
Quando, alla fine degli anni Cinquanta, in una temperie storica ancora segnata dai terribili postumi della guerra, Vladimir Jankélévitch dette alle stampe Le Je-ne-sais-quoi et le Presque-rien, non furono in molti a cogliere la straordinaria forza d'impatto di un testo volutamente inattuale, perché diversamente orientato rispetto alle coordinate consolidate della riflessione filosofica. In un momento in cui gli astri di Hegel, Husserl e Heidegger rifulgevano nel firmamento della filosofia europea, Jankélévitch apriva un varco, inatteso e profondo, verso un altro orizzonte di pensiero. Nozioni apparentemente fuori del tempo come quelle di «grazia», «innocenza», «semplicità», o riferimenti desueti a Plotino, Juan de la Cruz, Graciàn o Brémond, restituiscono solo in parte la direzione di questo sguardo sagittale che taglia, con effetti ancora non del tutto sondati, il campo del sapere contemporaneo. Lontano dalle ultime filosofie della storia o dai nuovi gerghi dell'autenticità che in quella stagione ancora tenevano il campo, Jankélévitch cerca nel flusso dell'esperienza vivente il significato, e anche il mistero impalpabile, di un'esistenza esposta all'assoluta assenza di fondamenti, ma proprio perciò fermamente tenuta a un agire tanto più responsabile e vigile. Introduzione di Enrica Lisciani Petrini.
Accanto alla "Critica della ragione pura" e alla "Critica della ragione pratica", la "Critica della facoltà di giudizio" è il terzo capolavoro dell'impresa critica di Immanuel Kant: non solo il suo compimento, ma anche e soprattutto il suo ripensamento e insieme la sua fondazione. È una rigorosa "critica del gusto" che ha il suo centro nell'universale comunicabilità di esseri razionali e finiti quali sono gli uomini, ed è come tale premessa essenziale dell'intero svolgimento dell'estetica successiva. Ma la riflessione che essa svolge è estetica e mediatamente anche logica, e coinvolge molti altri temi strettamente interconnessi. Sempre su base estetica, vi si delinea infatti, innanzi tutto, una modernissima epistemologia, un esame critico del finalismo che sarebbe proprio della cosiddetta "materia vivente" (del quale Kant dà una versione singolarmente avanzata per i suoi tempi e forse oggi ancora insuperata) e infine una giustificazione e delimitazione del pensare filosofico. Nell'estetica kantiana è quindi ricompreso il problema che la filosofia critica pone a se stessa, in quanto questa non è giustificata dalle condizioni del conoscere che si sforza di esplicitare ed è tuttavia indispensabile per la comprensione dell'esperienza in genere e di quella universale comunicabilità che è il lascito prezioso (e tutt'altro che assimilabile a una "metafisica della ragione") dell'illuminismo kantiano.
Sono possibili i viaggi nel tempo? Molti libri e molti film ci raccontano di storie in cui personaggi dal futuro giungono nel passato con l'intenzione di cambiarlo o, viceversa, di avventurieri che attraversano i secoli verso futuri sconosciuti. Ma se il futuro non è già determinato, e ci sono tante possibili continuazioni del presente, in quale di esse finirà il viaggiatore? D'altro canto, se il passato è chiuso e dato una volta per tutte, è davvero possibile che il viaggiatore possa tornare ad alterarlo? Che conseguenze ci sarebbero allora sul presente?
Il libro mira a fornire gli strumenti concettuali necessari per affrontare la sfida, difficile ma emozionante, lanciata da tali questioni. Le teorie, i rompicapi e gli esperimenti mentali elaborati dalla filosofia a partire da interrogativi come questi, infatti, si rivelano essenziali per capire cosa la scienza, e in particolare la fisica, ci può dire sulla possibilità di viaggiare nel tempo.
Virginio Marzocchi ripercorre il pensiero politico dei maggiori filosofi, da Platone a oggi, mettendo in luce i concetti di fondo, attraverso cui l'ambito del politico viene ritagliato e illuminato. Al contempo questa tradizione di pensiero è posta in relazione ai contesti geo-storici (dal mondo mediterraneo prima e cristiano-europeo poi a quello globalizzato), giuridico-istituzionali (dal diritto romano e medioevale alle Costituzioni degli Stati nazionali verso un ordine internazionale) e culturali, a loro volta connessi con l'affermarsi di nuovi saperi (la teologia sistematica, le scienze esatte della natura, l'economia politica, la sociologia) e di differenti forme di trasmissione di questi saperi (dalle accademie alle università).
I luoghi decisivi del pensiero filosofico – ha rilevato María Zambrano – si incontrano nelle rivelazioni poetiche. Di qui la ricerca della filosofia che si trova nella poesia, non come pensiero poetico, bensì come filosofia in senso stretto, come una modalità dell’esercizio filosofico finora emarginato dalla storia del pensiero e che nella crisi della modernità è invece capace di configurare un orizzonte di superamento. Ecco perché tutto il pensiero di María Zambrano è volto a indagare lo sfondo comune di filosofia e poesia nonostante la scissione ed il conflitto – segno della storia occidentale – e l’orizzonte dal quale è possibile intravvedere una possibile riconciliazione: la ragione poetica. A tal fine, Filosofia e poesia (1939) rappresenta l’opera fondamentale, insieme al presente libro, a cui stava lavorando prima della morte, e che comprende testi sulla parola poetica in rapporto alla filosofia, e saggi sui poeti più amati dalla Zambrano.
Armando Savignano, ordinario di Filosofia Morale all’Università di Trieste, ha dedicato numerosi saggi all’ispanismo filosofico. Tra i libri più recenti: Introduzione a Ortega Y Gasset, Laterza, Bari 1996. Introduzione a Unamuno, Laterza, Bari 2001. Maria Zambrano. La ragione poetica, Marietti, Genova-Milano 2004.
Panorama della filosofia spagnola del Novecento, Marietti, Genova-Milano 2005. Don Chisciotte.
Illusione e realtà. Rubbettino 2006. Il vincolo degli anniversari. Saggi di filosofia spagnola contemporanea, Saletta dell’Uva, Caserta 2009.
Il testo La logica sociale dei sentimenti è un saggio di teoria sociale apparso nel 1893 all’interno della Revue Philosophique. Densissimo di riferimenti storici, analizza il rapporto tra manifestazione (individuale e collettiva) degli stati emozional-sentimentali ed evoluzione della società, cogliendo un inestricabile legame tra i due processi. In tal senso, il saggio rappresenta il primo testo di sociologia delle emozioni e una sorta di atto costitutivo di quel filone di studi che verrà definito “costruzionismo sociale delle emozioni”.
Le sole norme giuridiche e le regole formali della democrazia non bastano a tenere assieme una società e a regolarne i processi. D'altra parte l'irriducibile pluralismo etico che caratterizza le società contemporanee sembra rendere impossibile l'imporsi di un unico sistema di valori come collante sociale e come riferimento identitario. Il solo terreno normativo capace di dare uno stabile fondamento alle democrazie contemporanee va perciò individuato in quell'etica che è già operante e incorporata nelle istituzioni dello Stato e che per questo motivo è già alla base del vincolo sociale fra i cittadini. È questo il significato fondamentale della teoria hegeliana dell'eticità.
E' possibile esaurire i dilemmi etici in un conchiuso sistema di definizioni astratte? E' evidente come essi prorompano quotidianamente proprio in questioni limite, nelle quali è sempre più difficile parlare di "verità" e di "valori". Ciò spinge l'autore a porsi una domanda radicale: se non si dà una visione metafisica unitaria del reale e quindi dei suoi fondamenti etici, come può declinarsi un'etica che non voglia liquidare la questione in senso puramente relativistico, ma che cerchi ancora un "dover essere" nel nostro stare al mondo?Si presentano qui i lineamenti per un'etica non astratta ma intrisa di verità r azione: fondata su un'oggettività normativa, come un'imperativo del nostro agire che interroghi anzitutto il soggetto quale fonte di azione e decisione morale e centro di relazione.
Da dove proviene il male?, si chiede Kant. Il male è radicale, è inscritto nell’uomo proprio in quanto libero. Una prospettiva con la quale la filosofia contemporanea non ha potuto esimersi dal fare i conti – si pensi alla dialettica tra radicalità e banalità del male come costante interrogazione nel pensiero di Hannah Arendt. Una domanda che Jaspers già aveva preso sul serio, rispondendo alla Arendt: «questo male è banale, non il male». Perché il male ha una natura così problematica da non potersi ridurre a opposizioni. La stessa radicalità di cui parla Kant non va intesa come un “corpo estraneo” con cui giustificare la tensione fra caduta originaria e libero arbitrio dell’uomo. Jaspers si spinge oltre l’idea di libertà: il male è enigma e di esso si può dire solo dove non può avere fondamento. Non appartiene alla sensibilità – perché non siamo padroni delle nostre inclinazioni naturali – né alla ragione che è depositaria della legge morale. Il male, come figura del limite umano, in queste pagine pare persino dischiudere all’uomo la possibilità della “grazia”: essa non è forse anche guadagnata dall’uomo, e non solo gratuitamente “data” da Dio? Una prospettiva che pone Jaspers nel solco del pensiero religioso liberale.
E’ il peccato di Lucifero invidioso dell’uomo, quello di Caino verso Abele, quello di Jago nei confronti di Otello, ma anche quello di Grimilde verso Biancaneve. Se è vero che ogni vizio comporta piacere, ciò non vale per l’invidia, veleno dell’anima che genera tormento e sofferenza: si soffre di fronte al bene e alla felicità altrui, vissuti come diminuzione del proprio essere e segno del proprio fallimento. L’invidia nasce sempre dal confronto. Perché lui/lei sì e io no?, ci si chiede dirigendo sull’altro uno sguardo maligno. Una domanda che deve restare segreta, perché rivela la nostra inferiorità. Dall’antichità alle società moderne e democratiche, dove l’invidia trova la sua humus ideale, dalla fiaba sino alle veline dei nostri giorni, l’autrice racconta le metamorfosi di questa passione "triste", ma non priva di violenza, quando si trasforma in risentimento che inquina le relazioni, depotenzia l’Io, paralizza le energie.
Elena Pulcini insegna Filosofia sociale nell’Università di Firenze. Tra le sue pubblicazioni "Amour-passion e amore coniugale" (Marsilio, 1990), nonché, edite da Bollati Boringhieri: "L’individuo senza passioni"( II ed.(2002), "Il potere di unire" (2003), "La cura del mondo" (2009).
La coscienza è la parte più evanescente dell'essere umano e il cuore della vita interiore di ciascuno. Nel tempo, la filosofia e la religione cristiana hanno creato un deposito di idee sulla coscienza che ha finito con il formare il senso comune occidentale sui tratti più caratteristici della nostra specie. Oggi la scienza della mente promette di rendere conto di tale fenomeno alla luce delle nuove conoscenze, in un quadro sperimentale e coerente con le scienze naturali. Interpellando insieme la riflessione filosofica e la scienza contemporanea, l'autore ci mostra che la coscienza è un fenomeno genuino, introspettivamente saldo e fondato nella costituzione del nostro corpo. La coscienza non è un mistero, né qualcosa di sacro, ma una facoltà naturale, che condividiamo con altre specie animali e che forse in futuro potremo osservare nei robot.
Pietro Perconti insegna Filosofia della mente nell'Università di Messina. Fra i suoi libri, "Leggere le menti" (Bruno Mondadori, 2003), "E-mail filosofiche. Di grandi idee e problemi quotidiani" (con S. Morini, Cortina, 2006) e "L'autocoscienza. Cosa è, come funziona, a cosa serve" (Laterza, 2008). Per il Mulino ha curato anche "Le scienze cognitive del linguaggio" (con A. Pennisi, 2006).