
La pubblicazione, nel 1963, del libro di Hannah Arendt "La banalità del male" suscitò un dibattito incandescente, che turbò profondamente Arendt, anzitutto perché quel libro incrinò i suoi rapporti con gli amici e i sodali ebrei di un tempo, tra i quali Gershom Scholem. Ma quel dibattito dai toni accesissimi, che dagli ambienti accademici tracimò sui giornali e sui media del tempo, era destinato a lasciare un segno indelebile sul pensiero e sulla vita stessa di Arendt. Esso inaugurò un lungo e travagliato percorso speculativo che l'avrebbe condotta al capolavoro incompiuto "La vita della mente". La "questione ebraica", così come viene messa a fuoco attraverso il dibattito provocato da "La banalità del male", segna così una svolta radicale nel cammino di pensiero di Arendt e lascia affiorare una concezione assolutamente peculiare dell'ebraismo, distante anni luce dalle versioni allora dominanti, compresa quella difesa dallo Stato di Israele, una concezione che negli scritti arendtiani, fino ad allora, era rimasta sottotraccia.
Saggio breve. L'autore si interroga sulla necessità di riformulare tematiche filosofiche riguardanti l'identità, la forma, lo spazio interiore, la centralità, il diritto alla città.
L’acquisizione delle istanze provenienti dal “paradigma evolutivo” genera la possibilità di motivare, tra le tante proposte riflessive, anche il senso della moralità umana. Essa, essendo dimensione propria dell’agire umano, si definisce come costituente essenziale dell’umanità dell’uomo, perché è intrinseca al movimento stesso della sua esistenza, che nello scegliere il proprio progetto di vita sceglie, al contempo, la prospettiva dell’ordine della vita buona e riuscita. Una prospettiva che va oltre la semplice “voglia di vivere” per concretarsi nel “desiderio di essere”, che trova compiutezza nella fioritura dell’umano, la quale, nell’oggi, è il nome etico più adeguato a dire la “ricchezza antropologica”, nelle molteplici attuazioni creative nelle varie fasi delle età della vita. Le riflessioni contenute nel libro, cercando di delineare un’“etica fondamentale”, si pongono l’obiettivo di dare corpo ad un’“etica del compimento umano” come orizzonte di significato che rende ragione del passaggio evolutivo che va dall’ominizzazione all’umanizzazione.
Il mondo contemporaneo ha assoluto bisogno di pensare il futuro come una possibilità buona. È nell’ottica di un’opportunità per il cambiamento che questo libro rilegge le utopie moderne da Thomas More a Francesco Bacone, da Henri de Saint-Simon a Zygmunt Bauman.
Il ritorno a Utopia è un viaggio necessario, per quanto il suo percorso sia difficile da immaginare con precisione. Superata l’illusione che il progresso si produca automaticamente per un destino o per una necessità storica o tecnologica, abbiamo il compito di immaginare strutture e relazioni sociali che siano meno ingiuste, meno autodistruttive, più vivibili, anche se non perfette.Si tratta di provare a tracciare l’immagine credibile di un futuro in vista del quale agire con decisione. La navigazione è affidata all’ingegno di ognuno e di tutti, ma prima di salpare occorre rintracciare e ordinare le conoscenze intorno a che cosa sia la meta che intendiamo raggiungere. Conoscenze che si trovano precisamente in quell’immagine della giustizia e del bene che abbiamo imparato a chiamare ‘utopia’. Riscopriremo così la profondissima ragionevolezza del pensiero utopico, il suo realismo, la sua concretezza – antidoto alle contorsioni folli dell’attuale assetto del mondo.
Il disprezzo sembra avvolgere le relazioni della nostra società dove si esperiscono forme di rifiuto, emarginazione e sintomi gravi di razzismo che conducono a chiusura e inumanità. È possibile far crescere un atteggiamento differente rispetto a questo? Qui si desidera prospettare una sorta di viaggio nel disprezzo per orientarsi verso gli altri e incontrarli senza alcun senso di rifiuto, per scardinare forme di chiusura che lasciano spazio solo alla paura e avviliscono ciò che ogni persona da sempre cerca: la bellezza immensa dell'amore radicata nel rispetto personale e dei diritti umani.
Con la sua esigenza di un ritorno alle "cose stesse", la fenomenologia husserliana si è sempre proposta di esibirne la costituzione, ovvero la fondazione. In questo modo ha preso coscienza di sé come nuova "filosofia prima" recante il principio di legittimazione assoluta della conoscenza fenomenologica. Cosa legittima quest'ultima tanto rispetto ai dati attestati da un procedimento puramente descrittivo quanto alla loro origine negli atti della soggettività trascendentale? Questo libro intende ripensare tale questione alla sua radice: è con l'obiettivo di realizzare il progetto di legittimazione assoluta della costituzione del senso dei fenomeni che Husserl procede - oltrepassando i limiti di una fenomenologia descrittiva - a delle costruzioni fenomenologiche che non sono costruzioni speculative, ma "sistemi di coordinate" che il fenomenologo deve introdurre per rendere conto di questo o quel contenuto fenomenologico. I fondamenti di una fenomenologia costruttiva avranno dunque come scopo di chiarire lo statuto di ciò che si presenta al fenomenologo nelle sue analisi concrete - il che implica un approccio in cui sovente, per la natura stessa della "cosa", "ci mancheranno i nomi".
Il termine distanza viene immediatamente colto nella sua accezione topografica, nel senso di un intervallo tra un oggetto e un altro. Essere distanti può anche esprimere uno stile, un modo di essere di chi vuole mantenere un distacco dalla vita, dalle cose che lo circondano e dagli altri, come se non ci fosse nulla per cui valga veramente la pena di vivere. Il presente lavoro intende pensare la distanza come possibilità di approssimarsi senza invadere, soccorrere senza sostituire, riconoscere senza proiettarsi sugli altri, scoprendo un modo più costruttivo di essere e vivere in relazione. Solo a condizione di mantenere una buona e giusta distanza tra sé e sé e tra sé e gli altri è possibile mantenere un rapporto autentico nel segno della libertà e del rispetto.
l fenomeno del linguaggio pervade tutta la realtà. Ogni evento può essere raccontato. Ci orientiamo nel mondo dando nomi alle cose. Il linguaggio non è solo uno strumento di comunicazione, ma segna profondamente la nostra esistenza. Questo libro risponde al desiderio di guardare il fenomeno del linguaggio da molteplici punti di vista, non solo nella sua struttura logica, ma anche come luogo dell'interpretazione, della comunicazione e della conoscenza. Pertanto, gli autori presi in considerazione appartengono sia alla tradizione nota come analitica sia a quella che viene definita continentale. Questo sguardo inclusivo riguarda anche la dimensione storica: la risposta ai quesiti che emergono viene cercata infatti sia negli autori classici del mondo antico sia nei contributi dei pensatori contemporanei.
Come possiamo superare la rassegnazione che proviamo di fronte al contesto umano, sociale e politico nel quale viviamo oggi? Roberto Mancini, filosofo appassionato, propone un percorso originale per liberarci da quella impotenza diffusa che ci fiacca e ci intristisce per cominciare a riaprire il futuro e a ridare pienezza alla nostra vita. È un percorso che ci chiede di valorizzare soprattutto la nostra autonomia di pensiero e la nostra capacità di immaginare. "Trasformare la vita" diventa quindi un contributo importante per riprendere in mano la nostra vita liberandola dall'individualismo e dalle pulsioni egoistiche per raggiungere finalmente una libertà solidale.
Opuscola/251
Nell'epoca in cui la figura dello straniero torna a essere pericolosamente identificata con quella del nemico, compito della filosofia è quello di ricostruire la storia, la potenza e l'attualità di categorie di cui abbiamo urgente bisogno. Patendo dalla Grecia antica e dalla tradizione giudaico cristiana, fino al arrivare alla modernità del Lumi e al pensiero contemporaneo, l'Autrice offre una articolata ricostruzione filosofica, ma anche storica, linguistica e giuridico-politica, dei concetti di straniero e ospitalità nella loro intima connessione.
Il lavoro nasce da una frase di Agostino di Ippona utilizzata da Jacques Derrida per indicare “qualcosa” della propria pratica filosofica. Quella citazione attira l’attenzione per lo strano rapporto che essa crea tra la verità e il fare. In Agostino quel fare era legato al gesto particolare di scrivere le proprie confessioni davanti a Dio ma non per Dio, bensì per sé e per i fratelli: lo scrivere come un modo per fare verità o per scoprire la verità di sé, per professare la propria verità.
Come la scrittura agostiniana così anche il fare la verità della pratica della decostruzione tende a creare una comunione: con i testi che si leggono e con gli interlocutori che leggono ma anche con i contesti sociali ai quali quei testi si rivolgono. Derrida riconosce la presenza di un “di più” di umanità, di un’eccedenza di socialità che richiede una pratica capace perlomeno di problematizzare tutti quegli approcci che pregiudicano l’a-venire dell’impossibile.
In trentadue anni - tra il 1900 (primo articolo sui quanti di Planck) e il 1932 (formulazione rigorosa della teoria da parte di von Neumann) - il mondo è cambiato come mai prima di allora. Non la fisica: il mondo. Fino ad allora tutte le scoperte e le teorie scientifiche avevano messo sotto la lente angoli nascosti della realtà, troppo piccoli o troppo grandi per essere osservati, troppo veloci o troppo lenti per essere descritti. Ma la realtà era sempre lì, non era messa in discussione: solo si dimostrava più elusiva del previsto, ma in definitiva sempre conoscibile. Il trentennio dei quanti - e la lunga, magnifica ed epica disputa tra Einstein e Bohr - ha rotto completamente gli schemi: se la meccanica quantistica è corretta (e lo è), allora la realtà, là fuori, non è compiutamente descrivibile. Nemmeno in linea di principio. Abbiamo sbagliato qualcosa (come voleva Einstein) e le cose si risolveranno? O non abbiamo sbagliato niente (come voleva Bohr) e semplicemente dobbiamo rinunciare alla descrizione completa del mondo (che per quanto ne sappiamo, potrebbe anche non esserci)? Domande pesantissime, che la fisica ha imposto all'indagine filosofica.