
Da sempre i giardini hanno plasmato in maniera privilegiata il rapporto dell'uomo con la natura e hanno saputo tradurre in un linguaggio plastico e sensoriale la metafisica vigente in ogni momento storico. L'esperienza del giardino però non possiede soltanto una dimensione etica ed estetica, ma anche politica, la loro condizione di luoghi di delizie e fantasie li avvicina all'utopia e li fa diventare uno strumento critico per analizzare i sogni di perfezione sociale. Questo saggio vuole assicurare al giardino un ruolo chiave nell'ambito del pensiero partendo dal presupposto che il giardino sia, oltre a un'opera d'arte viva dotata di una complessa simbologia, un manufatto culturale e una sofisticata creazione intellettuale, e di conseguenza materia di riflessione filosofica. Ma è anche una storia della felicità, della buona vita, dell'uso del tempo e dello spazio, e soprattutto un libro che parla del piacere.
Come capita ai filosofi, anche Salvatore Veca si è spesso sentito rivolgere la domanda: a che cosa serve la filosofia, di che cosa si occupa? Il professore ha replicato in dibattiti, interviste, lezioni universitarie, confrontandosi con le diverse posizioni sostenute nel tempo da altri studiosi. Ma un giorno la questione gli è stata proposta dalla nipote Camilla. A una bambina non si può rispondere con una lunga e dotta dissertazione; perciò il nonno si è impegnato a trovare un modo per spiegarle alcuni fra i grandi problemi che sono da sempre al centro della ricerca filosofica. Il risultato del suo lavoro è questo libro nel quale Salvatore Veca esplora, in agili scorribande, l'affascinante mondo abitato da Socrate e dal suo dan.
Giambattista Vico è il filosofo italiano più significativo dell’epoca moderna. Considerato spesso un precursore, dimenticato a tratti dalla critica, incompreso durante la vita, egli è stato colui che prima e più di tutti ha portato la storia nella riflessione filosofica e ha elaborato una gnoseologia, alternativa a quella cartesiana, imperniata sul principio del verum-factum.
Il volume ricostruisce la visione vichiana dell’uomo e della storia, considerando in particolare il ruolo e il significato di Dio e della trascendenza. I capitoli del testo si occupano dei tre momenti più significativi della produzione di Vico: la metafisica e l’antropologia come emergono dal De antiquissima e dal Diritto universale e quindi la Scienza nuova, in cui si ritrova la visione della storia come luogo della tensione fra libertà e provvidenza. La vera “rivoluzione” vichiana è il costituirsi della scienza storica, l’attribuire valore e centralità alla storia, liquidata spesso come inaffidabile sul piano della conoscenza, in quanto costitutivamente effimera e mutevole. Nella fedeltà all’orizzonte epistemologico del principio del verum-factum, Vico concepisce invece la storia quale luogo autentico del fare e quindi del conoscere umano; allo stesso tempo essa manifesta una vera e propria “teologia filosofica”, in quanto nella conoscenza storica l’uomo può compiutamente, sotto forma di scienza, conoscere quel Dio che altrimenti resterebbe sconosciuto sul piano della ragione, essendo per lui impossibile muovere dalla realtà naturale.
Antonio Sabetta, dottore in teologia e filosofia, è docente incaricato di teologia fondamentale presso l’Università Lateranense e l’ISSR “Ecclesia Mater”, di cui è preside e dove insegna anche teologia filosofica. È inoltre docente a contratto presso la Libera Università «Maria SS. Assunta» - LUMSA di Roma. Studioso della modernità, di Giambattista Vico, del rapporto tra cristianesimo e postmodernità e delle tematiche liminari tra filosofia e teologia, oltre a diversi saggi in testi e riviste scientifiche internazionali ha pubblicato le seguenti monografie: Teologia della modernità (Cinisello Balsamo 2001), I “lumi” del cristianesimo. Fonti teologiche in G. Vico (Roma 2006), Dal senso cercato al senso donato. Pensare la ragione nell’orizzonte della fede (Roma 2008), L’esistenza di Dio tra (in)evidenza e “probabilità” (Roma 2010). Ha anche curato l’edizione critica del volume di A. Rosmini, Risposta ad Agostino Theiner (Roma 2007).
Rimanere seduto davanti alla tela senza fare niente è quanto riferisce Giacometti del suo tentativo di ritrarre Isaku Yanaihara, professore di Filosofia francese all'Università di Osaka scelto come modello nel 1956: data ricordata dai critici come "crisi Yanaihara". Una battuta d'arresto che non si traduce nell'annullamento dell'opera ma in un nuovo sviluppo: una svolta nel percorso artistico di Giacometti che si confronta con i temi dello spazio e della profondità, adottando soluzioni diverse dalle tecniche tradizionali. Ne offrono un'acuta analisi i due testi qui presentati di Sachiko Natsume-Dubé, affiancati in appendice da alcune pagine del diario di posa di Yanaihara che costituiscono una testimonianza imprescindibile per la comprensione dell'opera dello scultore e pittore svizzero. L'esperienza dell'impossibile - ritrarre il volto di Yanaihara che non si riesce a catturare sulla tela - è la "catastrofe" e al tempo stesso la sua nuova possibilità: il tentativo di superare la prospettiva. Nella questione della tecnica pittorica è in gioco il rapporto dell'opera d'arte con il vero.
Pubblicato per la prima volta in francese nel Dialogue de l’histoire et de l’ame charnelle, la meditazione qui offerta da Péguy sulla Passione di Cristo rappresenta un momento apicale della letteratura spirituale. Nonostante l’affezione alla vicenda, l’autore non risparmia decise bordate agli stereotipi e agli schemi teologici del suo tempo. Senza mai cedere al pietismo o a un certo “dolorismo” tipico di inizio secolo, la meditazione di Péguy sugli ultimi momenti della vita terrena di Gesù prende le mosse da alcune considerazioni sulla depressione e la nevrastenia che risultano di particolare attualità. Con grande naturalezza, si stabilisce un sottile legame tra la sofferenza del vivere contemporaneo e l’angoscia di Gesù nel Getsemani nel momento in cui fu colto dai tormenti di una morte annunciata. Il mistero dell’Incarnazione assume così tutto il suo spessore e la sua densità: lo stesso figlio di Dio ha conosciuto la paura dinanzi alla propria finitezza. A testimonianza di come Dio si sia fatto uomo sino alla più tragica conseguenza.
"Gesù Cristo e il cristianesimo - qui per la prima volta in edizione critica, condotta su manoscritti in parte riprodotti nel testo - è un'opera della maturità in cui, rifacendosi alle tradizioni della scuola tedesca, Martinetti cerca di rispondere all'interrogativo "possiamo ancora dirci cristiani?", ripreso poi da Croce. Ai suoi occhi, il cristianesimo ha un profondo significato filosofico e un valore universale, fondati sul messaggio di Gesù e incarnati storicamente nelle "eresie". La prospettiva di un futuro rinnovamento del cristianesimo è per lui affidata più all'iniziativa delle piccole comunità di credenti (i "cristiani senza chiesa") che non alle istituzioni ecclesiastiche, a cominciare dalla Chiesa cattolica, storicamente prigioniera di una mondana volontà di potenza che la lega diabolicamente al potere (all'epoca, il regime fascista). Un messaggio e una lettura inattuali, ma che non hanno perso nulla della loro potenza drammatica." (Giovanni Filoramo)
"Geschlecht": questa parola tedesca, che ha dato il titolo generico a una serie di quattro studi di Jacques Derrida dedicati all'opera di Martin Heidegger, è assolutamente intraducibile in italiano perché la parola è correlata al tempo stesso con "sesso", "razza", "nazione", "umanità". Ebbene, sono proprio queste le categorie che Derrida intende esplorare nell'opera di Heidegger. Nel presente volume, al cuore della ricerca sono innanzitutto la dimensione politico-sessuale e la nozione di patria. È questa l'occasione, per Derrida, di pensare una sessualità più radicale di quella binaria, ed è anche l'occasione per denunciare un nazionalismo dal carattere preoccupante in Heidegger, un approccio quantomeno ambiguo se rapportato a quello avuto con il nazismo dal quale pretende di smarcarsi. Questa edizione presenta uno studio che sembrava perduto per sempre. Il gruppo di ricercatori che ne ha stabilito il testo ha realizzato dunque una notevole opera intellettuale ed editoriale.
I contributi raccolti nel presente volume si interrogano, da punti di vista differenti, sul senso da attribuire all'invito batailleano: "È giunto il momento di mettere in pratica un insegnamento dell'irriducibile", e sull'etica impossibile che ne discende. Un'etica che, pur nella presa d'atto dell'inevitabile riduzione dell'umano a 'cosa', non si rassegna né si piega alla venerazione di ciò che c'è; ma che tenacemente, e con disciplina, invita a cercare, fin dentro la cosificazione, ciò che, nelle forme lussuose e idiote del soggetto e del mondo, sfugge e resiste con grazia sovrana all'imperativo della riduzione, silenziosamente ripetendo: non serviam.
La traduzione italiana del lungo saggio, scritto nel 1925 e dedicato da Vladimir Jankélévitch a Georg Simmel, mette finalmente a disposizione dei lettori un testo che, come si augurava l'autore negli ultimi anni della sua vita, invita a rileggere un filosofo che in vari periodi è stato "di moda" (anche in Italia), ma attende ancora di essere pienamente riconosciuto. Il giovane Jankélévitch offre una compiuta introduzione al pensiero simmeliano nel suo complesso. La filosofia della vita è il centro di questa penetrante e illuminante lettura, che affronta le questioni sempre attuali del rapporto dell'individuo con il relativo e con l'assoluto. Il saggio può essere considerato un modello di dialogo tra due filosofi, altrettanto significativo per illustrare gli inizi del percorso di Jankélévitch, quanto per rilanciare la forza del pensiero simmeliano.
Le passioni, a lungo condannate come fattori di turbamento, oggi si puntano a controllare dal punto di vista dell'individuo, mentre si mirano a forgiare come strumenti di dominio politico, dal punto di vista sociale. L'opposizione tra ragione e passione fa parte di una costellazione di senso culturalmente condizionata.
Quel che da Anassimandro a Kant, da Pierce a Wittgenstein si trasmette è la natura cartografica dei sensi del mondo. Al punto che ancora si crede che la mappa sia la copia della Terra senza accorgersi che è la Terra che fin dall'inizio ha assunto, per la nostra cultura, la forma di una mappa. Oggi non è più possibile contare, nel rapporto con la realtà, sulla potentissima mediazione cartografica che, riducendo a un piano la sfera terrestre, ha fin qui permesso di evitare di fare i conti con la Terra così come davvero essa è, con il globo. Questo è un manuale di geografia privo di qualsiasi carta, in esso non soltanto si dà conto della geografia umana di oggi, ma si ridefinisce la natura dei principali modelli di descrizione del mondo in nostro possesso.