
La tesi di un antisemitismo filosofico in Heidegger, tornata in voga con la pubblicazione dei Quaderni neri a cura di Peter Trawny, appare per nulla innovativa se si tiene conto delle precedenti campagne diffamatorie condotte da Victor Farias e Emmanuel Faye e si entra nel merito dei testi heideggeriani. In questa analisi ci guida Francois Fédier - con saggi scelti, frutto di un ventennio di studi su Heidegger e la questione ebraica, e un'intervista inedita di Stefano Esengrini - mostrando la marginalità del pensiero politico heideggeriano, nelle sue cadute e rettifiche, rispetto alla grandezza speculativa del filosofo. Heidegger va compreso alla luce dell'analitica del Dasein: l'esserci che è condiviso da tutti gli uomini ed è agli antipodi di una ideologia della razza, essendo l'apertura originaria che ci precede ma in nessun modo predestina. Un'apertura che si svela in maniera peculiare nell'opera d'arte.
L’ingratitudine e la riconoscenza sono tratti salienti degli intricati rapporti umani. L’una è prova di arroganza e disprezzo, l’altra di amicizia indissolubile. Se l’ingratitudine evoca i motivi del tradimento, la riconoscenza sancisce la benevolenza verso chi ci ha aiutato, spesso senza chiedere nulla in cambio. Oggi il dissolversi delle buone maniere evidenzia il logoramento delle più elementari consuetudini relazionali. Si è ingrati senza più accorgersene, si è riconoscenti quanto basta per ottenere favori, all’insegna dei più impliciti rapporti di scambio. Il libro, rivisitando in profondità i due sentimenti e le loro moralità contrapposte, penetra in esse per riproporle alla nostra riflessione. Non tace al lettore le pieghe oscure di due esperienze emotive tra le più eluse e trascurate della vita di tutti noi.
La grande filosofia del Novecento ha evocato questo destino come un inesorabile tramonto della nostra civiltà, un tramonto che, però, non ha mai conosciuto la notte, divenendo una lunga, interminabile decadenza. E tuttavia, questo Occidente in declino ha diffuso nel mondo i suoi modelli di vita, ha colonizzato senza essere colonizzatore: migliaia di persone, oggi, fuggono dalle proprie terre per venire a vivere da noi. Perché l'Occidente è visto come un paradiso: sarà anche mediocre, senza quelle tensioni utopiche e quelle energie progettuali che un tempo ha conosciuto, ma chi si guarda intorno non trova di meglio di questo pur modesto paradiso. Ha senso salvarlo dalla notte in cui può definitivamente sprofondare la sua cultura? Come proteggerlo dall'attacco dei fondamentalismi? C'è ancora una bellezza che sia testimonianza della nostra umanità? Può l'altra notte – quella d'Oriente, le «mille e una notte» dimenticate nei secoli, dove risuona l'eco dei versi del poeta, dove tutto ritorna all'origine, al mistero, simbolo d'incontro meraviglioso tra civiltà – comunicare un senso ancora valido e fondante per noi? Sono domande a cui Stefano Zecchi risponde ripercorrendo in particolare i temi che hanno segnato la cultura europea del XIX e del XX secolo e sui quali è opportuno ricominciare a interrogarsi.
Dai saggi raccolti in questo volume emerge una serrata critica della “tradizione signorile” del mondo americano. Con questa espressione, che ebbe subito tanto successo nonostante non si trattasse di un termine encomiastico, George Santayana formula una condanna generale non solo della filosofia e della cultura dominante, ma anche della mentalità comune americana, a suo avviso uniformemente plasmata dal moralismo puritano del New England, lo stato americano con il più antico passato storico e culturale. Secondo la sua visione, la tradizione signorile è il collante e il motore di questo mondo, con uno strano duplice effetto: propulsivo e retrogrado.
Tra la fine del Duecento e l'inizio del Trecento la filosofia fece ritorno in Italia dopo un'eclissi durata più di settecento anni. Decisiva fu l'apertura a Bologna dei nuovi corsi di logica e filosofia per gli studenti di medicina. I maestri che vi insegnavano si dichiaravano philosophi e della philosophia difendevano l'autonomia rispetto alle altre scienze. Il libro racconta la storia di questa straordinaria e fortunata stagione culturale, ricostruendo il mondo intellettuale di filosofi, medici, letterati e predicatori che agivano in un paesaggio cittadino vivace e complesso, tra aule universitarie, corti signorili e biblioteche conventuali.
Questo non è l'ennesimo libro sulla felicità, completo - come tanti altri che affollano le librerie - di istruzioni per l'uso. Risultato di un lungo lavoro e di un'intensa discussione tra filosofi di diverse generazioni, non dà consigli per essere felici, né cerca di definire cosa sia la felicità. Si chiede invece dove la si cerca. In particolare, in quali ambiti la cercano gli italiani. In diciassette brevi saggi viene presentato un campionario, non esaustivo ma accuratamente selezionato, di ciò che oggi ci rende felici. Dall'amore alla religione, dalla moda alla politica, dal cibo allo smartphone, dalla casa agli psicofarmaci, per citare solo alcuni dei temi affrontati, il libro offre uno scenario prismatico delle nostre aspettative di felicità che, tra stereotipi e novità, si rivela non privo di sorprese.
Dalla felicità all’amore e alla morte, dalla giustizia alla forza, all’amicizia e alla nostalgia: non c’è argomento di cui i Greci antichi non si siano occupati con una libertà e una spregiudicatezza che ancora oggi lasciano ammirati. Senza paura di mescolare temi alti e bassi (quali sarebbero poi?), ben deciso a non lasciarsi irretire in un classicismo di maniera, questo libro mostra che è proprio volgendo lo sguardo verso quelle distanze remote che potremo trovare una valida guida per orientarci nei complessi problemi dei nostri giorni. Tanti agili saggi che, unendo profondità e leggerezza, ci accompagnano nel più difficile e nel più attuale dei mestieri: quello di vivere.
Gli animali sono presenti nella vita umana sin dalle origini. Sono utilizzati per l'alimentazione, il lavoro e la ricerca, vivono nelle nostre case, condividono con noi gli spazi urbani e abitano gli ambienti selvatici che ci circondano. Il loro trattamento suscita accese discussioni pubbliche e un vivace dibattito teorico, in particolare per quegli usi, come alcune sperimentazioni, ai quali allo stato attuale non sembra ragionevole rinunciare. Il libro presenta tali questioni etiche sullo sfondo di una ricostruzione della realtà biologica e culturale del rapporto con gli animali e di una rassegna delle concezioni filosofiche passate e contemporanee. L'autore individua nei sentimenti e nella capacità umana di simpatizzare con gli animali le risorse per includerli nella considerazione morale e per riformare il modo di interagire con essi.
A lungo l'umanità si è considerata perfetta, attribuendo le proprie eventuali défaillances all'alienazione portata dalla tecnica o all'azione di entità arcane e malvage come il Capitale e l'Europa. Ma sarebbe bastato un esame di coscienza per capire che il problema era un altro: l'imbecillità, dentro e fuori di noi. L'imbecillità è una cosa seria, a cui sinora non si è dato che uno sguardo distratto, come fosse una cosa per pochi e, soprattutto, per altri. Non è così, e, appena ce ne accorgiamo, i conti tornano, nell'economia, nella società e nella storia. Parte da qui l'irresistibile riflessione del filosofo su questa imbarazzante caratteristica dell'umano. Ce n'è per chiunque: per i titani del pensiero, per i giganti indiscussi della letteratura, per i protagonisti della storia universale. L'umano, insomma, è essenzialmente (e non accidentalmente) un imbecille. Ed è di qui, solo di qui, dal sentirci tutti lambiti dalla grande ala dell'imbecillità, che ha origine il progresso, la lunga avanzata dell'umanità verso il bene - ossia, la sua fuga senza fine dall'imbecillità.
È concepibile che esistano al contempo un soggetto onnipresciente, in grado di conoscere ogni cosa prima che accada, e individui che non siano determinati ad agire solo come questo soggetto vede e vuole? Come conciliare il fatto che un evento accaduto ieri possa, oggi, non essere accaduto ieri? La libertà coincide davvero con l'assoluta apertura del futuro? Se invece il futuro è chiuso dalla prescienza divina, o dai limiti della nostra esistenza, si possono comunque, o forse proprio per questo, aprire spazi di libertà in questo mondo? Ecco alcune delle domande che secoli di tradizioni filosofiche, scientifiche e teologiche hanno raccolto sotto il termine compatibilismo. Vi è stato, e vi è ancora, chi ha sostenuto che siano domande senza risposta, tentativi di metterle brache al mondo. Questo libro tratta di chi ha cercato di fornire una risposta, una soluzione all'interno del proprio modo di pensare - da Severino Boezio ad Anselmo d'Aosta a Tommaso d'Aquino; da Duns Scoto a Ockham sino a Molina e Leibniz. Oppure di chi ritiene utile servirsi del passato come di una serie di soluzioni a domande del presente. Ma racconta anche di chi ha serenamente rinunciato a rispondere, sino a chi intravede nel compatibilismo uno strumento prezioso per il dialogo tra culture e tradizioni religiose.
Quattro fenomeni profondamente interrelati costituiscono gravi ostacoli a una pace stabile a livello mondiale e mettono a repentaglio interessi e diritti basilari di generazioni presenti e future: l'escalation della violenza; il costante approfondirsi delle disuguaglianze nella distribuzione di risorse e potere; il crescente aumento della temperatura del pianeta e il conseguente degrado ambientale; il forte aumento dei flussi migratori nel mondo con decine di milioni di persone che fuggono dai massacri, dalle persecuzioni, dalla povertà cronica. Nei sei saggi raccolti in questo volume, Giuliano Pontara, argomentando che la guerra moderna è ingiustificabile, e che non si esce dal vortice della violenza con ulteriore violenza, esplora e analizza alcuni problemi centrali riguardanti la nozione e le vie della pace: dalla istaurazione di un governo mondiale democratico alla nonviolenza attiva, fino ai fattori istituzionali e alle forze situazionali che ne favoriscono o impediscono l'applicazione; memore del detto kantiano per cui, pur non sapendo "se la pace perpetua sia una cosa reale o un nonsenso [...] dobbiamo agire come se fosse una cosa reale, il che forse non è, e operare per la fondazione di essa", qui e ora.
Nel saggio intitolato "L'uomo e la tecnica", frutto di una conferenza del 1931, Oswald Spengler è stato il primo a porre una domanda nuova e fondamentale per la filosofia: "Che significa tecnica? Quale è il suo senso nella storia, quale il suo valore nella vita dell'uomo, quale il suo posto morale o metafisico?". In anticipo su Heidegger, che inizierà la sua interrogazione sulla 'questione della tecnica' a partire dal dopoguerra - e in anticipo anche su quella autentica 'bibbia' della riflessione sulla tecnica che è l'Operaio di Ernst Jünger (1932) - Spengler è il primo ad accostare, in linea con le ardite sperimentazioni musicali di quegli anni, due elementi pericolosamente dissonanti, filosofia e tecnica, o più precisamente, come si esprime nel testo citato, tecnica e metafisica.