
Paragonato a Eminem e a Walt Whitman, Yahya Hassan, con più di centomila copie vendute in Danimarca in pochi mesi, è ora al centro della scena letteraria e mediatica mondiale. Aggredito e minacciato di morte, vive oggi sotto scorta. E tutto per colpa dei suoi versi, rigorosamente in stampatello maiuscolo, che con la violenza di un pugno allo stomaco demoliscono ogni tabù nel descrivere la realtà di un giovane immigrato musulmano di seconda generazione tradito tanto dalla patria d'adozione quanto dalla famiglia d'origine. Hassan racconta la sua storia: quella di un bambino la cui famiglia palestinese si trasferisce in Danimarca da un campo profughi libanese. Con un padre violento e bigotto, un padre che picchia i figli e la moglie, e che quando viene lasciato si fa mandare una nuova donna direttamente dalla Tunisia. La storia di un ragazzo che passa da una comunità di recupero all'altra, che viene cresciuto a suon di calci e cinghiate, circondato da "stupidi che fanno jogging e pregano, poi rubano, bevono e vanno a letto con le ragazze danesi, in prigione si redimono leggendo il Corano e ricominciano da capo". La storia di un giovane che diventa un delinquente perché è l'unica cosa che può diventare. Yahya Hassan è l'urlo disperato di un'intera generazione, ingannata e abbandonata da tutti.
Una domenica di giugno, a Sarajevo, avvenne il fatto che divide in due la storia del XX secolo: l’at­tentato in cui fu ucciso l’arciduca Francesco Ferdinando. Prima di quel giorno, esisteva un mondo che presto sem­brò remoto. Dopo quel giorno, è già il nostro presente. Se le guardiamo da vicino, quelle ore traversate da un invisibile con­fine appaiono gremite, come tutte le altre, di piccoli fatti, incidenti, fuggevoli sensazioni, incontri fortuiti. Gilberto Forti ha avvicinato ad esse la lente della poe­sia e ne ha estratto undici «storie in versi» che si presentano con quella felice sobrietà narrativa di cui l’autore aveva già dato prova nel Piccolo almanacco di Radetzky. A parlare sono, ogni volta, personaggi immaginari che raccontano la real­tà. E subito ci vengono incontro voci e figure, dal­l’Im­pe­ratore Francesco Giuseppe, che «si dà pensiero per i funerali / come se tutto il resto non contasse», all’ufficiale Max von Lenbach, che si sottrae ai creditori fuggendo a Montecarlo con una nobildonna, dai dignitari di Corte all’attentatore, da una vecchia duchessa a un ingegnere ungherese. E gesti, episodi, parole si dispongono tutti intorno a un centro: l’uniforme troppo stretta di Francesco Ferdinando che ancora oggi possiamo vedere, con le macchie di sangue, al Museo di storia militare a Vienna. Im­ponente è la catena dei casi, delle inconsce volontà, dei consapevoli disegni che portarono a quei colpi di pistola, come se gli eventi fossero calamitati. E quasi come se la vittima li avesse cercati. Francesco Ferdinando qui non parla, ma altri parlano di lui. E, dal sovrapporsi delle voci, Forti è riuscito a evocare con magistrale nettezza la sua fisionomia: sterminatore di animali (più di trecentomila furono da lui uccisi cacciando), appassionato di fio­ri (stupendi i suoi roseti a Konopischt), erede senza poteri, costretto dall’etichetta a un matrimonio morganatico, finirà dissanguato sotto i colpi di Gavrilo Princip anche perché nessuno saprà aprirgli subito l’uni­forme, che gli era stata cucita addosso a filo doppio per celare l’in­ci­piente obesità.
Nel mondo contemporaneo i nomi di Tristano e Isotta devono sicuramente parte della loro fama all'opera musicale di Wagner, ma la loro vicenda affonda in una sorta di "trama narrativa" che ha preso forma in più opere letterarie di epoca medievale. Quella di Thomas - databile intorno al 1170 - è chiamata "versione cortese", perché alle sofferenze degli amanti è dato un significato, un carattere, che discende appunto dalle concezioni dell'"amor cortese". Questo mito dell'amore fatale è sopravvissuto al mondo medievale grazie anche alle molte rivisitazioni romantiche e non ha ancora cessato di avvincere e affascinare.
Nell'atmosfera immateriale del "Paradiso" si stemperano, tra visioni ineffabili ed estatici rapimenti, i gorghi tumultuosi della natura umana. E la cantica di Beatrice, ormai beatificata, guida amorosa e teneramente sollecita dei misteri di Dio. Ma è anche la cantica del riscatto del poeta: la sorte personale di Dante raggiunge finalmente la catarsi. A lui, vittima dell'ingiustizia e dei disordini degli uomini, spetta il compito di rivelare le verità divine e il futuro avvento di un mondo giusto. Le invettive, le polemiche, le dure condanne di uno spirito forte si placano nell'ardore profetico, nella consapevolezza di una pace meritata, di una missione compiuta, di una pienezza raggiunta.
L'opera prima di Sandro Serreri è una raccolta di 51 poesie suddivise in quattro sezioni: Sulle tracce di, Suoni camaldolesi, Versi americani e Nelle stanze remote, quella più corposa che dà il titolo all'intero lavoro.Le stanze remote sono luoghi che contengono paesaggi sconfinati di atmosfere impalpabili, inverni bianchi e d'argento, monaci silenziosi e città d'oltreoceano. Esperienze, incontri, volti riaffiorano al crepitare del fuoco del camino. Le stanze remote sono abitate da chi le ha scritte. Chiediamo: è permesso?, prima di entrare.
"Tra i classici della latinità Catullo è quello che suscita più simpatia tra gli studenti. Batte lo stesso Virgilio, perché, per quel poco che se ne legge, non è troppo difficile, e parla, almeno pare, di sé, raccontando situazioni non astruse, sentimenti e rabbie condivisibili, che tutti, anche a sedici anni, abbiamo sperimentato in qualche misura. Quando invita se stesso a farsi forza, a non ricadere nella sciocca illusione, suona familiare come Leopardi. Ed è tanto breve ed espressivo, come nel distico di odi et amo, da lasciare tracce anche nella memoria del più svogliato dei liceali. Finalmente, pare, un poeta 'normale', che se la sua donna va a letto con un altro gli sale il sangue alla testa e, se gli muore il fratello, piange; e a Giulio Cesare dà del finocchio... Appunto. A frugare tra i versi di Catullo, spunta pure il latino che nessuna grammatica ti insegna, la lingua del sesso, le parolacce; i doppi sensi. Quel passero, per esempio..." (Dall'Introduzione di Nicola Gardini)
256 versi che accompagnano il lettore lungo la strada - a volte in salita, a volte piana e ricca di suggestioni, sempre aperta a passi ulteriori - di una "piccola storia della conoscenza". Parole nelle quali la denotazione - quel che di per sé la parola dice - gioca con la connotazione - cioè con il suo significato nascosto - in un chiaroscuro a tratti sapienziale, a tratti ludico.
"La bizzarria si scosta dalla consuetudine. L'imbizzarrito è uno sconosciuto capitato per sbaglio a una festa di nozze. Cosi furono i profeti della scrittura sacra. Abramo si sradica da casa, patria, affari, raggiunto da una voce a lui solo rivolta. È un ordine: "Vai vattene", lo avvia a un vagabondaggio senza fine. Per singolare sigillo dell'intesa si circoncide il prepuzio, da se stesso. Non per mutilazione, ma in segno di apertura. Poi salirà su un monte per scannare suo figlio, dietro richiesta assurda. Poi si farà fermare a coltello sguainato sulla gola. È raffica di mosse infervorate dall'obbedienza alla voce. Abramo è banderuola di una sola brezza. Per molto meno di un ascolto simile, dei poeti, variante minore di profeti, Hölderlin, Walser, si avvitarono in un silenzio impenetrabile, nella tenuta stagna di un isolamento. Sentivano le voci, un parlottio di sala da teatro prima dell'alzata del sipario. Nelle pagine di questa sezione si narrano comportamenti sgangherati ma provvisti di giustifica sacra. "Navigare es preciso", dicono i Portoghesi, dove "preciso" sta per obbligatorio. Cosi è la bizzarria della provvidenza, la deviazione urgente di un singolo diventa apripista del percorso di tutti gli altri. Gli imbizzarriti di queste pagine sono esploratori." (Dalla premessa)
"Aurore d'autunno" - tra le più alte espressioni poetiche del Novecento - è un libro semplice: giunto alla soglia dei settant'anni, Stevens medita in pentametri giambici sulla propria vita, sulla poesia e, di fronte allo spettacolo incandescente della natura, accusa il fallimento dell'immaginazione. "Le aurore d'autunno" scrive nel novembre 1950 al suo agente letterario parigino "sono le notti di primo autunno, che a volte a Hartford hanno lo stesso riverbero dell'aurora boreale". E la loro "effulgescenza artica" impone un nuovo registro linguistico: abbandonato il tono sublime, il vecchio poeta lascia che affiorino parole semplici, piane. È una vera e propria svolta mistica, che ci rivela uno Stevens insolito, fortemente antiapocalittico, incline piuttosto all'immanenza, a un appassionato rapporto con la terra: l'uomo è colto nel suo habitat naturale che è fatto di tempo atmosferico, e se alza gli occhi al cielo non vi vede nessun dio, nessuna traccia. Piuttosto, nel riverbero della luce boreale, le cose appaiono di una solitudine cosmica, e lo sguardo si abitua a un'assenza di rivelazione. È qui il punto di svolta antiromantica, antimetafisica delle Aurore. L'autunno non è la stagione keatsiana della bellezza e della ricchezza dolce e matura: verso la fine della vita, la realtà appare più povera di desiderio, più priva di speranza - e perciò più vera. In questo senso Stevens è, più di Eliot e di Pound, il poeta dell'epoca moderna.
Le poesie di Chandra Livia Candiani si rivolgono spesso a un tu variabile, che di volta in volta si riferisce a persone presenti o assenti, prossime o lontane nello spazio e nel tempo, o ancora: comunità in potenziale ascolto, entità non individuabili, la morte, parti dell'io poetante ("Io ti converto in fame / mio silenzio"). Ma questo tu assomiglia molto a un noi creaturale che accomuna dèi, uomini e cose in una sorta di fratellanza universale in cui l'insistenza pronominale funge più da invocazione che da individuazione. O da "istruzioni per l'uso", come nella splendida "Mappa per l'ascolto" ("Dunque, per ascoltare / avvicina all'orecchio / la conchiglia della mano") o la corrispondente "Mappa per pregare". Della stessa serie "pedagogica" è la strofa di "istruzioni per abbracciarsi" che abbiamo messo in copertina. Chi parla, in questi casi, è una voce sapiente ma non saccente, un soffio leggero con la forza di un vento impetuoso: il risultato di una miscela di linguaggio quotidiano e metafore evocative, colloquialità e schemi anaforici sacrali. Nel libro ci sono anche poesie sulla parte infantile di sé (secondo lo schema io-tu-noi-tutti) da coltivare o recuperare, poesie sul silenzio, sul desiderio; bellissime quelle sul lutto, declinate in varie fasi della raccolta, che sembrano contenere il massimo di precisione proprio quando i rapporti tra presenze e assenze sembrerebbero entrare nelle zone della vaghezza e dell'oscurità.
Quaranta poesie che ripercorrono le ultime drammatiche ore della vita di Gesù, fino alla sua Risurrezione e Ascensione al cielo. Vi si ritrovano le figure di Pietro, Maria, le donne sotto la croce, Giuda e il sommo sacerdote, tutte osservate e partecipate dall'autore con profondo spirito contemplativo.
La poetessa giapponese di "Se sei triste guarda il cielo" ha toccato il cuore di molti lettori. E ameranno anche la leggerezza delicata e l'ottimismo di questa sua nuova raccolta. Perché le parole della piccola donna di cento anni sono tanto semplici che sembrano scritte da una bambina. E come le parole dei bambini hanno una saggezza profonda e una capacità unica di sollevare l'animo e il morale, di inondarci con un'epidemia di meravigliosa tenerezza.