
Oppressa da una frenetica gestione del tempo, la nostra epoca ha un grande bisogno di pazienza, virtù protagonista in questo libro di Paolo Pejrone, senza alcun dubbio nostro "giardiniere" per eccellenza, principale responsabile della nuova attenzione culturale che circonda piante e giardini. Il lavoro del giardiniere richiede un senso diverso del tempo e del vivere: "in giardino non c'è fretta", come recita uno dei capitoli del libro. Il tempo della natura non può essere forzato e costretto. E, in questo modo, l'astuzia della ragione ci conduce a una sorta di "piccola ecologia del bello": il bello diventa un mezzo per raggiungere il buono. Il curare i fiori, il crescere con delicatezza e attenzione piante e alberi si rivela, nella sua necessaria lentezza, un modo per cambiare il nostro atteggiamento verso il tempo. "La pazienza del giardiniere" vuole chiarire e ribadire la concezione, imperniata sulla semplicità, che Pejrone ha del giardino, aborrendo e esecrando ogni sofisticazione, sia concreta che metaforica. Il libro evidenzia poi il rapporto che la società civile deve avere con il verde pubblico, denunciando il dilettantismo e l'arroganza con i quali spesso si agisce nel costruire e curare giardini e altri spazi comuni.
Helen Lardahl Bentley è il primo presidente donna degli Stati Uniti. Ha prestato giuramento da soli quattro mesi, e ha deciso che la sua prima visita di Stato sarà in Norvegia, il suo paese d'origine. Ma appena arrivata a Oslo, sparisce senza lasciare tracce. A indagare sul suo probabile rapimento le menti migliori della polizia norvegese e dell'FBI americano. Arriva cosi anche Warren Scifford, il responsabile dell'unità di scienze comportamentali con il quale Johanne Vik ha avuto una contrastata storia d'amore. La sua presenza rischia di compromettere il delicato equilibrio di coppia di Johanne e Ingvar Stubø, ma la posta in gioco è troppo alta per tirarsi indietro. Ma ben presto si scopre che nel passato della Presidente esiste un'immensa zona d'ombra capace forse di spiegare il motivo della sua scomparsa.
Nel cuore della notte, sul fronte di Caporetto si abbatte terribile l'offensiva austro-ungarica. Il nemico che gli italiani avevano creduto sfiancato, si è ripreso e ora, complice pioggia e nebbia, cala su truppe infreddolite, demotivate e stanche. Impreparate a tanta potenza di fuoco. C'è una babele di dialetti nelle trincee, uomini che maledicono, danno ordini, pregano, e spesso neanche si capiscono tra loro. Per prendere Trento e Trieste hanno mandato a morire molta più gente di quanta ne viva là, osserva il soldato Santini, il socialista della brigata. E poi, avranno voglia quelli di essere liberati? Ma non importa, i generali hanno deciso così, e ormai è lì, immerso nel fango, con le bombe che gli esplodono tutt'intorno, la vita in bilico, legata alla traiettoria di una pallottola. In poche ore lui e i suoi compagni si trovano in fuga, non si parla più di sconfitta ma di disfatta. I "tugnit" avanzano. I soldati allo sbando invadono città e paesi ormai quasi deserti, razziano, devastano, dei civili chi può si da alla borsa nera, gli altri se ne vanno, lasciando tutto. Per sfuggire ai carabinieri, che nel caos tiranneggiano e si lasciano anche andare alla ferocia, Santini e il sergente Tarcisio, intervenuto a difenderlo, si arruolano negli arditi, quelli che si rifiutano di dare le spalle al nemico e gli vanno invece incontro a testa alta.
Isaac Amin è in carcere, accusato di spionaggio perché ebreo nell'Iran che ha fatto del regime islamico la sua bandiera. Ai compagni di prigionia giunge notizia dell'esecuzione sommaria dei loro familiari. A Isaac è negato ogni contatto con l'esterno, può solo amarli da lontano e augurare a loro una buona vita. Farnaz osserva il giornale, ancora aperto su un articolo che il marito probabilmente non ha mai finito di leggere. Ripensa alla sera prima, l'ultima trascorsa insieme, sprecata in una discussione sulle condizioni sempre più allarmanti del Paese, argomento che lui odiava. A un oceano di distanza, Parviz lavora nel negozio di cappelli del suo padrone di casa a Brooklyn, per pagare l'università e l'affitto. Strano che fra tante ragazze, si sia innamorato proprio della figlia del padrone, Rachel, timida e molto religiosa. È come se Parviz, incapace di tanta fede, delegasse a lei le sue preghiere per la salvezza del padre lontano. Shirin non ama i maghi e i trucchi con cui fanno sparire le cose e le persone. Come quelli che succedono a casa sua, dove sono scomparsi la teiera d'argento e l'anello con lo zaffiro della mamma. Forse sono solo fuori posto, le dicono. E Shirin pensa che deve essere successa la stessa cosa a suo padre, che non si vede da giorni. Magari, prima o poi, ritroverà anche lui al suo posto, nella poltrona di pelle in soggiorno, tra i libri e le sigarette, a sorseggiare il tè che gli verserà dalla teiera d'argento la mamma, di nuovo con l'anello al dito.
In breve
Arrigo Cipriani è uno dei ristoratori più conosciuti al mondo. E l’Harry’s Bar è il locale più conosciuto al mondo. Prigioniero di una stanza a Venezia è lo spaccato di cinquant’anni di storia e la confessione di un uomo che ha fatto incontri straordinari: da Woody Allen a Giorgio De Chirico, da Ernest Hemingway a Frank Sinatra.
Il libro
L’Harry’s Bar è molto più che un bar. L’Harry’s Bar è un’istituzione. Ai suoi tavoli si sono seduti re, principi, i protagonisti della Storia e le stelle dello spettacolo – da Woody Allen a Giorgio De Chirico, da Ernest Hemingway a Frank Sinatra.
Arrigo Cipriani racconta con schiettezza, umorismo e agilità i cinquant’anni passati dietro il bancone dell’Harry’s Bar, che nella sua narrazione quasi epica diventa il centro del mondo il punto d’incontro in cui storia personale e Storia si confondono e si compenetrano. Ecco allora un Arrigo che si barcamena tra il lavoro nel bar e gli studi di Giurisprudenza mentre infuria la Seconda guerra mondiale; e ancora, gli insegnamenti ricevuti in collegio e le lezioni impartitegli da avventori abituali; le battaglie contro l’acqua alta e le visioni di donne bellissime che calcano il “palcoscenico” dell’Harry’s Bar.
Prigioniero di una stanza a Venezia ha una sua vitale ricchezza dispiegata con anarchico funambolismo: dallo spassoso aneddoto intrecciato a riflessioni su temi universali come giustizia e uguaglianza, per poi passare alla grazia del buon vino. Intorno a sé, Arrigo Cipriani calamita con leggerezza e affabilità i grandi e piccoli protagonisti della Storia nel nome di un precetto che lega il mestiere alla filosofia morale: “l’accoglienza è la valorizzazione dell’uomo”.
È una tiepida mattina d'autunno a Chester's Mill, nel Maine, una mattina come tante altre. All'improvviso, una specie di cilindro trasparente cala sulla cittadina, tranciando in due tutto quello che si trova lungo il suo perimetro: cose, animali, persone. Come se dal cielo fosse scesa la lama di una ghigliottina invisibile. Gli aerei si schiantano contro la misteriosa, impenetrabile lastra di vetro ed esplodono in mille pezzi, l'intera area - con i suoi duemila abitanti - resta intrappolata all'interno, isolata dal resto del mondo. L'ex marine Dale Barbara, soprannominato Barbie, fa parte dell'intrepido gruppo di cittadini che vuole trovare una via di scampo prima che quella cosa che hanno chiamato la Cupola faccia fare a tutti loro una morte orribile. Al suo fianco, la proprietaria del giornale locale, un paramedico, una consigliera comunale e tre ragazzi coraggiosi. Nessuno all'esterno può aiutarli, la barriera è inaccessibile. Ma un'altra separazione, altrettanto invisibile e letale, si insinua come un gas velenoso nel microcosmo che la Cupola ha isolato: quella fra gli onesti e i malvagi. Tra i quali spiccano Big Jim Rennie, un politico che non si ferma davanti a niente - nemmeno l'omicidio - pur di tenere in mano le redini del potere, e suo figlio, che cova in sé un terribile segreto. Ma tutti loro, buoni e cattivi, dovranno fare i conti con la Cupola stessa, un incubo da cui sembra impossibile salvarsi. Ormai il tempo rimasto è poco, anzi sta proprio finendo, come l'aria... Visionario, emblematico, allegorico e con alcuni tra i personaggi più sinistri che Stephen King abbia mai creato, The Dome è epica allo stato puro.
Non può esserci posto per un commissario alla Montalbano nella Palermo di questo romanzo. Montalbano è, qui e ora, un’icona proverbiale distratta nei paesaggi remoti della giubilazione. Viene evocato, ma solo a sproposito. «Non è che ora ti devi mettiri a fari il commissario Montalbano», si dice; e l’iperbole è riservata alla vocazione investigativa di una segretaria, che è una «vera e propra minera di sparlerie, curtigliarate, maledicenze». Il romanzo si colloca nelle vicinanze della cronaca più recente. E dà una rappresentazione storicamente ravvicinata del generale insordidamento politico: delle occulte geometrie e delle segrete intese fra poteri forti trasversali alle colorazioni stinte dei partiti; degli strusciamenti della corruzione; delle collusioni mafiose; dei vari gradi di perversione del linguaggio velato o atteggiato, elusivo o reticente, ossequioso o intimidatorio. Le apparenze abbagliano. Ed è sconsigliato denudare le parole e interpretare i fatti. L’impermeabilità della politica irradia di sé le carriere, nelle aziende pubbliche, e i passaggi dei pacchetti azionari nella Banca dell’Isola; e persino le alcove: le fedeltà e le infedeltà coniugali; l’amor costante e le passioni tattiche. La giostra, che la politica fa intorno al cadavere di una studentessa assassinata e al fidanzato raggiunto da un avviso di garanzia, viene seguita, e assecondata, dal direttore del telegiornale isolano. Anche gli innocenti, che credono di star fuori o ai margini della trama, e sanno come «cataminarisi», hanno le loro tare e qualche inaspettato tornaconto nel romanzo. L’ingarbugliamento della vicenda, il labirintico concrescere della trama, annoda e invischia tutti; e impedisce che si arrivi a decifrare il calcolo ordinato dietro l’apparente contraddittorietà dei particolari, e a riconoscere quell’istanza di superiore controllo che nulla ha lasciato al caso. Qualcuno, in alto, ha lanciato il rezzàglio, la rete da pesca. E ha tirato su il bottino che gli premeva. «Ittari nna rizzagghiata», dicono i vecchi dizionari fraseologici del dialetto siciliano, significa «non lasciar uscir di mano nulla, né perdere occasione alcuna di qual si voglia poca importanza ch’ella si sia». La verità è confezionabile, come qualsiasi menzogna. La verità autentica trova spazio solo nell’utopia fantascientifica della letteratura. Nell’ipotesi di un soggetto cinematografico, per un possibile film da intitolare Girotondo attorno a un cadavere. L’autore del «soggetto» è però un «fituso» informatore, capace d’inventare romanzi sull’attualità, per poi spacciarli come «verità di vangelo». E pretende, addirittura, di vendere le sue fantasie all’artefice mafioso della «rizzagliata» politica. Il «fituso» scompare nella notte. Tocca a Camilleri riscattare il soggetto romanzesco, gettare a spaglio la propria rete, e fare la Rizzagliata: il romanzo suo più nero, che ora esce in Italia, dopo il successo raccolto in Spagna con il titolo La muerte de Amalia Sacerdote.
Salvatore Silvano Nigro
Andrea Camilleri (Porto Empedocle, 1925), regista di teatro, televisione, radio e sceneggiatore. Ha insegnato regia presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica. Ha pubblicato numerosi saggi sullo spettacolo e il volume, I teatri stabili in Italia (1898-1918). Il suo primo romanzo, Il corso delle cose, del 1978, è stato trasmesso in tre puntate dalla TV col titolo La mano sugli occhi. Con questa casa editrice ha pubblicato: La strage dimenticata (1984), La stagione della caccia (1992), La bolla di componenda (1993), Il birraio di Preston (1995), Un filo di fumo (1997), Il gioco della mosca (1997), La concessione del telefono (1998), Il corso delle cose (1998), Il re di Girgenti (2001), La presa di Macallè (2003), Privo di titolo (2005), Le pecore e il pastore (2007), Maruzza Musumeci (2007), Il casellante (2008), Il sonaglio (2009); e inoltre i romanzi con protagonista il commissario Salvo Montalbano: La forma dell'acqua (1994), Il cane di terracotta (1996), Il ladro di merendine (1996), La voce del violino (1997), La gita a Tindari (2000), L'odore della notte (2001), Il giro di boa (2003), La pazienza del ragno (2004), La luna di carta (2005), La vampa d'agosto (2006), Le ali della sfinge (2006), La pista di sabbia (2007), Il campo del vasaio (2008), L'età del dubbio (2008), La danza del gabbiano (2009).
Quattro scarafaggi a Parigi, un best seller da scrivere, 57 giorni per portare a termine l’impresa. Ma le loro zampe sono troppo corte per tenere una penna.
– Dobbiamo scrivere un romanzo sentimentale, alla Via col vento, guerra di secessione e amori tormentati, soldati e corna. – Ambientiamolo nel medioevo, alcuni alieni rapiscono un gruppo di monaci, un romanzo di fantascienza retroattiva. – Io scriverei un western ambientato ai giorni nostri, dove i duelli con le pistole si svolgono a Wall Street, dopo un conflitto nucleare. Io avanzai l’ipotesi di un thriller con protagonista un anatomopatologo. Avevo sentito dire che gli anatomopatologi andavano per la maggiore nei best seller, anche se avrei avuto qualche problema a spiegare quale professione svolgessero di preciso...
Indice
1. Morosità – 2. La giovinezza non è mai servita a nessuno – 3. Un best seller! – 4. Tentativi a vuoto – 5. Cyrano de Bergerac – 6. Infarinatura e qualche grattacapo – 7. I primi 25 giorni – 8. Una settimana di pausa – 9. I secondi 25 giorni – 10. Dopo il best seller scritto in 57 giorni - Ringraziamenti
È un giorno d'ottobre del 1956 quando Giovanni e la sua famiglia lasciano il piccolo paese di Buonalbergo e partono per il Nord. Lungo il viaggio in treno, Giovanni sogna quella città sconosciuta e magica, che può dargli da mangiare come ai ricchi: un paese pieno di luci, palazzi fantastici, giostre sul mare e donne bellissime che accolgono sua madre dicendole "benvenuta". A Genova, però, alla stazione Principe, non c'è nessuno a aspettarli. Una macchina li conduce a destinazione, a vico Vele, una strada stretta in mezzo a altre così anguste che il sole si ferma sui tetti e non scende mai. La casa è una stanza in affitto, un tavolo, un letto grande per tutti, un lavandino e un bidet smaltato, pareti scrostate. La notte, dal corridoio, risate, rumore di tacchi a spillo e voci grosse di marinai. Giovanni dorme con Totò, il fratello minore, con la testa ai piedi del letto, lasciando il posto migliore in alto alla mamma e alla sorellina Olimpia. La sera suo padre li bacia tutti e poi esce per andare a fare il guardiano notturno. Un giorno prende il clarino, l'unico tesoro portato da Buonalbergo. Quando rientra, al posto dello strumento, sotto il braccio c'è un fagotto contenente un chilo di carne. Giovanni non chiude occhio quella notte. Il clarino venduto per un pezzo di carne? In una Genova stupenda e dura, Giovanni cresce e scopre presto di essere una strana cosa lì al Nord: un "terrone", un essere invisibile che si può compiangere e offendere senza tanti scrupoli.
In breve
“Sarebbe bello durare quanto i racconti che abbiamo ascoltato e che raccontiamo.” Il nuovo libro di Stefano Benni.
Il libro
Quali sono le ventisette azioni dell’uomo civile?
Lo scoprirete a Montelfo, il paese più magico e fantastico del mondo. In un romanzo di sfrenata comicità. Stefano Benni monta un grande circo di creature indimenticabili: il Nonno Stregone, Ispido Manidoro, Trincone Carogna, Sofronia e Rasputin, Archimede detto Archivio, Frida Fon, lo gnomo Kinotto, il beato Inclinato, Simona Bellosguardo, il gargaleone e il cinfalepro, Fen il Fenomeno, Piombino, Raffaele Raffica, Alice, don Pinpon e don Mela, Zito Zeppa, la Jole, Gino Saltasù, il sindaco Velluti, Ottavio Talpa, Bubba Bonazzi, Bum Bum Fattanza, Nestorino e Gandolino, Sibilio Settecanal, Tramutone, la Mannara, Giango, i fratelli Sgomberati, Bingo Caccola e Tamara Colibrì, Maria Sandokan, Adelmo il Cupo, Checca e Caco
«Queste storie non avvennero mai, ma sono sempre». Tali parole di Salustio - forse la più bella, certamente la più concisa definizione del mito - si leggono nell'epigrafe delle Nozze di Cadmo e Armonia. E ci ricordano che le storie degli dèi e degli eroi greci non soltanto si trovano all'origine di tutta la letteratura occidentale, ma continuano a vivere sino a oggi: una vita intessuta di parole innanzitutto, ma altrettanto di immagini. Per più di tremila anni, dai sigilli micenei fino a certi quadri del secolo ventesimo, quelle storie sono state raccontate anche per figuras, sotto forma di statue, vasi, stele, monete, dipinti, affreschi, disegni, rilievi. È un immenso corteo di immagini, che mostrano ogni volta come quegli dèi, quegli eroi e le loro gesta sono stati concepiti, di epoca in epoca, in quanto epifanie.
Le nozze di Cadmo e Armonia - libro che appartiene al più antico genere letterario: la mitografia - presuppone non solo il continuum delle fonti scritte del mondo classico, da Omero a Nonno, ma anche le innumerevoli raffigurazioni dei miti greci attraverso immagini di ogni specie. Con questa edizione, che si presenta come una versione a sé stante, a distanza di vent'anni dalla prima pubblicazione, quelle immagini affiorano in superficie, sempre in corrispondenza a certi dettagli - narrativi o esegetici o anche stilistici - del testo. E si calano nella gabbia tipografica più congeniale e azzardata, che è lo specchio di pagina dove vennero disposte le silografie di un libro che apparve nel 1499 e in cui sembra essere confluito il vasto corso della mitologia classica: la Hypnerotomachia Poliphili. Ogni buon lettore sarà sfidato a cogliere i nessi di questo gioco, che mira a espandere le risonanze delle parole e delle immagini, per via di osmosi, contrappunto e controcanto. Al testo delle Nozze di Cadmo e Armonia si giustappone qui un saggio, Lo sguardo sommario, che tratta di quella singolare e inconfondibile ebbrezza a cui le immagini degli dèi greci - attraverso «le opere e i giorni» di molti secoli - invitano ad abbandonarsi.
Quando nello stadio di Berlino, ai campionati delle Forze alleate, scorgono dietro il cartello Czechoslovakia un solo atleta male in arnese, tutti si sbellicano dalle risate. E quando quell'atleta, che storditamente non si è accorto della convocazione, attraversa lo stadio come uno sprinter decerebrato urlando e agitando le braccia, i giornalisti estraggono avidi i taccuini. Ma poi, quando nei cinquemila, pur avendo già un giro di vantaggio, non smette di accelerare e taglia il traguardo in solitudine, ottantamila persone in delirio scattano in piedi. Il nome di quel ceco alto, biondo e che sorride sempre non lo dimenticheranno più: Emil Zatopek. La sua aria mite e gentile è una trappola: dacché, apprendista nello stabilimento Bata di Zlin, ha scoperto che correre gli piace, nessuno l'ha più fermato. Il fatto è che vuole sempre capire fin dove può arrivare. Dello stile se ne frega: ignaro dei canoni accademici, corre come uno sterratore, il volto deformato da un rictus. È, semplicemente, un motore eccezionale sul quale ci si sia scordati di montare la carrozzeria. Ai Giochi olimpici di Londra e poi a Helsinki Emil varca le possibilità umane, diventa invincibile. Nessuno può fermarlo: neppure il regime cecoslovacco, che comincia a chiedersi se un grande sportivo popolare non sia una forma di individualismo borghese. Ma Emil corre, corre sempre. Corre contro il declino, e sorride. Anche nelle miniere d'uranio dove lo sbattono perché ha sostenuto Dubcek, anche mentre insegue a brevi falcate il camion che raccoglie la spazzatura a Praga. Nemmeno Mosca può fermarlo. Come un film proiettato a velocità doppia, il nuovo romanzo di Echenoz attraversa quarant'anni di un destino eccezionale eppure, misteriosamente, simile al nostro, sorvola i marosi della Storia - ci appassiona e ci commuove. E ci regala una scrittura sovranamente limpida, increspata di quell'impagabile ironia che per Echenoz è solo una forma di affetto.

