
Un'analisi puntuale e acuta su un concetto cardine della filosofia di Florenskij: la vita come dono ricevuto. La vita si mostra non si dimostra: da questa profonda esperienza scaturisce il pensiero di Florenskij, che permette di ravvisare nella "Sofia" la bellezza che sostiene tutto il creato. La "Sofia" si pone come tratto di unificazione tra sfera visibile e sfera invisibile, cioè creazione nella sua più autentica integralità. Ma se è vero che l'Umanità trova nella creazione la propria coscienza viva, nella stessa Umanità pulsano i battiti della "Sofia", diventando "Sofia" per eccellenza quale trasfigurazione (secondo la cosmologia antica) della sfera celeste nel mondo sublunare. Il rapporto icona-Sofia può essere preso a riferimento del pensiero di Florenskij, dove l'icona è collegata al simbolo e viene letta come trasfigurazione inclusiva del simbolo, divenendo il luogo di una "metafisica concreta" che mutua elementi di realismo. L'essenza della Sofia consiste in un'intersposizione tra Dio e la creazione, facendo in modo che l'amore divino si dilati e si trasmetta attraverso lo spazio-tempo. In questo illuminante piccolo saggio Zaccarelli, da una prospettiva laica e come studioso del pensiero cristiano-orientale, mostra come Florenskij ci indichi la strada per uscire da ogni travaglio manicheo che si fermi al conflitto tra il bene e il male, per cogliere l'esperienza del dono come possibile pienezza di vita. Introduzione di Silvano Tagliagambe.
Solo pochi mesi fa lo chiamavamo "nostro" e adesso lo abbiamo già regalato alla storia. È fragile da maneggiare, per niente facile da catalogare. Eppure come ha detto sagacemente Karl Popper "il Novecento è stato un secolo così pieno di correnti che, vedrete, la sua influenza si diffonderà dappertutto". Scandita dalle menti più bizzarre, la filosofia del secolo che ci ha dato i natali ci lascia con ardite provocazioni, brillanti interrogativi e una certezza: il futuro è aperto, come una partita di flipper, con tutte te sue luci e i suoi bonus, le buche e i respingenti. Il punteggio dipenderà da come sapremo giocare la partita, ma prima del lancio della pallina è indispensabile conoscere le regole del gioco.
Tra le opere minori giunte sotto il nome di Aristotele (e oggi di discussa autenticità), la "Fisiognomica" tratta della corrispondenza tra i caratteri degli uomini e gli attributi somatici esterni del viso e del corpo; per esempio, gli occhi grandi e sporgenti indicano un carattere intemperante, lo sguardo denota sempre una disposizione d'animo, o più in generale i temperamenti interni corrispondono al rossore, al pallore, alla scurezza o all'ittero del viso. Nella prima parte, lo scritto si concentra sulla fisiognomica umana, mentre nella seconda l'analisi è estesa anche agli animali. A partire da questo scritto e nel corso della sua lunga storia, la fisiognomica come disciplina è stata sempre connotata da un'ambivalenza teorica essenziale: quella di essere una "quasi scienza", a metà tra divinazione e razionalità, tra mantica e medicina, una disciplina che da un lato affonda le sue radici nel sapere di tutti e nella superstizione, e dall'altro si propone un rigore scientifico-metodologico e si fonda su postulati precisi, quali il rapporto di interdipendenza tra caratteristiche fisiche e psichiche e la corrispondenza biunivoca tra segno sensibile e relativa affezione interna. La traduzione, con introduzione, note e apparati è a cura di Maria Fernanda Ferrini, docente di Letteratura greca all'Università di Macerata. Il testo greco a fronte è quello di 1. Bekker (Berolini 1831), di cui viene conservata la numerazione delle pagine e delle linee.
La "Fisica" di Aristotele è un'opera cosiddetta "acroamatica" vale a dire è una raccolta di appunti preparatori alle lezioni dello "Stagirita" che originariamente non costituivano uno scritto unitario ma una serie di saggi su argomenti specitici. Questi furono raccolti in un unico trattato secondo l'ordine tematico da Andronico di Rodi nel I sec. a.C. nella forma in cui oggi l'abbiamo. Da ciò dipende lo stile e il lessico asciutti spesso molto sintetici ed ellittici. La "Fisica" vuol essere lo studio della natura vista nel suo aspetto peculiare che è il movimento: per la precisione Aristotele intende come enti naturali (e quindi fisici) quelli che hanno in sé la causa del loro mutamento, distinguendoli dai prodotti dell'arte che non hanno tale carattere. In ogni modo lo studio di questi aspetti è condotto a livello filosofico e cioè in un senso universale e ontologico. Per tale motivo Aristotele non può esimersi dall'affrontare molti temi correlati al movimento di grande importanza, come l'infinito, il luogo, il tempo, il continuo e, da ultimo il rapporto, motore-mosso. Sarà proprio questo aspetto a proiettare gli esiti della "Fisica" nella "Metafisica", attraverso la nozione di Motore immobile. La fortuna di quest'opera fu immensa perché determinò la percezione dell'universo per secoli (per tutto il Medioevo).
"Fisica" è il titolo di un trattato in otto libri di Aristotele. E uno dei trattati più significativi del filosofo. Come tutte le altre opere aristoteliche, anche "Fisica" è il risultato del lavoro di ricostruzione operato da Andronico di Rodi sui frammenti sparsi scritti dallo Stagirita in epoche diverse, su argomenti diversi, tutti tuttavia attinenti il mondo della "Physis" (natura). Il I libro tratta dei principi del Divenire. Il II libro è un trattato sulle Quattro cause. I libri III, IV, V, VI costituiscono uno studio organico sul concetto di mutamento (movimento) e le sue implicazioni: infinito, luogo, tempo, continuo. Il VII continua, in modo tuttavia autonomo, l'analisi del Movimento, introducendo il concetto di Movente. L'VIII postula inferenzialmente l'esistenza di un Primo movente immobile ed eterno.
Questa silloge raccoglie alcuni scritti realizzati dall'autore dal 2010 a oggi. Si tratta di riflessioni filosofiche, con una particolare attenzione alla dimensione teologica, che si configurano a partire da domande esistenziali per tutti noi ineludibili - quelle sul senso della vita - soprattutto in tempi di crisi. Tali riflessioni sono sfaccettate e diverse, come diversa era la destinazione dei libri da cui sono tratte: il minimo comun denominatore è tuttavia il tentativo di valorizzare la "pars construens" della ricerca, piuttosto che la "pars destruens", perché in tempi difficili come quelli che viviamo abbiamo bisogno soprattutto di speranza per ridare fiato a esistenze sempre più sfiduciate, disorientate, fragili. Fra i temi affrontati: l'amore, il dono, la relazione, la bellezza, la cura, il tempo, la nostalgia, l'equilibrio, la gioia, la virtù, la preghiera.
Cosa significa far finta? Esistono davvero Anna Karenina e Gatto Silvestro? Una guida alla finzione, come concetto e come pratica. Un'indagine sul far finta e i suoi oggetti e su chi fa finta per piacere o per mestiere.
Nel panorama della filosofia francese del Novecento, Vladimir Jankélévitch (1903-1985) emerge come figura di rilievo ma anche di complessa collocazione storiografica e ardua interpretazione teoretica. In "Fino al sacrificio", Giulia Maniezzi si propone di ricostruire e discutere criticamente uno degli aspetti del pensiero di Jankélévitch rimasti finora nella penombra: la condizione morale dell'uomo e il suo fondamento metafisico. La celebre affermazione jankélévitchiana secondo cui «la morale ne se distingue-t-elle plus de la métaphysique» è come il baricentro dei tre momenti argomentativi articolati nei tre capitoli del volume. Iniziando con un'indagine dettagliata circa lo statuto e il compito della filosofia prima, il testo si dirige successivamente alla presentazione critica della teoria jankélévitchiana della creazione e della temporalità, giungendo, infine, a scandagliare la questione della condizione morale nella sua portata metafisica.
Lo scrittore Albert Camus non è morto nell'incidente del 4 gennaio 1960. Un suo grande amico, il genetista Jacques Monod, va a trovarlo in ospedale. Stanno scrivendo un libro insieme. Leggono le bozze, ricordano le avventure durante la Resistenza a Parigi. Nel segno del disincanto, prende forma una visione del mondo. La scienza ha svelato la finitudine di tutte le cose: dell'Universo, della Terra, delle specie, di ognuno di noi. Come trovare un senso all'esistenza accettando la nostra finitezza? Camus e Monod passano in rassegna le possibilità laiche di sfidare la morte. L'investigazione diventa un giallo filosofico. Forse la finitudine non implica nichilismo, ma al contrario solidarietà, rivolta, una vita piena. In un gioco raffinato di fatti e finzioni, "Finitudine" è la storia della vera amicizia tra due Premi Nobel, un dialogo avvincente, un libro dentro un libro.
Pubblicato nel 1960, Finitudine e colpa è con Verità e metodo di Gadamer il testo che inaugura l'"âge herméneutique", un'età che ha fatto dello statuto dell'interpretazione una questione dirimente per la filosofia. L'ermeneutica in quest'opera si presenta come decifrazione dei simboli e dei miti attraverso i quali è stata fatta esperienza, nelle tradizioni greca e biblica, dell'enigma del male. Simboli primari (impurità, peccato, colpevolezza) declinati nei miti del "principio e della "fine" e caratterizzati da una duplicità di senso. Di qui la definizione della ermeneutica come dialettica tra senso letterale e senso profondo dei simboli. Un modello posto sotto il motto «il simbolo dà a pensare». Sta in ciò la classicità di Finitudine e colpa: Ricoeur ha fatto del male - delle sue condizioni simboliche di possibilità - la cosa stessa della filosofia. E ha giustificato - come fosse una «seconda rivoluzione copernicana» - la legittimità dell'ermeneutica: essa è il cammino della ragione, attraverso il conflitto delle interpretazioni, per render conto del male che è già lì, e resta opaco al rischiaramento. Un compito «mai finito di distruggere gli idoli, al fine di lasciare parlare i simboli».
Come ha scritto Jacob Taubes, nelle pagine de "La fine di tutte le cose" l'opera forse più ingiustamente trascurata dell'ultima fase della vita del grande maestro di Konigsberg - Kant conduce l'ambizioso progetto filosofico di "tradurre le dichiarazioni metafisiche dell'escatologia cristiana in una sorta di escatologia trascendentale". L'escatologia trascendentale ruota attorno a un duplice interrogativo: perché, in generale, gli uomini si aspettano una fine del mondo? E se questa viene anche loro concessa, perché proprio una fine che, per la maggior parte del genere umano, fa paura? Per Kant l'antica profezia apocalittica di San Giovanni prefigura, in simboli e immagini, il limite estremo della stessa attività del pensare, delineando la struttura paradossale di un "concetto con cui, al tempo stesso, l'intelletto ci abbandona e, addirittura, ha fine ogni pensiero".
Secondo un ricorrente adagio la storia è finita; chi propugna questa tesi vede nell'accelerarsi degli eventi, nel contrarsi delle epoche come spazi unitari di senso e nel prevalere della dimensione della simultaneità sulla sequenzialità, altrettanti argomenti a favore di essa. Alla fine del mondo storico si accompagna inesorabilmente la fine dell'uomo come centro di imputazione di scelte e come donatore di senso, le azioni dei singoli non veicolando più alcuna sintesi o incarnando alcun universale, ma riducendosi a puro medium di un operare sistematico anonimo e reticolare. Anche il fondamento della democrazia muta.