compieta del giorno
INSIEME NELLA MESSA è un sussidio semplice e immediato per seguire le letture e le preghiere della Celebrazione Eucaristica. È pensato sia per chi partecipa quotidianamente alla Santa Messa sia per coloro i quali, non potendovi partecipare ferialmente, desiderano, tuttavia, accostarsi alla Parola di Dio proclamata in quel giorno nelle assemblee liturgiche. Oltre alle letture, la pubblicazione contiene l’Ordinario della Messa, un’introduzione liturgico - spirituale alle domeniche e feste ed un sommario delle domeniche, feste e commemorazioni liturgiche del mese corredate da sobrie ed essenziali notazioni agiografiche.
Vengono riportate, inoltre, le intenzioni mensili dell’Apostolato della Preghiera. Il formato tascabile e molto maneggevole consente un impiego agile e alla portata. Particolarmente indicato per quelle comunità parrocchiali dov’è attivo il gruppo dei lettori ministeriali, all’interno dei quali può essere utilizzato negli incontri formativi preparatori alle celebrazioni feriali e festive. La veste tipografica con la copertina a colori rende questo sussidio gradevole e moderno.
Rivista mensile n. 170, febbraio 2015.
Vergine e Madre Maria,
aiutaci a dire il nostro "sì"
nell'urgenza,più imperiosa che mai,
di far risuonare la buona notizia di Gesù.
Amen. Alleluia.
papa Francesco
"Accogliamo, nell'intimo del nostro cuore, il re umile e vittorioso"
Editoriale
L'ATTENTATO DEL 7 GENNAIO A PARIGI
In una tarda mattinata di gennaio, nel cuore di Parigi, due uomini entrano nella redazione del giornale Charlie Hebdo con armi da guerra e uccidono 12 persone, ferendone altre 11. Si è levato subito dappertutto un grido di dolore davanti a quell’orrore: bisogna opporsi, criticare, denunciare questo tipo di azione inaccettabile e orrendo.
I raduni spontanei di quella stessa sera hanno testimoniato la forte emozione di fronte a una tale violenza. In tutte le grandi città di Francia le folle hanno dichiarato la loro opposizione a questi atti. In tutto il mondo, la gente si è radunata davanti alle ambasciate francesi. Da Washington a Mosca, le dichiarazioni dei capi politici di qualsiasi schieramento hanno mostrato la solidarietà di tutti in favore della difesa della libera espressione, garanzia della democrazia.
La Chiesa, da parte sua, ha preso chiaramente posizione. Papa Francesco ha più volte sottolineato i pericoli del fondamentalismo. All’inizio della Messa dell’8 gennaio a Santa Marta, celebrata per le vittime degli attentati, ha detto: «L’attentato di ieri a Parigi ci fa pensare a tanta crudeltà, crudeltà umana». Il giorno prima aveva già manifestato «la più ferma condanna per l’orribile attentato», ricevendo l’arcivescovo di Parigi, card. Vingt-Trois, al quale ha espresso «la sua profonda vicinanza alle persone ferite».
Il card. Parolin, Segretario di Stato, ha scritto all’arcivescovo di Parigi per trasmettergli le preghiere del Papa per tutte le famiglie in lutto. Scioccati per l’odioso attentato a Parigi, il card. Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, e quattro imam francesi in visita in Vaticano hanno pubblicato una dichiarazione congiunta per condannare la strage. In essa si invitano i «credenti a manifestare attraverso l’amicizia e la preghiera la propria solidarietà umana e spirituale verso le vittime e le loro famiglie». «Senza la libertà di espressione — si legge nella dichiarazione — il mondo è in pericolo». I responsabili religiosi, avvertono il card. Tauran e gli imam, sono «chiamati a promuovere sempre una cultura di pace e di speranza». Considerando «l’impatto dei mezzi di comunicazione, si invitano i loro responsabili a offrire una informazione rispettosa delle religioni, dei loro fedeli e delle loro pratiche, promuovendo così una cultura dell’incontro». Infine la dichiarazione ribadisce che «il dialogo interreligioso permane la sola via da percorrere insieme per dissipare i pregiudizi» (Dichiarazione del card. Tauran e di una delegazione di imam francesi, giovedì 8 gennaio 2015).
Tutte le autorità religiose, in particolare musulmane, hanno manifestato la loro ferma condanna di tali attentati. A Parigi, il giornale La Croix ha potuto parlare della «rivolta delle religioni davanti al terrorismo», perché i rappresentanti delle religioni erano riuniti all’Eliseo la sera di quel giorno drammatico per i consueti auguri al Presidente della Repubblica francese.
La stessa sera del 7 gennaio in tante capitali, ma soprattutto a Parigi in Place de la République, si sono radunati migliaia di cittadini per esprimere la loro condanna di tali violenze e la difesa della libertà di espressione.
Si è osservato un minuto di silenzio sia all’Assemblea Nazionale, sia davanti alla cattedrale di Notre Dame, ma anche all’Onu, al Parlamento di Strasburgo, in tutti mezzi di trasporto pubblico e in tutti gli stadi del Paese. Le luci della Torre Eiffel sono state spente alle 20,00 a Parigi. Il presidente della Repubblica, Hollande, ha proclamato un giorno di lutto nazionale.
L’emozione era immensa. Dappertutto si vedeva scritto je suis Charlie. Ogni francese si è sentito profondamente ferito e toccato da questi assassini, come se ne fosse stato vittima un membro della propria famiglia.
* * *
Perché tanta emozione? Anzitutto per la barbarie del gesto, che va al di là di tutto ciò che si possa immaginare. Si presume che la Francia sia un territorio sicuro e pacifico. Nonostante questo, però, è stata colpita direttamente dal terrorismo. Ma c’è un altro aspetto: le vittime di questo atto — giornalisti conosciuti per la loro libertà, antimilitaristi, anarchici e molto antireligiosi (le loro caricature di Benedetto XVI erano feroci come quelle su Maometto) — erano una dimostrazione della libertà di stampa.
Il presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi, ha espresso all’ambasciatrice di Francia, Catherine Colonna, la solidarietà di tutti gli italiani davanti a una tale tragedia e ha concluso dicendo: «Siamo tutti francesi».
Come sono possibili tali atti nel XXI secolo? Bisogna analizzare questo tipo di violenza per meglio denunciarla e tentare di prevenirla.
In questa riflessione, occorre innanzitutto riconoscere da dove questa violenza non viene. Non vi è correlazione diretta con l’immigrazione musulmana. Del resto alcuni di coloro che sono partiti per fare il jihad in Siria sono francesi da generazioni, altri sono immigrati. Così coloro che si servono di questi eventi per promuovere campagne politiche contro l’immigrazione, non soltanto manifestano una mancanza di rispetto per il lutto delle famiglie, ma anche sbagliano completamente la loro analisi.
Questi attentati non sono legati in alcun modo alla pratica normale dell’islam: tutti i gruppi musulmani hanno chiaramente e fortemente denunciato questi estremismi, compresi quelli dei Paesi musulmani. Del resto essi ne sono le prime vittime collaterali.
* * *
È dunque necessario ricercare le cause. Non basta individuare i colpevoli, ma si devono identificare i motivi che hanno portato a simili atti, per evitare che si ripetano. In tali eventi, diverse cause formano generalmente il contesto in cui un individuo passa all’azione. Nessuna di queste cause è realmente sufficiente, ma messe insieme, esse possono portare a tali violenze. Tre potrebbero essere i tipi di cause che si mescolano: fattori personali, situazioni nazionali e il contesto internazionale.
Da alcuni anni il contesto internazionale ha visto svilupparsi un estremismo violento che ha prodotto, tra gli altri, gli attentati dell’11 settembre 2001. Al Qaeda ha generato diversi gruppi, sotto forme diverse, sia l’Aqmi nel Sahara, Aqpa nello Yemen, Boko Haram in Nigeria, o il cosiddetto «Stato islamico» in Siria.
Questi diversi movimenti hanno tutti in comune il rifiuto dell’Occidente, del suo modo di vita, della sua democrazia, del consumismo, della sua maniera di concepire i rapporti uomo-donna e del suo modo di viverli. Soprattutto hanno sviluppato una ideologia omicida intorno a un islamismo radicale che vuole eliminare tutti i nemici della visione fondamentalista dell’islam. Questa ideologia si è diffusa nello Yemen, in Nigeria, in Siria, in Irak, e si è trasferita perfino in Occidente, per mezzo di individui, attraverso la mediazione di predicatori estremisti. Una tale diffusione, aiutata dalle reti di comunicazione sociale, può fornire idee a persone turbolente. Lo Stato islamico è particolarmente attivo nel reclutamento in Occidente.
Il contesto sociale francese potrebbe aver giocato un ruolo in questo caso, come in altri, in particolare con Mohamed Reza, che ha ucciso 7 persone a Tolosa. Un miscuglio di problemi, di disoccupazione, di emarginazione, di carcere e di vuoto religioso può condurre individui molto fragili a un gesto estremo. Il contesto di una laicità tipicamente francese, che priva lo spazio pubblico di ogni dimensione religiosa, non aiuta a integrare i problemi spirituali degli individui.
Questi fatti esteriori, però, non sono sufficienti a spiegare il tutto. Le storie familiari e personali, l’assenza o l’incapacità educativa dei genitori, il tempo passato nelle carceri con effetti spesso devastanti possono condurre alcune personalità fragili o insicure ad attaccarsi a ideologie estreme e a lasciarsi influenzare da amici già estremisti. Come si può spiegare che circa 3.000 occidentali siano andati in Siria per fare il jihad? Molti di essi sono francesi.
* * *
L’operazione omicida contro Charlie Hebdo rivela in modo drammatico la presenza di nemici della democrazia persino all’interno di questa stessa democrazia. Alcuni lupi solitari, legati a gruppi organizzati a livello internazionale, formati alla violenza più crudele e «dormienti» per anni nel modo più banale in pieno Occidente, si risvegliano per passare all’azione. Essi costituiscono una minaccia permanente e onnipresente. Per opporvisi, la tentazione potrebbe essere quella di trasformare le nostre democrazie in società poliziesche, nelle quali sarebbe generalizzato il sospetto, specialmente nei riguardi di tutti gli immigrati e di tutti i musulmani. La soluzione non va in questa direzione, ma consiste in una maggiore attenzione all’educazione nei quartieri difficili, in un sostegno alle famiglie più fragili, all’organizzazione delle zone urbane periferiche. Questa azione pubblica a lungo termine è la migliore prevenzione. È in gioco la responsabilità degli Stati.
Le grandi manifestazioni dell’11 gennaio a Parigi e in tutta la Francia, come pure in tutto il mondo, hanno dimostrato un accordo fondamentale di tutto il Paese e di tutta l’Europa sui valori della libertà. Le autorità politiche hanno preso l’iniziativa di una forte affermazione e difesa della democrazia. La popolazione ha partecipato in massa, per manifestare la propria solidarietà alle vittime e il suo rifiuto di ogni violenza. Una tale manifestazione non c’era mai stata in Francia. Colpendo i valori del vivere insieme, questi atti di terrorismo hanno provocato una reazione sociale, umana e politica, della più grande intensità. Le folle volevano dire che la democrazia è essenziale per tutti, è viva e deve essere difesa.
* * *
Attualmente uno dei rischi peggiori è di far passare l’idea che, in fondo, questo atto di terrorismo è colpa delle religioni, e che esse impediscono la creazione di un mondo pacifico. Mentre è vero esattamente il contrario: le religioni hanno una funzione etica e spirituale importante nella società civile. Bisogna semmai combattere la loro strumentalizzazione o la loro banalizzazione.
Uno degli obiettivi principali di questi attacchi è quello di far credere che siamo in piena guerra religiosa islamica, che provoca una guerra religiosa cristiana. Non si deve cadere in questo tranello, facendo il gioco dei terroristi. La strada resta quella indicata da Papa Francesco, che giustamente ha parlato di «orribile attentato» e di «crudeltà umana», senza però dare enfasi religiose.
E occorre anche ricordare Benedetto XVI, il quale, nel suo incontro a Colonia (20 agosto 2005) con i rappresentanti di alcune comunità musulmane, aveva detto: «Non possiamo cedere alla paura, né al pessimismo. Dobbiamo piuttosto coltivare l’ottimismo e la speranza. Il dialogo interreligioso e interculturale fra cristiani e musulmani non può ridursi a una scelta stagionale. Esso è infatti una necessità vitale, da cui dipende in gran parte il nostro futuro».
Papa Francesco, nel discorso del 12 gennaio 2015 al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, ha affermato: «A una dimensione personale del rifiuto, si associa così inevitabilmente una dimensione sociale, una cultura che rigetta l’altro, recide i legami più intimi e veri, finendo per sciogliere e disgregare tutta quanta la società e per generare violenza e morte. Ne abbiamo una triste eco in numerosi fatti della cronaca quotidiana, non ultima la tragica strage avvenuta a Parigi alcuni giorni fa. Gli altri “non sono più percepiti come esseri di pari dignità, come fratelli e sorelle in umanità, ma vengono visti come oggetti” (Messaggio per la XLVIII Giornata Mondiale della Pace, 8 dicembre 2014, 4). E l’essere umano da libero diventa schiavo, ora delle mode, ora del potere, ora del denaro, talvolta perfino di forme fuorviate di religione. Sono i pericoli che ho inteso richiamare nel Messaggio per la recente Giornata Mondiale della Pace, dedicato al problema delle molteplici schiavitù moderne. Esse nascono da un cuore corrotto, incapace di vedere e operare il bene, di perseguire la pace».
Il Papa ha aggiunto: «Tale fenomeno è conseguenza della cultura dello scarto applicata a Dio. Il fondamentalismo religioso, infatti, prima ancora di scartare gli esseri umani perpetrando orrendi massacri, rifiuta Dio stesso, relegandolo a un mero pretesto ideologico».
In tale contesto, è importante la collaborazione fra tutte le religioni, sia sul campo sia nel dialogo tra loro e con i poteri pubblici. Le istanze che già esistono possono essere assistite nel loro lavoro, in modo da evitare derive della cui pericolosità ci si accorge troppo tardi. Il dialogo interreligioso in questo caso è centrale per poter orientare le nostre società verso lo scambio e non verso lo scontro o il sospetto.
La Civiltà Cattolica
© Civiltà Cattolica pag.105-110
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MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO PER LA CELEBRAZIONE DELLA GIORNATA MONDIALE DELLA PACE. 1° GENNAIO 2015
Non più schiavi, ma fratelli
1. All’inizio di un nuovo anno, che accogliamo come una grazia e un dono di Dio all’umanità, desidero rivolgere, ad ogni uomo e donna, così come ad ogni popolo e nazione del mondo, ai capi di Stato e di Governo e ai responsabili delle diverse religioni, i miei fervidi auguri di pace, che accompagno con la mia preghiera affinché cessino le guerre, i conflitti e le tante sofferenze provocate sia dalla mano dell’uomo sia da vecchie e nuove epidemie e dagli effetti devastanti delle calamità naturali. Prego in modo particolare perché, rispondendo alla nostra comune vocazione di collaborare con Dio e con tutti gli uomini di buona volontà per la promozione della concordia e della pace nel mondo, sappiamo resistere alla tentazione di comportarci in modo non degno della nostra umanità.
Nel messaggio per il 1° gennaio scorso, avevo osservato che al «desiderio di una vita piena […] appartiene un anelito insopprimibile alla fraternità, che sospinge verso la comunione con gli altri, nei quali troviamo non nemici o concorrenti, ma fratelli da accogliere ed abbracciare» (1). Essendo l’uomo un essere relazionale, destinato a realizzarsi nel contesto di rapporti interpersonali ispirati a giustizia e carità, è fondamentale per il suo sviluppo che siano riconosciute e rispettate la sua dignità, libertà e autonomia. Purtroppo, la sempre diffusa piaga dello sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo ferisce gravemente la vita di comunione e la vocazione a tessere relazioni interpersonali improntate a rispetto, giustizia e carità. Tale abominevole fenomeno, che conduce a calpestare i diritti fondamentali dell’altro e ad annientarne la libertà e dignità, assume molteplici forme sulle quali desidero brevemente riflettere, affinché, alla luce della Parola di Dio, possiamo considerare tutti gli uomini «non più schiavi, ma fratelli».
In ascolto del progetto di Dio sull’umanità
2. Il tema che ho scelto per il presente messaggio richiama la Lettera di san Paolo a Filemone, nella quale l’Apostolo chiede al suo collaboratore di accogliere Onesimo, già schiavo dello stesso Filemone e ora diventato cristiano e, quindi, secondo Paolo, meritevole di essere considerato un fratello. Così scrive l’Apostolo delle genti: «è stato separato da te per un momento: perché tu lo riavessi per sempre; non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello carissimo» (Fm 15-16). Onesimo è diventato fratello di Filemone diventando cristiano. Così la conversione a Cristo, l’inizio di una vita di discepolato in Cristo, costituisce una nuova nascita (cfr 2 Cor 5,17; 1 Pt 1,3) che rigenera la fraternità quale vincolo fondante della vita familiare e basamento della vita sociale.
Nel Libro della Genesi (cfr 1,27-28) leggiamo che Dio creò l’uomo maschio e femmina e li benedisse, affinché crescessero e si moltiplicassero: Egli fece di Adamo ed Eva dei genitori, i quali, realizzando la benedizione di Dio di essere fecondi e moltiplicarsi, generarono la prima fraternità, quella di Caino e Abele. Caino e Abele sono fratelli, perché provengono dallo stesso grembo, e perciò hanno la stessa origine, natura e dignità dei loro genitori creati ad immagine e somiglianza di Dio.
Ma la fraternità esprime anche la molteplicità e la differenza che esiste tra i fratelli, pur legati per nascita e aventi la stessa natura e la stessa dignità. In quanto fratelli e sorelle, quindi, tutte le persone sono per natura in relazione con le altre, dalle quali si differenziano ma con cui condividono la stessa origine, natura e dignità. È in forza di ciò che la fraternità costituisce la rete di relazioni fondamentali per la costruzione della famiglia umana creata da Dio.
Purtroppo, tra la prima creazione narrata nel Libro della Genesi e la nuova nascita in Cristo, che rende i credenti fratelli e sorelle del «primogenito tra molti fratelli» (Rm 8,29), vi è la realtà negativa del peccato, che più volte interrompe la fraternità creaturale e continuamente deforma la bellezza e la nobiltà dell’essere fratelli e sorelle della stessa famiglia umana. Non soltanto Caino non sopporta suo fratello Abele, ma lo uccide per invidia commettendo il primo fratricidio. «L’uccisione di Abele da parte di Caino attesta tragicamente il rigetto radicale della vocazione ad essere fratelli. La loro vicenda (cfr Gen 4,1-16) evidenzia il difficile compito a cui tutti gli uomini sono chiamati, di vivere uniti, prendendosi cura l’uno dell’altro» (2).
Anche nella storia della famiglia di Noè e dei suoi figli (cfr Gen 9,18-27), è l’empietà di Cam nei confronti del padre Noè che spinge quest’ultimo a maledire il figlio irriverente e a benedire gli altri, quelli che lo avevano onorato, dando luogo così a una disuguaglianza tra fratelli nati dallo stesso grembo.
Nel racconto delle origini della famiglia umana, il peccato di allontanamento da Dio, dalla figura del padre e dal fratello diventa un’espressione del rifiuto della comunione e si traduce nella cultura dell’asservimento (cfr Gen 9,25-27) con le conseguenze che ciò implica e che si protraggono di generazione in generazione: rifiuto dell’altro, maltrattamento delle persone, violazione della dignità e dei diritti fondamentali, istituzionalizzazione di diseguaglianze. Di qui, la necessità di una conversione continua all’Alleanza, compiuta dall’oblazione di Cristo sulla croce, fiduciosi che «dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia […] per mezzo di Gesù Cristo» (Rm 5,20.21). Egli, il Figlio amato (cfr Mt 3,17), è venuto per rivelare l’amore del Padre per l’umanità. Chiunque ascolta il Vangelo e risponde all’appello alla conversione diventa per Gesù «fratello, sorella e madre» (Mt 12,50), e pertanto figlio adottivo di suo Padre (cfr Ef 1,5).
Non si diventa però cristiani, figli del Padre e fratelli in Cristo, per una disposizione divina autoritativa, senza l’esercizio della libertà personale, cioè senza convertirsi liberamente a Cristo. L’essere figlio di Dio segue l’imperativo della conversione: «Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo» (At 2,38). Tutti quelli che hanno risposto con la fede e la vita a questa predicazione di Pietro sono entrati nella fraternità della prima comunità cristiana (cfr 1 Pt 2,17; At 1,15.16; 6,3; 15,23): ebrei ed ellenisti, schiavi e uomini liberi (cfr 1 Cor 12,13; Gal 3,28), la cui diversità di origine e stato sociale non sminuisce la dignità di ciascuno né esclude alcuno dall’appartenenza al popolo di Dio. La comunità cristiana è quindi il luogo della comunione vissuta nell’amore tra i fratelli (cfr Rm 12,10; 1 Ts 4,9; Eb 13,1; 1 Pt 1,22; 2 Pt 1,7).
Tutto ciò dimostra come la Buona Novella di Gesù Cristo, mediante il quale Dio fa «nuove tutte le cose» (Ap 21,5) (3), sia anche capace di redimere le relazioni tra gli uomini, compresa quella tra uno schiavo e il suo padrone, mettendo in luce ciò che entrambi hanno in comune: la filiazione adottiva e il vincolo di fraternità in Cristo. Gesù stesso disse ai suoi discepoli: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15).
I molteplici volti della schiavitù ieri e oggi
3. Fin da tempi immemorabili, le diverse società umane conoscono il fenomeno dell’asservimento dell’uomo da parte dell’uomo. Ci sono state epoche nella storia dell’umanità in cui l’istituto della schiavitù era generalmente accettato e regolato dal diritto. Questo stabiliva chi nasceva libero e chi, invece, nasceva schiavo, nonché in quali condizioni la persona, nata libera, poteva perdere la propria libertà, o riacquistarla. In altri termini, il diritto stesso ammetteva che alcune persone potevano o dovevano essere considerate proprietà di un’altra persona, la quale poteva liberamente disporre di esse; lo schiavo poteva essere venduto e comprato, ceduto e acquistato come se fosse una merce.
Oggi, a seguito di un’evoluzione positiva della coscienza dell’umanità, la schiavitù, reato di lesa umanità (4), è stata formalmente abolita nel mondo. Il diritto di ogni persona a non essere tenuta in stato di schiavitù o servitù è stato riconosciuto nel diritto internazionale come norma inderogabile.
Eppure, malgrado la comunità internazionale abbia adottato numerosi accordi al fine di porre un termine alla schiavitù in tutte le sue forme e avviato diverse strategie per combattere questo fenomeno, ancora oggi milioni di persone — bambini, uomini e donne di ogni età — vengono private della libertà e costrette a vivere in condizioni assimilabili a quelle della schiavitù.
Penso a tanti lavoratori e lavoratrici, anche minori, asserviti nei diversi settori, a livello formale e informale, dal lavoro domestico a quello agricolo, da quello nell’industria manifatturiera a quello minerario, tanto nei Paesi in cui la legislazione del lavoro non è conforme alle norme e agli standard minimi internazionali, quanto, sia pure illegalmente, in quelli la cui legislazione tutela il lavoratore.
Penso anche alle condizioni di vita di molti migranti che, nel loro drammatico tragitto, soffrono la fame, vengono privati della libertà, spogliati dei loro beni o abusati fisicamente e sessualmente. Penso a quelli tra di loro che, giunti a destinazione dopo un viaggio durissimo e dominato dalla paura e dall’insicurezza, sono detenuti in condizioni a volte disumane. Penso a quelli tra loro che le diverse circostanze sociali, politiche ed economiche spingono alla clandestinità, e a quelli che, per rimanere nella legalità, accettano di vivere e lavorare in condizioni indegne, specie quando le legislazioni nazionali creano o consentono una dipendenza strutturale del lavoratore migrante rispetto al datore di lavoro, ad esempio condizionando la legalità del soggiorno al contratto di lavoro… Sì, penso al «lavoro schiavo».
Penso alle persone costrette a prostituirsi, tra cui ci sono molti minori, e alle schiave e agli schiavi sessuali; alle donne forzate a sposarsi, a quelle vendute in vista del matrimonio o a quelle trasmesse in successione ad un familiare alla morte del marito senza che abbiano il diritto di dare o non dare il proprio consenso.
Non posso non pensare a quanti, minori e adulti, sono fatti oggetto di traffico e di mercimonio per l’espianto di organi, per essere arruolati come soldati, per l’accattonaggio, per attività illegali come la produzione o vendita di stupefacenti, o per forme mascherate di adozione internazionale.
Penso infine a tutti coloro che vengono rapiti e tenuti in cattività da gruppi terroristici, asserviti ai loro scopi come combattenti o, soprattutto per quanto riguarda le ragazze e le donne, come schiave sessuali. Tanti di loro spariscono, alcuni vengono venduti più volte, seviziati, mutilati, o uccisi.
Alcune cause profonde della schiavitù
4. Oggi come ieri, alla radice della schiavitù si trova una concezione della persona umana che ammette la possibilità di trattarla come un oggetto. Quando il peccato corrompe il cuore dell’uomo e lo allontana dal suo Creatore e dai suoi simili, questi ultimi non sono più percepiti come esseri di pari dignità, come fratelli e sorelle in umanità, ma vengono visti come oggetti. La persona umana, creata ad immagine e somiglianza di Dio, con la forza, l’inganno o la costrizione fisica o psicologica viene privata della libertà, mercificata, ridotta a proprietà di qualcuno; viene trattata come un mezzo e non come un fine.
Accanto a questa causa ontologica — rifiuto dell’umanità nell’altro —, altre cause concorrono a spiegare le forme contemporanee di schiavitù. Tra queste, penso anzitutto alla povertà, al sottosviluppo e all’esclusione, specialmente quando essi si combinano con il mancato accesso all’educazione o con una realtà caratterizzata da scarse, se non inesistenti, opportunità di lavoro. Non di rado, le vittime di traffico e di asservimento sono persone che hanno cercato un modo per uscire da una condizione di povertà estrema, spesso credendo a false promesse di lavoro, e che invece sono cadute nelle mani delle reti criminali che gestiscono il traffico di esseri umani. Queste reti utilizzano abilmente le moderne tecnologie informatiche per adescare giovani e giovanissimi in ogni parte del mondo.
Anche la corruzione di coloro che sono disposti a tutto per arricchirsi va annoverata tra le cause della schiavitù. Infatti, l’asservimento ed il traffico delle persone umane richiedono una complicità che spesso passa attraverso la corruzione degli intermediari, di alcuni membri delle forze dell’ordine o di altri attori statali o di istituzioni diverse, civili e militari. «Questo succede quando al centro di un sistema economico c’è il dio denaro e non l’uomo, la persona umana. Sì, al centro di ogni sistema sociale o economico deve esserci la persona, immagine di Dio, creata perché fosse il dominatore dell’universo. Quando la persona viene spostata e arriva il dio denaro si produce questo sconvolgimento di valori» (5).
Altre cause della schiavitù sono i conflitti armati, le violenze, la criminalità e il terrorismo. Numerose persone vengono rapite per essere vendute, oppure arruolate come combattenti, oppure sfruttate sessualmente, mentre altre si trovano costrette a emigrare, lasciando tutto ciò che possiedono: terra, casa, proprietà, e anche i familiari. Queste ultime sono spinte a cercare un’alternativa a tali condizioni terribili anche a rischio della propria dignità e sopravvivenza, rischiando di entrare, in tal modo, in quel circolo vizioso che le rende preda della miseria, della corruzione e delle loro perniciose conseguenze.
Un impegno comune per sconfiggere la schiavitù
5. Spesso, osservando il fenomeno della tratta delle persone, del traffico illegale dei migranti e di altri volti conosciuti e sconosciuti della schiavitù, si ha l’impressione che esso abbia luogo nell’indifferenza generale.
Se questo è, purtroppo, in gran parte vero, vorrei ricordare l’enorme lavoro silenzioso che molte congregazioni religiose, specialmente femminili, portano avanti da tanti anni in favore delle vittime. Tali istituti operano in contesti difficili, dominati talvolta dalla violenza, cercando di spezzare le catene invisibili che tengono legate le vittime ai loro trafficanti e sfruttatori; catene le cui maglie sono fatte sia di sottili meccanismi psicologici, che rendono le vittime dipendenti dai loro aguzzini, tramite il ricatto e la minaccia ad essi e ai loro cari, ma anche attraverso mezzi materiali, come la confisca dei documenti di identità e la violenza fisica. L’azione delle congregazioni religiose si articola principalmente intorno a tre opere: il soccorso alle vittime, la loro riabilitazione sotto il profilo psicologico e formativo e la loro reintegrazione nella società di destinazione o di origine.
Questo immenso lavoro, che richiede coraggio, pazienza e perseveranza, merita apprezzamento da parte di tutta la Chiesa e della società. Ma esso da solo non può naturalmente bastare per porre un termine alla piaga dello sfruttamento della persona umana. Occorre anche un triplice impegno a livello istituzionale di prevenzione, di protezione delle vittime e di azione giudiziaria nei confronti dei responsabili. Inoltre, come le organizzazioni criminali utilizzano reti globali per raggiungere i loro scopi, così l’azione per sconfiggere questo fenomeno richiede uno sforzo comune e altrettanto globale da parte dei diversi attori che compongono la società.
Gli Stati dovrebbero vigilare affinché le proprie legislazioni nazionali sulle migrazioni, sul lavoro, sulle adozioni, sulla delocalizzazione delle imprese e sulla commercializzazione di prodotti realizzati mediante lo sfruttamento del lavoro siano realmente rispettose della dignità della persona. Sono necessarie leggi giuste, incentrate sulla persona umana, che difendano i suoi diritti fondamentali e li ripristinino se violati, riabilitando chi è vittima e assicurandone l’incolumità, nonché meccanismi efficaci di controllo della corretta applicazione di tali norme, che non lascino spazio alla corruzione e all’impunità. È necessario anche che venga riconosciuto il ruolo della donna nella società, operando anche sul piano culturale e della comunicazione per ottenere i risultati sperati.
Le organizzazioni intergovernative, conformemente al principio di sussidiarietà, sono chiamate ad attuare iniziative coordinate per combattere le reti transnazionali del crimine organizzato che gestiscono la tratta delle persone umane ed il traffico illegale dei migranti. Si rende necessaria una cooperazione a diversi livelli, che includa cioè le istituzioni nazionali ed internazionali, così come le organizzazioni della società civile e il mondo imprenditoriale.
Le imprese (6), infatti, hanno il dovere di garantire ai loro impiegati condizioni di lavoro dignitose e stipendi adeguati, ma anche di vigilare affinché forme di asservimento o traffico di persone umane non abbiano luogo nelle catene di distribuzione. Alla responsabilità sociale dell’impresa si accompagna poi la responsabilità sociale del consumatore. Infatti, ciascuna persona dovrebbe avere la consapevolezza che «acquistare è sempre un atto morale, oltre che economico» (7).
Le organizzazioni della società civile, dal canto loro, hanno il compito di sensibilizzare e stimolare le coscienze sui passi necessari a contrastare e sradicare la cultura dell’asservimento.
Negli ultimi anni, la Santa Sede, accogliendo il grido di dolore delle vittime della tratta e la voce delle congregazioni religiose che le accompagnano verso la liberazione, ha moltiplicato gli appelli alla comunità internazionale affinché i diversi attori uniscano gli sforzi e cooperino per porre termine a questa piaga (8). Inoltre, sono stati organizzati alcuni incontri allo scopo di dare visibilità al fenomeno della tratta delle persone e di agevolare la collaborazione tra diversi attori, tra cui esperti del mondo accademico e delle organizzazioni internazionali, forze dell’ordine di diversi Paesi di provenienza, di transito e di destinazione dei migranti, e rappresentanti dei gruppi ecclesiali impegnati in favore delle vittime. Mi auguro che questo impegno continui e si rafforzi nei prossimi anni.
Globalizzare la fraternità, non la schiavitù né l’indifferenza
6. Nella sua opera di «annuncio della verità dell’amore di Cristo nella società» (9), la Chiesa si impegna costantemente nelle azioni di carattere caritativo a partire dalla verità sull’uomo. Essa ha il compito di mostrare a tutti il cammino verso la conversione, che induca a cambiare lo sguardo verso il prossimo, a riconoscere nell’altro, chiunque sia, un fratello e una sorella in umanità, a riconoscerne la dignità intrinseca nella verità e nella libertà, come ci illustra la storia di Giuseppina Bakhita, la santa originaria della regione del Darfur in Sudan, rapita da trafficanti di schiavi e venduta a padroni feroci fin dall’età di nove anni, e diventata poi, attraverso dolorose vicende, «libera figlia di Dio» mediante la fede vissuta nella consacrazione religiosa e nel servizio agli altri, specialmente i piccoli e i deboli. Questa Santa, vissuta fra il XIX e il XX secolo, è anche oggi testimone esemplare di speranza (10) per le numerose vittime della schiavitù e può sostenere gli sforzi di tutti coloro che si dedicano alla lotta contro questa «piaga nel corpo dell’umanità contemporanea, una piaga nella carne di Cristo» (11).
In questa prospettiva, desidero invitare ciascuno, nel proprio ruolo e nelle proprie responsabilità particolari, a operare gesti di fraternità nei confronti di coloro che sono tenuti in stato di asservimento. Chiediamoci come noi, in quanto comunità o in quanto singoli, ci sentiamo interpellati quando, nella quotidianità, incontriamo o abbiamo a che fare con persone che potrebbero essere vittime del traffico di esseri umani, o quando dobbiamo scegliere se acquistare prodotti che potrebbero ragionevolmente essere stati realizzati attraverso lo sfruttamento di altre persone. Alcuni di noi, per indifferenza, o perché distratti dalle preoccupazioni quotidiane, o per ragioni economiche, chiudono un occhio. Altri, invece, scelgono di fare qualcosa di positivo, di impegnarsi nelle associazioni della società civile o di compiere piccoli gesti quotidiani — questi gesti hanno tanto valore! — come rivolgere una parola, un saluto, un «buongiorno» o un sorriso, che non ci costano niente ma che possono dare speranza, aprire strade, cambiare la vita ad una persona che vive nell’invisibilità, e anche cambiare la nostra vita nel confronto con questa realtà.
Dobbiamo riconoscere che siamo di fronte ad un fenomeno mondiale che supera le competenze di una sola comunità o nazione. Per sconfiggerlo, occorre una mobilitazione di dimensioni comparabili a quelle del fenomeno stesso. Per questo motivo lancio un pressante appello a tutti gli uomini e le donne di buona volontà, e a tutti coloro che, da vicino o da lontano, anche ai più alti livelli delle istituzioni, sono testimoni della piaga della schiavitù contemporanea, di non rendersi complici di questo male, di non voltare lo sguardo di fronte alle sofferenze dei loro fratelli e sorelle in umanità, privati della libertà e della dignità, ma di avere il coraggio di toccare la carne sofferente di Cristo (12), che si rende visibile attraverso i volti innumerevoli di coloro che Egli stesso chiama «questi miei fratelli più piccoli» (Mt 25,40.45).
Sappiamo che Dio chiederà a ciascuno di noi: «Che cosa hai fatto del tuo fratello?» (cfr Gen 4,9-10). La globalizzazione dell’indifferenza, che oggi pesa sulle vite di tante sorelle e di tanti fratelli, chiede a tutti noi di farci artefici di una globalizzazione della solidarietà e della fraternità, che possa ridare loro la speranza e far loro riprendere con coraggio il cammino attraverso i problemi del nostro tempo e le prospettive nuove che esso porta con sé e che Dio pone nelle nostre mani.
Dal Vaticano, 8 dicembre 2014
FRANCISCUS
1.Papa Francesco, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2014, n. 1.
2. Ivi, n. 2.
3. Cfr Id., Esortazione apostolica Evangelii gaudium, n. 11.
4. Cfr Id., Discorso alla Delegazione internazionale dell’Associazione di Diritto Penale, 23 ottobre 2014, in Oss. Rom., 24 ottobre 2014, 4.
5. Id., Discorso ai partecipanti all’Incontro mondiale dei Movimenti popolari, 28 ottobre 2014, in Oss. Rom., 29 ottobre 2014, 7.
6. Cfr Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, La vocazione del leader d’impresa. Una riflessione, Milano e Roma, 2013.
7. Benedetto XVI, Lettera enciclica Caritas in veritate, n. 66.
8. Cfr Papa Francesco, Messaggio al sig. Guy Ryder, Direttore Generale dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, in occasione della 103ª sessione della Conferenza dell’Oil, 22 maggio 2014, in Oss. Rom., 29 maggio 2014, 7.
9. Benedetto XVI, Lettera enciclica Caritas in veritate, n. 5.
10. «Mediante la conoscenza di questa speranza lei era “redenta”, non si sentiva più schiava, ma libera figlia di Dio. Capiva ciò che Paolo intendeva quando ricordava agli Efesini che prima erano senza speranza e senza Dio nel mondo – senza speranza perché senza Dio» (Benedetto XVI, Lettera enciclica Spe salvi, n. 3).
11. Papa Francesco, Discorso ai partecipanti alla II Conferenza Internazionale «Combating Human Trafficking: Church and Law Enforcement in Partnership», 10 aprile 2014, in Oss. Rom., 11 aprile 2014, 7; cfr Id., Esortazione apostolica Evangelii gaudium, n. 270.
12. Cfr Id., Esortazione apostolica Evangelii gaudium, nn. 24; 270.