
Che cosa lega logica e mistica, linguaggio e forma di vita? L'aspetto più affascinante del pensiero di Ludwig Wittgenstein è affrontato in queste pagine dal grande storico della filosofia antica Pierre Hadot. E cioè proprio da chi ebbe il merito di introdurre, alla fine degli anni cinquanta, il pensiero di Wittgenstein in Francia, con una serie di conferenze tenute presso il College Philosophique diretto da Jean Wahl. I quattro saggi scritti tra il 1959 e il 1962 e qui riuniti da Hadot costituiscono un itinerario unico nel suo genere: il filosofo, e non lo storico o lo specialista, si interroga sulla natura dell'indicibilità che il Tractatus logico-philosophicus ha svelato nel cuore del linguaggio, e la reinterpreta alla luce delle nozioni centrali delle Ricerche filosofiche, quelle di "gioco linguistico" e di "forma di vita". Questo libro famoso ci pone con la sua prosa piana e felice di fronte a un'immagine nuova e più vicina di Wittgenstein, l'immagine che ha poi ispirato l'idea centrale dell'opera di Hadot: il linguaggio filosofico, e dunque l'essenza della filosofia, è un'attività, o meglio un "esercizio spirituale".
Caratteristica peculiare dell'approccio arendtiano all'interpretazione dell'esperimento totalitario - di cui i campi di concentramento sono l'"istituzione centrale" - è la "cristallizzazione" storica di due elementi strutturali che troviamo alle origini della Grande Tradizione occidentale: da un lato la metamorfosi della politica in biopolitica; dall'altro la perdita della concezione del potere come dynamis e come spazio del tra a favore della razionalità onnipervasiva dell'homo faber. Dentro tale cornice si dipana il fil rouge che lega i saggi contenuti in questo volume: alcuni di essi ruotano intorno alla "teoria politica del giudizio" proposta da Hannah Arendt, relativa a quale forma etico-politica assuma l'atto prettamente umano del giudicare quando l'oggetto del giudizio sono esseri umani o azioni che sembrano aver perso del tutto ogni connotazione "umana"; gli altri esplorano il suo ardito tentativo di "ripensare il totalitarismo", sia in riferimento ai terrificanti e per tanti versi inconcepibili eventi che hanno marchiato indelebilmente il secolo scorso, sia applicando le categorie interpretative dell'ermeneutica arendtiana del totalitarismo alla contemporaneità e alle perverse dinamiche politiche del presente.
Frankfurt esamina l'idea di "verità": esiste? è davvero importante? Attingendo alla logica, alla linguistica, alla filosofia morale, a esempi quotidiani e passi di autori come Spinoza o Shakespeare, Frankfurt dimostra che conoscere la verità (o alcune verità) è di vitale importanza per la società e per la nostra stessa vita personale. Per questo i filosofi postmoderni che ritengono impossibile distinguere tra vero e falso forse, in fondo in fondo, non dicono la "verità".
La teoria e la pratica della meditazione stanno conquistando, un anno dopo l'altro, sempre più spazio nella società attuale. Importanti sono certamente la meditazione del buddhismo e dello yoga, così come quella cristiana. Ma in questo scenario, un ruolo determinante è interpretato dalla dottrina taoista e in particolar modo dal suo versante esperienziale. In un unico volume vengono riuniti tre testi fondamentali del taoismo - "Il Tao-te-ching", "Il maestro dei segreti celesti" e "Il trattato del sedersi nell'oblìo" - ognuno capace di veicolare i contenuti sapienziali di una vitale tradizione culturale e religiosa.
Viene qui riproposto il capolavoro di uno dei maggiori filosofi del Seicento, con il testo originale a fronte e con il nutrito commento di Giovanni Gentile. Le dottrine metafisiche e gnoseologiche possono essere considerate come propedeutiche alla definizione di una teoria morale che si propone di liberare gli uomini dalle passioni. E dal momento che il riconoscimento della necessità della sostanza divina è per Spinoza il concetto fondamentale della concezione della realtà e della conoscenza, esso costituirà anche il perno concettuale della sua costruzione etica.
La riflessione epistemologica di Michael Polanyi può, a buon diritto, annoverarsi come una delle più interessanti ed originali espressioni della cosiddetta "nuova filosofia della scienza". Essa ha la sua espressione più compiuta nella definizione della conoscenza scientifica come "conoscenza personale", che trova nel presente testo tutti gli elementi della futura elaborazione, corredati per di più dalle splendide e rivelative metafore del "golfista" e dello "scassinatore".
Jankélévitch conferma in questo "Corso" la fecondità di un pensiero che parla di morale senza cadere nel moralismo, scava nei concetti evitando il concettualismo e coniuga il dovere con l'amore, muovendo dall'importanza che l'intenzione e la volontà hanno nell'esperienza morale. Né Husserl né Heidegger ma Pascal e Tolstoj sono i riferimenti dell'autore, filosofo laico ma attento alla lezione dei mistici, oltre che a quella dei classici (Platone, Aristotele, Agostino). Queste lezioni sono esemplarmente indicative della ricchezza spirituale che la filosofia può dare all'individuo.
Tra le "Vite dei filosofi all'asta" e "La morte di Peregrino" si apre una medesima scena e si svolge, al contempo, una medesima vicenda del pensiero: è un teatro e una storia della mimesi, con la giostra - un po' folle e bislacca - delle copie, delle imitazioni, dei simulacri che danzano ormai liberi e festeggianti sulla morte, inequivocabilmente definitiva, della verità. Il grande cadavere è quello della filosofia platonica e di tutte le filosofie che, sulle orme di Platone, hanno voluto porsi sul piedistallo della virtù e della conoscenza vera. Così Luciano, il grande scrittore di Samosata (II secolo d.C.), mette in vendita, anzi in svendita, tutte le filosofie possibili sulla piazza del mercato ed erige un grande rogo su cui, simbolicamente, con l'impostura di Peregrino, sale anche tutta quella vanagloria filosofica che ha spirato con potenti soffi di alterigia per secoli e secoli. Da queste ceneri possono così rinascere la scrittura e il racconto, liberati dai sequestri e dalle ipoteche della verità e della virtù, del bene e della politica. Ha l'aria della vendetta, tutto ciò, e lo è certamente. Ma è anche qualcosa in più. Questa scena, allestita da Luciano tra le "Vite" e il "Peregrino", è una delle riflessioni più profondamente filosofiche che sia dato di leggere sul "ragno implicito" di ogni filosofia: l'ipocrita recita dell'esemplarità. Se poi questa recita ha già trovato dei pericolosi eredi, come i cristiani...
Che senso ha la vita? Perché sono qui? Perché dovrei fare la cosa giusta? E che cos'è la cosa giusta? Sono domande tutt'altro che facili. Ma alcune delle menti più brillanti della storia hanno lasciato idee e linee di condotta per il nostro benessere psicologico. Le concezioni di Platone sul bene e sul male, il consiglio di Aristotele di seguire in ogni situazione ragione e moderazione, i pensieri di Kierkegaard sulla morte, la saggezza tradizionale degli "I Ching" o la teoria dell'imperativo di Kant possono rivelarsi straordinariamente utili per affrontare problemi concreti. Questo libro riporta il pensiero dei grandi pensatori della filosofia di tutti i tempi, insegnando a vivere meglio il presente.
Il libro di Giuseppe Cambiano ricostruisce il ruolo fondante che le interpretazioni dell'esperienza politica e istituzionale di città come Atene e Sparta hanno svolto nel pensiero e nelle vicende politiche della storia italiana più recente, in particolare nel periodo che va dal Quattrocento al Settecento. Concetti-chiave come quelli di uguaglianza, di democrazia, di libertà, di partecipazione politica - sui quali molto si è discusso nell'età moderna - affondano infatti le loro radici nella nozione stessa di polis e hanno avuto origine nell'esperienza politica e istituzionale di una civiltà solo apparentemente lontana.