
Non si può comprendere a fondo Platone senza considerare la sua peculiare concezione della poesia, e quindi anche della musica, che nella cultura greca alla poesia era intimamente connessa. La funzione della poesia nel mondo antico era essenzialmente educativa e formativa, lontana dal risolversi in un divertimento spirituale di carattere prevalentemente estetico. Per questa ragione, al contrario di quanto comunemente si crede, Platone accorda alla poesia un ruolo importante, mantenendola nello Stato ideale, sia pure con una riforma strutturale. Se infatti la poesia e la musica non possono essere sottostimate a causa del loro potere di interpellare e influenzare la parte non razionale dell'anima umana, tale potere deve essere sottratto a ogni occasione di abuso e reso un immancabile strumento di formazione. Agli occhi di Platone, la musica è autentica bellezza solo nel momento in cui persegue ciò che è meglio per l'uomo, ovvero la verità. In questo saggio Moutsopoulos ripercorre la teoria platonica sulla musica in un quadro che delinea le coordinate spirituali dell'essenza stessa della grecità, nella quale la musica trova il suo coronamento nell'amore del bello, dove si manifestano il bene e la verità.
Bloch ha definito la musica il sognato castello, il brivido interiore, il razionale dell'irrazionale, le ardenti braccia del desiderarsi a casa, l'humanum utopico del mondo, quell'appello lanciato verso ciò che manca. L'originalità del suo pensiero è nell'aver individuato il profondo legame tra musica, filosofia e speranza, all'unisono con quanto affermato da Nietzsche, Cioran, Marcel, García Morente e Claudel.
Il percorso verso l'altro è un percorso musicale, nel quale ogni nota ha la sua importanza sulla partitura. Ma hanno la loro importanza anche i silenzi, anche i mugugni, le pause di riflessione e le pause di discorso. Ogni singolo dettaglio ha importanza. Le persone sono prismi di suoni e di silenzi. Per dipanarle non ci resta che cominciare il percorso entrando nei luoghi dove questi percorsi vengono agiti e compresi.
Musarion è un poemetto in tre canti composto nel 1766 dal letterato tedesco Christoph Wieland. Intreccio di filosofia, morale e satira, fu un successo all’epoca – in pieno fermento illuministico – tanto che Goethe scrisse di averne in mente «ogni pagina» e in essa «di rivedere vivente e nuova l’antichità». L’autore di questi versi, la cui protagonista è un’etera, ha creato un genere, a tratti licenzioso e insieme letterario e filosofico, dove la filosofia mette alla prova se stessa in forma di poesia e la commedia umana veicola una precisa, e provocatoria, idea di ragione: la filosofia delle Grazie, polemica tanto verso l’entusiasmo mistico quanto verso la rigidità di filosofi e teologi. La verità – paiono dirci questi canti – è in bilico fra la misura dell’anima e quella dei sensi, e la sua luce è il riflesso dell’irredimibile fragilità umana. In appendice al volume uno scritto inedito di Goethe offre un vivido ritratto dell’amico Wieland.
Prima edizione italiana di un brillante testo del romanticismo tedesco, nel quale si alternano spiritualità ed erotismo.
CHRISTOPH M. WIELAND (1733-1813) è stato uno dei maggiori poeti e pensatori tedeschi la cui opera ha avuto un profondo influsso sul classicismo tedesco, anticipando elementi del romanticismo. Primo traduttore in lingua tedesca di Shakespeare, tra le sue opere tradotte in Italia: Oberon. Poema eroico romantico in dodici canti (Rizzoli, 1993); La storia degli Abderiti (Utet, 1982).
RENATO PETTOELLO, ordinario di Storia della filosofia contemporanea all’Università di Milano, ha curato per Morcelliana: J.F. Herbart, Dialoghi sul male (2007); J.W. Goethe - F. Soret, Conversazioni (2010), con F. Botticchio; A. Schweitzer, Goethe (2011).
Tradizione filosofica, cristianesimo, islamismo sono grandi muri di pietra, recinti del pensiero davanti a cui la riflessione umana si è arrestata e le costruzioni intellettuali più salde, anche quelle teologiche o scientifiche, possono diventare un alibi per non proseguire nell'interrogazione, per non confrontarsi con il deserto di certezze che la pura filosofia inesorabilmente rivela. Emanuele Severino ci conduce di fronte al rigore della Follia dell'Occidente. Ripercorre la nostra tradizione millenaria, dal Mito alla civiltà della Tecnica, e ne mostra i tragici e inevitabili fallimenti. Nel corso degli ultimi due secoli, la filosofia, per chi ne sappia scorgere il sottosuolo, ha saputo affrontare, aggirare e smantellare le prigioni che la tradizione occidentale ha innalzato attorno a sé a propria difesa. Severino riscopre nelle parole di Leopardi e nello Zarathustra di Nietzsche, nella rivolta di Ivan Karamazov e in qualche modo in Heidegger altrettanti "martelli" per distruggere il muro di pietra, altrettante vie alla comprensione del divenire dei corpi e delle anime, della nullità da cui, secondo la Follia dell'Occidente, veniamo e verso cui siamo inevitabilmente risospinti. Una vertiginosa riflessione sulla progressiva coerenza dell'alienazione che oggi domina il pianeta e che, pur lasciandosi alle spalle il "sonno mortale del divino" non si volge ancora verso "la verità eternamente splendente e manifesta in ognuno di noi".
La vecchia Europa vive una nuova stagione, come epicentro amato e odiato di una profonda migrazione di popoli che convengono soprattutto dall’oriente e dal sud del mondo, in cerca di una vita migliore o semplicemente per sfuggire alla fame, al dolore e alla morte. In non pochi casi, anche per ritrovare una dignità di vita. Come è accaduto e continua ad accadere per la vita sociale (e politica) americana, anche per noi europei v’è il problema di stabilire il giusto rapporto fra la necessità di reperire un codice comune di convivenza e l’istanza della molteplicità etnico-culturale. La letteratura sull’argomento oscilla tra due estremi, non facilmente componibili: da un lato, si cerca la soluzione per sottrazione, e si bada al reperimento di alcune costanti dell’umano che dovrebbero da tutti essere riconosciute per via della loro universalità; dall’altro lato si nega che un tale compito possa essere eseguito e si ricorre a una soluzione per addizione. Il molteplice culturale dovrebbe essere semplicemente registrato e tutte le differenze essere coltivate. La fragilità di entrambe le soluzioni, che pure contengono una loro verità, è diventata fin troppo evidente. Bisognava, dunque, volgere lo sguardo altrove. Bisognava dare indicazioni intorno a una universalità concreta degli umani, che onorasse tanto ciò che li accomuna quanto ciò che li fa differire. Questo libro ci ha provato, mettendo in campo, nell’istruzione determinata delle molteplici questioni (universalità dei diritti, flussi migratori, cittadinanza globale, ruolo pubblico della religione, politiche dell’identità) il principio della reciprocità del riconoscersi, come architettura di senso dei rapporti tra noi.
Carmelo Vigna è ordinario di Filosofia morale presso l’Università di Venezia, dove ha diretto il Dipartimento di Filosofia e T.d.S. e ha fondato e attualmente dirige il Centro Interuniversitario per gli Studi sull’Etica (C.I.S.E.). Insegna anche presso l’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi scritti recenti ricordiamo: “La politica e la speranza” (Roma 1999, con V. Melchiorre); “L’enigma del desiderio” (Cinisello Balsamo 1999, con L. Ancona e P.A. Sequeri); “Il frammento e l’Intero” (Vita e Pensiero, Milano 2000). Ha curato i volumi: “La libertà del bene” (Vita e Pensiero, Milano 1998); “Essere giusti con l’altro” (Torino 2000) e “Introduzione all’etica” (Vita e Pensiero, Milano 2001).
Stefano Zamagni è ordinario di Economia politica presso l’Università di Bologna; docente a contratto presso l’Università L. Bocconi di Milano e presso la Johns Hopkins University, Bologna Center. Direttore del Master in Economia della cooperazione. Membro del Comitato editoriale di «Economia Politica»; «Economics and Philosophy»; «Journal of Economic Methodology»; «Mind and Society»; «Ragion Pratica»; «Brock Review». Tra i suoi scritti ricordiamo: “Economia e Etica” (Roma 1994); “Profilo di Storia del pensiero economico” (Roma 1997, con E. Screpanti); “Complessità relazionale e comportamento economico” (Bologna 2002, con P. Sacco).
Si parla sempre più di interculturalita, sempre meno di multiculturalismo. In effetti, la molteplicità culturale non è certo una novità. C'è sempre stata nella storia umana. E tutto questo potrebbe dirsi anche dell'interculturalità. Perché allora queste realtà sociopolitiche sono diventate problema? Semplice: perché nessuno tollera più culture egemoni. Ogni cultura rivendica una qualche parità ed esige rispetto: chiede di poter partecipare alla vita comune sulla terra senza anatemi. A volte anche senza restrizioni. Ma questo è davvero possibile? E soprattutto: questo è giusto? Sembra proprio di no. Senza alcune restrizioni, a volte no: dice l'etica. Anche le realtà culturali, come tutte le realtà di questo mondo, devono essere attraversate e illuminate dalla domanda intorno al bene e al male. Il fatto è che nessuna cultura è, in sé e per sé, buona o cattiva: va interrogata nelle sue forme e nelle sue pretese, perché potrebbe portare con sé elementi che giocano contro la comune umanità (per esempio, certi casi di mutilazione del corpo). Ogni cultura va rispettata e onorata, certo, ma a misura che essa, a sua volta, rispetti e onori l'umanità comune. Il principio del riconoscimento, che è il punto di riferimento regolativo di tutto il libro e che è l'ispiratore, più o meno celato, del recente passaggio dalla cifra fattuale del multiculturalismo alla cifra prescrittiva dell'interculturalità, deve poter dispiegare la sua universalità anche riguardo alle differenti identità culturali.
Una filosofia incentrata sulla esperienza vissuta che andando "verso le cose stesse" fosse in grado di fornire una nuova oggettività, rifuggendo dalle secche dello scientismo positivista, delle astrazioni logiche e dello storicismo relativistico. Questo il programma della fenomenologia fondata da Edmund Husserl e al cui interno si sono formati molti tra i più grandi pensatori del secolo scorso, da Jaspers a Heidegger, dallo stesso Gadamer a Sartre e Merleau-Ponty. Apparso per la prima volta nel 1963 sulla rivista "Philosophische Rundschau", questo saggio rappresenta una delle testimonianze più rilevanti del confronto con Husserl che attraversa l'intera opera di Gadamer. Il filosofo tedesco offre qui una sintesi agile e perfettamente informata della parabola del movimento fenomenologico e lo stesso Heidegger, che aveva condiviso con lui quell'avventura del pensiero, dopo aver letto il suo saggio ammise che non avrebbe saputo fare di meglio.