
"Tra i classici della latinità Catullo è quello che suscita più simpatia tra gli studenti. Batte lo stesso Virgilio, perché, per quel poco che se ne legge, non è troppo difficile, e parla, almeno pare, di sé, raccontando situazioni non astruse, sentimenti e rabbie condivisibili, che tutti, anche a sedici anni, abbiamo sperimentato in qualche misura. Quando invita se stesso a farsi forza, a non ricadere nella sciocca illusione, suona familiare come Leopardi. Ed è tanto breve ed espressivo, come nel distico di odi et amo, da lasciare tracce anche nella memoria del più svogliato dei liceali. Finalmente, pare, un poeta 'normale', che se la sua donna va a letto con un altro gli sale il sangue alla testa e, se gli muore il fratello, piange; e a Giulio Cesare dà del finocchio... Appunto. A frugare tra i versi di Catullo, spunta pure il latino che nessuna grammatica ti insegna, la lingua del sesso, le parolacce; i doppi sensi. Quel passero, per esempio..." (Dall'Introduzione di Nicola Gardini)
256 versi che accompagnano il lettore lungo la strada - a volte in salita, a volte piana e ricca di suggestioni, sempre aperta a passi ulteriori - di una "piccola storia della conoscenza". Parole nelle quali la denotazione - quel che di per sé la parola dice - gioca con la connotazione - cioè con il suo significato nascosto - in un chiaroscuro a tratti sapienziale, a tratti ludico.
"La bizzarria si scosta dalla consuetudine. L'imbizzarrito è uno sconosciuto capitato per sbaglio a una festa di nozze. Cosi furono i profeti della scrittura sacra. Abramo si sradica da casa, patria, affari, raggiunto da una voce a lui solo rivolta. È un ordine: "Vai vattene", lo avvia a un vagabondaggio senza fine. Per singolare sigillo dell'intesa si circoncide il prepuzio, da se stesso. Non per mutilazione, ma in segno di apertura. Poi salirà su un monte per scannare suo figlio, dietro richiesta assurda. Poi si farà fermare a coltello sguainato sulla gola. È raffica di mosse infervorate dall'obbedienza alla voce. Abramo è banderuola di una sola brezza. Per molto meno di un ascolto simile, dei poeti, variante minore di profeti, Hölderlin, Walser, si avvitarono in un silenzio impenetrabile, nella tenuta stagna di un isolamento. Sentivano le voci, un parlottio di sala da teatro prima dell'alzata del sipario. Nelle pagine di questa sezione si narrano comportamenti sgangherati ma provvisti di giustifica sacra. "Navigare es preciso", dicono i Portoghesi, dove "preciso" sta per obbligatorio. Cosi è la bizzarria della provvidenza, la deviazione urgente di un singolo diventa apripista del percorso di tutti gli altri. Gli imbizzarriti di queste pagine sono esploratori." (Dalla premessa)
"Aurore d'autunno" - tra le più alte espressioni poetiche del Novecento - è un libro semplice: giunto alla soglia dei settant'anni, Stevens medita in pentametri giambici sulla propria vita, sulla poesia e, di fronte allo spettacolo incandescente della natura, accusa il fallimento dell'immaginazione. "Le aurore d'autunno" scrive nel novembre 1950 al suo agente letterario parigino "sono le notti di primo autunno, che a volte a Hartford hanno lo stesso riverbero dell'aurora boreale". E la loro "effulgescenza artica" impone un nuovo registro linguistico: abbandonato il tono sublime, il vecchio poeta lascia che affiorino parole semplici, piane. È una vera e propria svolta mistica, che ci rivela uno Stevens insolito, fortemente antiapocalittico, incline piuttosto all'immanenza, a un appassionato rapporto con la terra: l'uomo è colto nel suo habitat naturale che è fatto di tempo atmosferico, e se alza gli occhi al cielo non vi vede nessun dio, nessuna traccia. Piuttosto, nel riverbero della luce boreale, le cose appaiono di una solitudine cosmica, e lo sguardo si abitua a un'assenza di rivelazione. È qui il punto di svolta antiromantica, antimetafisica delle Aurore. L'autunno non è la stagione keatsiana della bellezza e della ricchezza dolce e matura: verso la fine della vita, la realtà appare più povera di desiderio, più priva di speranza - e perciò più vera. In questo senso Stevens è, più di Eliot e di Pound, il poeta dell'epoca moderna.
Le poesie di Chandra Livia Candiani si rivolgono spesso a un tu variabile, che di volta in volta si riferisce a persone presenti o assenti, prossime o lontane nello spazio e nel tempo, o ancora: comunità in potenziale ascolto, entità non individuabili, la morte, parti dell'io poetante ("Io ti converto in fame / mio silenzio"). Ma questo tu assomiglia molto a un noi creaturale che accomuna dèi, uomini e cose in una sorta di fratellanza universale in cui l'insistenza pronominale funge più da invocazione che da individuazione. O da "istruzioni per l'uso", come nella splendida "Mappa per l'ascolto" ("Dunque, per ascoltare / avvicina all'orecchio / la conchiglia della mano") o la corrispondente "Mappa per pregare". Della stessa serie "pedagogica" è la strofa di "istruzioni per abbracciarsi" che abbiamo messo in copertina. Chi parla, in questi casi, è una voce sapiente ma non saccente, un soffio leggero con la forza di un vento impetuoso: il risultato di una miscela di linguaggio quotidiano e metafore evocative, colloquialità e schemi anaforici sacrali. Nel libro ci sono anche poesie sulla parte infantile di sé (secondo lo schema io-tu-noi-tutti) da coltivare o recuperare, poesie sul silenzio, sul desiderio; bellissime quelle sul lutto, declinate in varie fasi della raccolta, che sembrano contenere il massimo di precisione proprio quando i rapporti tra presenze e assenze sembrerebbero entrare nelle zone della vaghezza e dell'oscurità.
Quaranta poesie che ripercorrono le ultime drammatiche ore della vita di Gesù, fino alla sua Risurrezione e Ascensione al cielo. Vi si ritrovano le figure di Pietro, Maria, le donne sotto la croce, Giuda e il sommo sacerdote, tutte osservate e partecipate dall'autore con profondo spirito contemplativo.
La poetessa giapponese di "Se sei triste guarda il cielo" ha toccato il cuore di molti lettori. E ameranno anche la leggerezza delicata e l'ottimismo di questa sua nuova raccolta. Perché le parole della piccola donna di cento anni sono tanto semplici che sembrano scritte da una bambina. E come le parole dei bambini hanno una saggezza profonda e una capacità unica di sollevare l'animo e il morale, di inondarci con un'epidemia di meravigliosa tenerezza.
Questo volume è una guida alla poesia di Leopardi a partire dai luoghi che alcuni versi hanno reso immortali - il Colle dell'Infinito, la Torre del passero solitario, la Piazzuola del sabato del villaggio... - per verificare come in lui dal temporale nasca il desiderio dell'eterno, dal contingente l'anelito all'assoluto. Proprio questa tensione rese Leopardi "amico" di un giovane seminarista che a tredici anni imparò tutti i suoi canti, nei quali sentiva espressa la nostalgia della bellezza, profezia della Bellezza fatta carne.
Il poeta Tino Di Cicco, in questa sua nuova opera poetica, scandisce la sua ricerca espressiva seguendo gli itinerari, a lui familiari, della via artistica e mistica. Procedendo, dunque, sul filo del pericolo e del rischio, mentre l'appassionata interrogazione del poeta si inoltra in territori sconosciuti e liminari, dove lo strepito della volgarità non arriva, nel ritmo alternato dell'ascolto e dell'invocazione, sospesa e in attesa di risposta, di un "tu" inseguito e cercato nel tempo liberato della poesia: "se talvolta disperato / ti chiamo / tu rispondimi con la poesia / fammi come l`erba / come l`acqua. Toglimi la parola degli uomini / se il mondo facilmente mi umilia / tu concedimi l'amore".
In questa sua seconda prova poetica, dopo il libro di esordio ("Quando il cuore è steso al sole. Poesie 1993-2009", Edizioni Feeria 2010), Carlo Brogi affina la sua tavolozza espressiva nella tensione che muove il suo sguardo di compassione verso il mondo e i suoi contemporanei, con cui si sente solidale, manifestando così, al contempo, una diversa visione dell'orizzonte disincantato del reale, in una prospettiva critica, ma anche di luce e di speranza, nel duplice ascolto del grido che sale dall'anonimato del mondo "liquido" e dallo spirito più vivo della fede: "... e in fine vedo / una Presenza amica che mai cede / ell'ostinata fedeltà al suo nome / che è l'Amore".
Raccolta di poesie sul tema della donna e dipinti realizzati appositamente da giovani artisti dell'Accademia di Brera in un elegante libricino d'auguri per l'8 marzo.
A otto anni dall'uscita di "Disturbi del sistema binario", la nuova raccolta di Valerio Magrelli si presenta estremamente articolata rispetto alla precedente. Diviso in dodici sezioni e in due metà di 55 poesie ciascuna, "Il sangue amaro" affronta un ampio ventaglio di argomenti. Si va da poesie su artisti, poeti o amici, a una sorta di iper-testo sul tema della lettura, dalla ripresa dell'antico genere dei calendari, al poemetto "etologico" "La lezione del fiume". A ciò si aggiungono versi civili ("Cave!" e "Il Policida"), che si alternano ora a parti più lievi ("Piccole donne" e "Paesaggi laziali") ora a un'approfondita riflessione intorno al rumore, alla musica, all'acustica ("Otobiografi"). Un caso a sé è costituito dalla forte presenza religiosa che si ritrova, sia pure in una prospettiva critica, nelle composizioni dedicate all'immagine del Natale o al dibattito sull'eutanasia. Il cuore del libro, però, va individuato nel capitolo ispirato al motto paolino, e poi kierkegaardiano, di "Timore e tremore". E questa infatti l'impronta di una scrittura segnata da quella "età dell'ansia" che, sebbene covi ormai da lungo tempo, non è evidentemente ancora giunta alla sua piena maturazione.

