
L’Illuminismo è la capacità di coltivare insieme sentimento e ragione, sorriso e rigore, natura e civiltà, in un quadro enciclopedico, in cui cioè i saperi e i modi di vita possano confrontarsi non per opporsi, bensì per dialogare, per insegnare che senza questo dialogo, questa capacità di unire il diverso, non c’è autentica conoscenza. Il sapere non può essere chiuso nell’intimità di un soggetto orgoglioso, bensì deve nascere nella conversazione.
L’Illuminismo non è stato un movimento unitario, ma il primo momento dell’autocoscienza storica del pensiero europeo, un esprit che ha attraversato il continente, originando entusiasmi e feroci anatemi.
L’Illuminismo ha mostrato squarci di vita, di letteratura e di filosofia, svelando un linguaggio che non è sterile ripetizione dell’identico, ma un mezzo critico capace di penetrare nelle pieghe del sentire e delle sue rappresentazioni concettuali, per svelarne non solo la complessità, ma anche la forza creativa. Elogiarlo non significa farne un’apologia, bensì cercare di comprendere, attraverso la ricostruzione storica e teorica di alcuni momenti essenziali della cultura settecentesca, il presente, il potere e i limiti della ragione e del sentimento, i valori, forse dimenticati o umiliati, di una contemporaneità non più in grado di assumere uno sguardo ironico e penetrante sul mondo.
Quest’opera sui Sofisti curata da Mario Untersteiner - uno dei più significativi studiosi italiani del pensiero antico (1899-1981) - raccoglie in volume unico i quattro originariamente editi nella collana "Biblioteca di Studi Superiori" della editrice "La Nuova Italia", da tempo non più in circolazione. Untersteiner ha curato personalmente tutti gli autori e tutti i testi anonimi, a eccezione di Crizia, curato dal suo allievo Antonio Battegazzore. Si tratta della più ricca e completa raccolta di tutto quanto ci è pervenuto dei e sui Sofisti, pensatori che Untersteiner considera espressione di un determinato clima storico, il cui tono è dato dai fatti sociali che sono tipici di quell’epoca. Lo studioso sostiene inoltre la tesi assai originale e stimolante secondo cui la sofistica è in realtà una trasposizione su un piano filosofico della tragedia e delle contraddizioni della vita umana che essa esprime. Nella Introduzione Giovanni Reale illustra l’originalità e l’importanza dell’interpretazione di Untersteiner, che nei suoi lavori sui Sofisti ha lasciato il meglio di sé.
A cura di Francesco Paparella
Il Liber sex principiorum, presentato per la prima volta in traduzione italiana, è un’opera breve di scuola abelardiana, attribuita inizialmente a Gilberto Porretano e oggi generalmente considerata spuria dalla critica moderna; lo scritto risale con ogni probabilità alla prima metà del XII secolo e, nonostante lo stile oscuro e la complessità dei temi trattati, ha goduto di una certa fortuna nel Medioevo, giacché colmava una lacuna nelle auctoritates per lo studio della logica; divenne infatti parte integrante dei curricula di logica, alla pari dell’Isagoge di Porfirio e degli scritti di Boezio, tanto da essere commentato da Alberto Magno e discusso da Dante Alighieri. Ancora nel XVII secolo, il commentario conimbricense alla logica aristotelica lo considera testo importante e persino Leibniz ne riprende alcune dottrine nella sua Monadologia. I sei princìpi di cui tratta il libello sono le sei categorie aristoteliche “minori” che determinano la forma, che Aristotele aveva lasciato pressoché non analizzate nelle sue Categorie: azione, patire, quando, dove, posizione e avere (le tre “maggiori”, non prese in esame dal libello, sono naturalmente la quantità, la qualità e la relazione). Una volta terminata l’analisi intorno alle suddette categorie “minori”, viene proposta un’articolata riflessione sui concetti di più o meno, ovvero di maggiore e minore, collegati alla crescita e alla diminuzione.
L’opera è curata da Francesco Paparella, docente allo IULM di Milano e studioso attento del pensiero alto-medievale, che per Bompiani nel 2004 ha già tradotto i Tria opuscula di Proclo; il testo latino a fronte è ripreso dall’edizione critica di Lorenzo Minio-Paluello.
DESCRIZIONE: Il tema della nuova definizione della morte su base neurologica, e in connessione a ciò quello del trapianto di organi da soggetti in stato di morte cerebrale dichiarati cadaveri, è tornato negli ultimi tempi all’attenzione anche in Italia. Quantunque – a quarant’anni dall’introduzione, con il Rapporto di Harvard, di quella nuova definizione – le voci di dissenso stiano crescendo anche in ambito medico, vogliamo qui riproporre la prima grande critica fatta a quella definizione da un classico del pensiero filosofico del Novecento, nonché uno dei protagonisti dell’attuale dibattito bioetico: Hans Jonas. Quella critica, infatti, contiene in nuce tutti i problemi che sono ancora in discussione e li affronta con un linguaggio rigoroso, ma accessibile anche al pubblico di non specialisti, ed è significativo che essa stia al centro dell’attenzione nel recente documento del Council on Bioethics americano che riapre ufficialmente il dibattito sulla morte cerebrale.
COMMENTO: Il celebre saggio di Hans Jonas che contesta la definizione di morte cerebrale decisa dal Protocollo di Harvard del 1968. Un saggio toccante, profondo, di un maestro dell'etica contemporanea.
HANS JONAS (1903-1993), allievo di Heidegger e Bultmann all’Università di Marburgo, è stato tra i maggiori filosofi della seconda metà del Novecento. Tra le sue opere in italiano: Lo gnosticismo; Dalla fede antica all’uomo tecnologico; Il principio responsabilità; Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Presso la Morcelliana: Scienza come esperienza personale. Autobiografia intellettuale (1992); Agostino e il problema paolino della libertà. Studio filosofico sulla disputa pelagiana (2007).
Nel nostro tempo è sempre più dominante la convinzione che la verità, qualsiasi forma di verità, abbia un carattere storico e pragmatico. Ne deriva una concezione della filosofia, oggi oltremodo diffusa, che nega ogni verità e riconosce la propria stessa controvertibilità, storicità, pragmaticità.
A partire da questo sfondo Emanuele Severino discute le posizioni di alcuni filosofi italiani che hanno rivolto critiche e obiezioni al suo pensiero: da Massimo Cacciari a Vincenzo Vitiello, da Carlo Arata a Umberto Galimberti, da Massimo Donà a Vero Tarca, solo per citarne alcuni. Per Severino non solo c'è una dimensione comune sia alla concezione tradizionale della verità, sia alla distruzione di tale concezione – quella operata appunto dal pensiero filosofico del nostro tempo.
Ben oltre questa dimensione, anzi, la verità stessa è destinata a un senso che non appartiene alla storia dell'Occidente. E come tale già da sempre appare in ciò che vi è di più profondo in ciascuno di noi.
Emanuele Severino (Brescia, 1929) è uno dei più importanti filosofi contemporanei. Ha pubblicato numerose opere soprattutto con Adelphi e Rizzoli. Accademico dei Lincei, è da molti anni editorialista del "Corriere della sera".
Crisi della ragione, perdita del centro, decadenza dei valori: il nichilismo si è presentato a volte con il proprio nome, a volte sotto altre sembianze. Ma che cos'è propriamente il nichilismo? Da dove viene quest'"ospite inquietante" - come Nietzsche lo definisce - che si aggira ormai ovunque in casa nostra e che nessuno può mettere alla porta? Attraverso un'analisi storico-concettuale, Volpi risale alle radici del fenomeno, ne illustra il manifestarsi nel pensiero del Novecento e prepara una prospettiva "oltre il nichilismo".
"È evidente che tutte le scienze hanno una relazione più o meno grande con la natura umana, e anche quelle che sembrano più indipendenti, in un modo o nell'altro, vi si riallacciano. Perfino la matematica, la filosofia naturale e la religione naturale dipendono in certo qual modo dalla scienza dell'uomo, poiché rientrano nella conoscenza degli uomini, i quali ne giudicano con le loro forze e facoltà mentali. E impossibile prevedere quali mutamenti e progressi noi potremmo fare in queste scienze se conoscessimo a fondo la portata e la forza dell'intelletto umano, e se potessimo spiegare la natura delle idee di cui ci serviamo e delle operazioni che compiamo nei nostri ragionamenti."
L’assunto fondamentale di questa monumentale opera del Servo di Dio Padre Tomas Tyn, OP, è un approfondimento scientifico della nozione metafisica di persona, nei suoi tre gradi fondamentali (persona umana, persona angelica e persona divina), mediante l’uso delle categorie metafisiche della analogia e della partecipazione.
L’analisi di P.Tyn consente così di raggiungere un concetto unitario e nello stesso tempo plurificato di persona. In modo speciale è interessante la distinzione tra la persona umana, composta di anima e di corpo, e la persona puramente spirituale (angelica e divina). Inoltre è importante la distinzione tra persona finita (umana ed angelica), dove si dà la composizione reale di essenza-esistenza e di sostanza-accidenti, e la Persona divina, la quale è pura sostanza e nella quale l’essenza coincide con l’esistenza, ciò che S.Tommaso chiama l’ipsum esse per se subsistens.
La Persona divina in quest’opera non è considerata nel senso trinitario della fede cattolica, come “Relazione Sussistente”, ma in senso puramente metafisico, come quella che il Concilio Vaticano I chiama una singularis substantia spiritualis, ossia la natura divina.
La parte teoretica è preparata da una dotta e ricca disamina storica, nella quale l’Autore presenta, a partire dall’antica Grecia fino ai nostri giorni, l’evoluzione del concetto metafisico di persona posto in stretta relazione con le categorie fondamentali dell’ente, dell’essere, dell’essenza, della forma, dell’atto e della potenza.
La grande utilità che sorge da quest’opera di P.Tyn è data dal fatto che essa espone i fondamenti metafisici della morale e quindi fornisce un’illuminante indicazione su quelli che devono essere i criteri fondo per discernere nella complessa situazione di oggi ciò che serve alla persona umana e ciò che invece la distrugge.
"Diritto naturale e storia" è l'opera fondamentale di Leo Strauss. La tesi provocatoria secondo cui la filosofia politica degli antichi pensatori greci è di gran lunga superiore alla scienza politica dei moderni, viene sostenuta e esposta nel corso di un'ampia trattazione che ha per oggetto la storia del concetto di diritto naturale. Strauss vuole dimostrare che la teoria classica del giusnaturalismo è l'unica capace di conferire un genuino fondamento filosofico non solo ai diritti inalienabili dell'uomo e del cittadino sanciti nelle costituzioni delle democrazie occidentali, ma anche ai nuovi diritti di cui la società contemporanea avverte l'esigenza.
A cura di Fabio Cicero
Traduzione di Roberto Piumini
Testo inglese a fronte
“E di chi è la colpa?
Di chi se non di lui che da me ebbe,
ingrato, tutto quello che poteva:
lo feci giusto e retto, ed abbastanza
forte per non cadere, benché libero.”
Scritto in un periodo di profonda crisi personale e politica dell’autore, Paradise Lost è il più grande poema epico della letteratura inglese. L’opera ha avuto un’enorme influenza sui Romantici inglesi e, attraverso questi, sulla poesia moderna. Il tema principale del poema riguarda la caduta dell’uomo dal suo stato originario di grazia, e lascia già intravedere le condizioni che gli permetteranno, grazie all’intervento divino, di recuperare tale stato. Ma la forte personalità di Milton ha saputo disegnare dei personaggi originali che riflettono la tensione del suo autore, uno spirito libero che in qualche caso non riesce, e non vuole evitare il conflitto con l’ortodossia cristiana. Personaggi quali Dio, Satana, Eva hanno fatto e fanno ancora discutere molti critici, dando adito a ciò che lo stesso Milton ha sempre perseguito con estremo rigore e accesa passione: la ricerca instancabile della verità nel messaggio cristiano.
Il testo originale a fronte si basa sull’edizione di Barbara K. Lewalski, Paradise Lost, Oxford, Blackwell, 2007, che riproduce fedelmente la versione finale del 1674.
Fabio Cicero, studioso di letteratura moderna inglese e tedesca, ha già curato per Bompiani Storia dell’arte dell’antichità di Winckelmann (2003) e Opere in prosa di S.T. Coleridge (2006).
Roberto Piumini scrive poesie, poemi, fiabe, racconti, romanzi, filastrocche, testi per canzoni, per teatro, televisione, radio e cinema. Ha una cinquantina di traduzioni all’estero. Ha tradotto in versi i poemi di Browning, i Sonetti e il Macbeth di Shakespeare e l’Aulularia di Plauto. Legge e recita i suoi testi di prosa e poesia.
Nelle quattro lezioni tenute al Collège de France e raccolte in questo volume, Jean Francois Billeter, sinologo di fama mondiale, cerca di "dare un'idea delle scoperte che si possono fare quando ci si accinge a studiare in modo scrupoloso e al tempo stesso immaginativo" il testo di Zhuangzi, grande filosofo cinese del IV secolo a.C. Partendo da una nuova traduzione e interpretazione di aneddoti, espressioni e termini contenuti nel libro, Billeter rende con grande forza l'esperienza sapienziale che nasce dallo studio del Zhuangzi e, insieme, consente al lettore contemporaneo di condurne una parallela attraverso le parole del filosofo: la ricerca di un livello più completo di percezione e conoscenza nel quale, superando i limiti dell'attività intenzionale e cosciente e aprendosi a quella necessaria e spontanea, si congiungono tutte le risorse e le facoltà che dimorano in ognuno di noi - quelle conosciute e quelle sconosciute. Ne deriva un sentire più profondo e essenziale dei fenomeni, del mondo e di se stessi, una visione più integra e inesplorata dell'esperienza umana.
Giorgio Tonelli e Norbert Hinske hanno messo in evidenza come le fonti dell'aristotelismo tedesco siano necessarie per chiarire l'uso kantiano del termine "trascendentale", ma non sono riusciti a documentare legami diretti. Grazie a nuovi ritrovamenti, l'Autore propone Franz Albert Aepinus come "l'anello di congiunzione" cercato sovente anche da altri. Su questa base, la filosofia trascendentale kantiana viene interpretata come una risposta al problema strutturale della filosofia trascendentale scolastica: la necessità e impossibilità di pensare un ambito antepredicativo.