
Nella cultura occidentale, principio, creazione e comando sono strettamente intrecciati. L’arché, l’origine, è sempre già anche il comando, l’inizio è sempre anche il principio – il «principe» – che governa e comanda. Questo è vero tanto in teologia, dove Dio non solo crea il mondo, ma lo governa e non cessa di governarlo attraverso una creazione continua, quanto nella tradizione filosofica e politica, in cui principio e creazione, comando e volontà formano insieme un dispositivo strategico senza il quale l’edificio della nostra società crollerebbe.
I cinque scritti qui raccolti cercano di disinnescare questo dispositivo attraverso una paziente indagine archeologica dei concetti di opera (Archeologia dell’opera d’arte), creazione (Che cos’è l’atto di creazione), comando e volontà (Che cos’è un comando). Il territorio dell’arché viene percorso ed esplorato in ogni senso alla ricerca di una via di uscita an-archica. Finché, nel testo che chiude il libro (Il capitalismo come religione), l’anarchia appare come il centro segreto del potere, che si tratta di portare alla luce, perché un pensiero che abbia deposto tanto il principio che il suo comando diventi possibile.
Nel paesaggio politico contemporaneo, in cui domina ancora lo Stato-nazione, il migrante è il malvenuto, accusato di essere fuori luogo, di occupare il posto altrui. Eppure non esiste alcun diritto sul territorio che possa giustificare la politica sovranista del respingimento. In un'etica che guarda alla giustizia globale, Donatella Di Cesare con limpidezza concettuale e un passo a tratti narrativo riflette sul significato ultimo del migrare, dando prova anche qui di saper andare subito al cuore della questione. Abitare e migrare non si contrappongono, come vorrebbe il senso comune, ancora preda dei vecchi fantasmi dello jus sanguinis e dello jus soli. In ogni migrante si deve invece riconoscere la figura dello «straniero residente», il vero protagonista del libro. Atene, Roma, Gerusalemme sono i modelli di città esaminati, in un affresco superbo, per interrogarsi sul tema decisivo e attuale della cittadinanza. Nella nuova età dei muri, in un mondo costellato da campi di internamento per stranieri, che l'Europa pretende di tenere alle sue porte, Di Cesare sostiene una politica dell'ospitalità, fondata sulla separazione dal luogo in cui si risiede, e propone un nuovo senso del coabitare.
I termini «crociata» e «jihad» sono spesso usati per indicare due facce della stessa medaglia: la strenua opposizione religiosa, e anche politica e militare, tra cristianesimo e islam. Non sempre però è stato così, e questa semplificazione nasconde differenze cruciali. Se da un lato oggi possono essere sinonimi di ambizione per il potere e per il saccheggio e di lotta per l'imposizione del proprio credo religioso, dall'altro entrambi - nel corso della storia - hanno ispirato atti di cavalleria ed eroismo. Malcolm Lambert, tra i più preparati medievalisti europei, indaga in modo equilibrato la storia del cristianesimo e dell'islam e rintraccia le origini e lo sviluppo dei concetti di crociata e jihad in un grande affresco che abbraccia mezzo millennio e racconta le gesta eroiche e tragiche dei grandi personaggi del passato. Riccardo Cuor di Leone, Nur al-Din, Saladino, Baybars e Gengis Khan sono solo alcuni dei protagonisti degli scontri, anche ideologici, ferocemente combattuti per il controllo dei luoghi sacri del Medio Oriente tra il VII e il XIII secolo. Con rigore scientifico Lambert dipana questa epica e terribile avventura fatta di battaglie cruente e sacrifici esemplari e giunge fino alle più attuali ed estreme conseguenze di quello che oggi ha assunto le sembianze di uno «scontro di civiltà».
Pubblicato la prima volta in Francia nel 1962 "Lo spirito del tempo" è stato il primo studio apparso in Europa sulla cultura di massa. Nelle due parti in cui si articola l'opera Morin analizza forme, contenuti, meccanismi ed effetti della cultura di massa riuscendo a dimostrare come questa non sia solo un nuovo strumento per fughe immaginarie dal mondo, ma anche produzione di precise modalità di partecipazione alla realtà del XX secolo.
Come è stato possibile l'Olocausto? Come "spiegare" razionalmente ciò che sembra eccedere ogni misura razionale? Si situa in questo contesto problematico l'incontro di Hannah Arendt con Franz Kafka. Storicamente documentato da una conferenza tenuta nel 1944 a Mount Holykoke, a pochi mesi dalla fine della seconda guerra mondiale, e dalla scoperta della tragedia del genocidio, il rapporto con lo scrittore praghese si rivela essere cruciale nel progetto teorico perseguito da Arendt. Secondo la filosofa, Kafka ha compreso fino in fondo - ed espresso mediante parabole - un assunto che ella aveva condiviso, attraverso un'adesione non solo intellettuale, ma anche psicologica ed emotiva. Aveva individuato nell'uomo, nell'enigma dell'uomo, nell'imperscrutabilità della sua essenza più profonda, negli abissi di quello che è destinato comunque a restare un mistero, l'origine del male, in tutte le sue manifestazioni individuali e sociali. Kafka è "pensatore politico" - come Arendt lo definisce - proprio perché è la guida più affidabile per esplorare gli intrecci che connettono etica e politica, e che ritrovano nell'individuo la radice delle forme politiche.
«La Sezione prima degli Opera Omnia di Henri de Lubac si sostanzia di quattro scritti che, sotto il titolo Luomo davanti a Dio, sono ricondotti dallo stesso Autore a questo ordine: 1. Sulle vie di Dio; 2. Il dramma dell'umanesimo ateo; 3. Vroudhon e il Cristianesimo; 4. Paradossi e Nuovi Paradossi. L'intento non è stato quello di una proposizione cronologica, ma dell'articolazione dei nuclei tematici del lavoro e della riflessione teologici e storico-teologici dell'Autore. [...] Dovessimo trovare, per quanto ci è dato osservare, un centro, non sistematico ma genetico, a questo plesso di opere, attorno a cui far gravitare l'impegno circoscritto di questa produzione letteraria, lo vedremmo in quel dialogo "disarmato" tra due ventenni, un gesuita o meglio aspirante gesuita e un neo-insegnante non credente, nelle trincee della Grande Guerra. Ci pare che il fatto, insistentemente ricordato dal teologo, conferisca l'intensità al titolo stesso scelto per la sezione e alla sua problematicità. E ci pare che esso sia ciò che concretamente segna il fuoco o l'anima dell'impegno intellettuale di de Lubac, almeno per questa sezione. [...] "La critica dell'idea di Dio in Proudhon - sottolinea de Lubac -, non porta come in Comte o in Feuerbach, a mettere l'uomo al posto di Dio [...] la religione di Proudhon non è incentrata sull'Umanità, ma sulla Giustizia. Se il problema di Dio, per certi riguardi, rimane in sospeso, la giustizia si impone assolutamente alla coscienza." La Giustizia per Proudhon è definita in tanti modi, ma è così definibile perché gode di una "pienezza che non si può definire che religiosa"» (Dall'Introduzione di Costante Marabelli alla Sezione prima dell'Opera Omnia)
Come abitare lo sviluppo? In un contesto di scarsità di risorse, perché investire soldi nella ricerca di un enhancement per pochi invece di cercare cure per le malattie di molti? Se i teorici dell'enhancement si chiedono quante innovazioni sia possibile sviluppare, la mia domanda verte sul perché dei prodotti dello sviluppo. Perché si sviluppano determinate tecnologie? Perché si vendono? Perché sono necessarie alle nostre forze militari? Perché garantiscono a una nazione la supremazia sulle altre?
La filosofia come genere letterario comincia con il dubbio, con un "no". Non è vero quel che gli uomini ritengono vero in generale, non è giusto, né bello né buono quel che è generalmente riconosciuto come tale. Così anche tutte le filosofie iniziano con il dubbio. Gli allievi di Socrate imparano dal loro maestro a dubitare di tutto quel che hanno dato per scontato. Il loro amato Omero mente sugli dèi: non è meglio essere ingiusti che subire ingiustizia. Devono imparare a dubitare della giustizia delle leggi e della morale della loro città. Questo è l'inizio della sapienza. Eppure, mentre gli allievi di Socrate devono imparare a dubitare, il loro maestro non dubita: egli è in possesso della verità indubitabile. Questa verità è la sicurezza stessa, il fondamento dell'essere umano.
Parlare d'amore oggi è fin troppo facile. La parola è abusata fino al logoramento, e per lo più risuona nel suo significato 'romantico': il sentimento di fusione con l'essere amato, l'appagamento di un desiderio di realizzazione che, a ben vedere, rimanda infine all'atteggiamento narcisistico sempre più diffuso. Si può superare questa accezione emotiva e superficiale dell'amore e parlarne da un'altra prospettiva? E si può, partendo da un'esperienza più autentica di amore umano, rivelare un nuovo e più profondo significato della parola Dio? Tomás Halík ne è convinto e si dedica all'impresa in questo saggio acuto, di godibilissima scrittura, ricco di riferimenti letterari e filosofi-ci, aperto ai fermenti più vivi della cultura laica. E incontra subito sant'Agostino, cui è attribuita la frase che ha scelto come titolo: Amo: volo ut sis, «Amo: voglio che tu sia». Perfetta sintesi, egli dice, del vero significato della parola amore, in controtendenza rispetto al sentire comune: facendo propria questa frase, l'io non si limita a prendere coscienza dell'esistenza dell'altro, ma la accoglie come componente fondamentale che arricchisce la sua vita, che impedisce al suo mondo di diventare terribilmente vuoto e grigio. Il vero amore umano chiede dunque di cambiare prospettiva, di avere il coraggio di dimentica-re se stessi in forza degli altri. Proprio per questo l'amore è un tema profondamente religioso, capace allo stesso tempo di parlare alle coscienze odierne per le quali il discorso cristiano suona come una lingua sconosciuta o dimenticata da tempo. Perché il Dio amore, lungi dall'essere il Dio banale stigmatizzato da Nietzsche, è un Dio che invita tutti, credenti e non credenti - 'residenti' e 'cercatori', come preferisce definirli Halík - alla magnifica danza dell'amore «in cui si fondono cielo e terra, grazia e natura, divino e umano, la Trinità divina e le tre virtù attraverso le quali entriamo danzando nell'eternità».
Simone Weil (1909-1943) ha manifestato, nell’arco di tutta la sua breve esistenza, una responsabilità insieme intellettuale, morale e politica, che conferisce alla sua opera una coerenza che non smette di interrogarci: l’impegno politico, l’insegnamento, il lavoro in fabbrica, la partecipazione alla guerra civile in Spagna e infine la ricerca ossessiva di un coinvolgimento diretto nella lotta di resistenza, tutto è vissuto con il desiderio di attraversare con la mente e il corpo i drammi e i problemi del suo tempo. Ella ha vissuto con straordinaria intelligenza quella volontà di comprendere la natura reale dei problemi per cercare un principio, una sorgente diversa dalla forza che in qualche modo ne limiti l’eccesso e che va costantemente alimentata e costruita dentro di sé come un’architettura: «Il fine della vita umana è costruire un’architettura nell’anima». Figlia del suo tempo, ne ha attraversato con la mente e il corpo i problemi e i drammi, sollevando questioni che sono ancora le nostre: prima fra tutte, quella dello “sradicamento”, ossia la dismisura e lo squilibrio provocati dall’egemonia della forza che spalanca l’abisso del malheur, della sventura che può ridurre l’uomo a cosa. Le domande poste da Simone Weil continuano a risuonare in noi, nella convinzione che solo da un rinnovamento radicale del pensiero e del pensare può nascere un nuovo “equilibrio” tra l’uomo e le cose, o meglio, tra l’uomo, il cosmo e il divino.
C'è una razionalità propria della politica? Da questa razionalità consegue un male specificatamente politico? Domande che per Ricoeur definiscono il "paradosso politico", a partire dal quale s'è confrontato con Hannah Arendt. Un dialogo attorno alle categorie di potere, potenza, autorità, forza e violenza con cui la Arendt - maestra delle "distinzioni" - ha indagato da un lato l'incarnazione novecentesca del male politico, il totalitarismo, dall'altro un modo d'essere della politica che fuoriesca dalla equazione "potere = forza+violenza". Il potere e l'autorità - questa per Ricoeur è l'eredità della Arendt - sono un argine al male politico. Quando il potere - come azione che contrasta la fragilità del mondo - non dimentica la sua radice nel miracolo terreno: la natalità, l'accadere dell'inatteso. Un'eredità che è anche dell'antropologia filosofica delineata in Vita adiva, con le distinzioni tra lavoro, opera e azione.