
La Commedia è culla di tradizione letteraria europea ed espressione somma del patrimonio della civiltà occidentale. Essa possiede un'inesauribile capacità di descrivere l'animo umano e di abbracciare la realtà dell'universo, grazie alla quale ha conquistato nei secoli generazioni di lettori. Nessun altro genio artistico della nostra tradizione letteraria ha saputo risvegliare quanto Dante, "poeta del mondo terreno", quella "concreta e perpetua sete" di bellezza e verità che spalanca aòòa conoscenza di noi stessi e del mondo e rende degna e appassionante l'esperienza dell'umano cercare.<br/
Sergio viene abbandonato dopo tanti anni di matrimonio dalla moglie Gianna, stanca dell'aura di indifferenza calata sul loro rapporto. Sergio è distrutto. Si lascia tentare da amori mercenari ma non si consola, perché, apparentemente, non ci può essere consolazione. Eppure, a poco a poco, qualcosa di profondo, che era come assopito, si ridesta. Sergio comincia a entrare in sintonia col mondo circostante, ed ecco allora fiorire delle "rose", un giardino di nuove consapevolezze dove le donne appaiono a Sergio in tutta la loro forza, fragilità, il loro coraggio. E neppure il tarlo della gelosia nei confronti di sua moglie, che pure sembra dettargli atti estremi, riuscirà a uccidere quella struggente fioritura. Perché Sergio ha imparato sulla sua pelle che le donne sono dei fiori, delicati ma pungenti come e più delle rose.
Quando Paul Valéry fu accolto, nel 1925, fra gli "immortali" dell'Académie française, si vide costretto - lui che non aveva grande stima per l'arte del romanzo - a pronunciare l'elogio di Anatole France, suo predecessore. In un 'panegirico' divenuto leggendario, non solo riuscì a parlare di France senza mai menzionarne il nome, ma con squisita perfidia contrappose le sue opere a quelle di Tolstoj, Ibsen, Zola, tacciandole di leggerezza. Non c'è da stupirsi, ci avverte Kundera: difficilmente il romanziere rientra nella schiera di coloro che incarnano lo spirito di una nazione. Proprio in virtù della sua arte, il romanziere è per lo più "segreto, ambiguo, ironico", e celato com'è dietro ai suoi personaggi - difficilmente si lascia ridurre a una convinzione, a un atteggiamento: quel che gli preme non è la Storia (e tanto meno la politica), bensì il "mistero dei suoi attori". Come Beckett, è libero, persino dal virtuoso senso del dovere che lo vorrebbe prigioniero di un Paese o di una lingua; come Danilo Kis, respinge ogni etichetta, anche quella, proba e accattivante, di emigrato o dissidente; come Skvorecky, è pronto a rivolgere il suo "inopportuno humour" contro il potere e insieme contro il "vanitoso gesticolare" di chi protesta. E spesso finisce sulle liste di proscrizione che governano i gusti letterari: soprattutto quando, come Malaparte, ci rivela la cupa bellezza di una realtà diventata folle, la nuova Europa nata da un'immensa disfatta, e un nuovo modo, vinto e colpevole, di essere europei.
"A Shirley Jackson, che non ha mai avuto bisogno di alzare la voce"; con questa dedica si apre "L'incendiaria" di Stephen King. È infatti con toni sommessi e deliziosamente sardonici che la diciottenne Mary Katherine ci racconta della grande casa avita dove vive reclusa, in uno stato di idilliaca felicità, con la bellissima sorella Constance e uno zio invalido. Non ci sarebbe nulla di strano nella loro passione per i minuti riti quotidiani, la buona cucina e il giardinaggio, se non fosse che tutti gli altri membri della famiglia Blackwood sono morti avvelenati sei anni prima, seduti a tavola, proprio lì in sala da pranzo. E quando in tanta armonia irrompe l'Estraneo (nella persona del cugino Charles), si snoda sotto i nostri occhi, con piccoli tocchi stregoneschi, una storia sottilmente perturbante che ha le ingannevoli caratteristiche formali di una commedia. Ma il malessere che ci invade via via, disorientandoci, ricorda molto da vicino i "brividi silenziosi e cumulativi" che - per usare le parole di un'ammiratrice, Dorothy Parker abbiamo provato leggendo "La lotteria". Perché anche in queste pagine Shirley Jackson si dimostra somma maestra del Male - un Male tanto più allarmante in quanto non circoscritto ai 'cattivi', ma come sotteso alla vita stessa, e riscattato solo da piccoli miracoli di follia.
Povero Maigret: mai, in tutta la sua carriera, si è sentito umiliato come quando, di fronte a un pivello di questore che gli sorride con amabile perfidia, è costretto ad ammettere con se stesso di essere caduto in una trappola - peggio: di essersi fatto fregare come un principiante, e per di più da una ragazzina di neanche diciott'anni, nipote di un pezzo grosso del Consiglio di Stato, che ha raccontato alla polizia di essere stata rimorchiata proprio da lui, Maigret, in un caffè, di essere stata trascinata in un albergo e di aver ricevuto pesanti avance. Ma la ragazza non può aver fatto tutto da sola. E anche quel giovanottino pretenzioso e arrogante, il nuovo questore (al quale Maigret avrebbe comunque dato volentieri un pugno in faccia quando gli ha suggerito di offrire immediatamente le sue dimissioni), è solo una pedina. È talmente abbattuto, il commissario, e anche schifato, che sulle prime non ha il minimo desiderio di difendersi, anzi, accetta la disfatta quasi con sollievo: basta responsabilità, basta nottate a interrogare malviventi ingoiando solo birre e panini della brasserie Dauphine... Ma avrà uno scatto d'orgoglio (tutti noi, del resto, stavamo aspettando questo momento con il fiato sospeso), e comincerà a chiedersi "chi c'è dietro", e per quale ragione è stata architettata quella ignobile messinscena. Mentre Parigi "frigge sotto il sole" di giugno, Maigret sa che vuole e deve scoprirlo. E che deve farlo, per una volta, da solo.
Può l'incontro con Gesù sconvolgere la vita di un uomo di spettacolo, cresciuto alla corte dei grandi nomi dello star system italiano, figlio di uno degli autori simbolo degli anni d'oro della Rai e autore, egli stesso, di alcuni dei maggiori successi televisivi dell'ultimo trentennio? Stefano Jurgens rilegge un'intera esistenza alla luce della fede, mettendo a nudo exploit e delusioni, gioie e amarezze sia personali che professionali, senza risparmiare a sé e ai tanti, prestigiosi compagni di viaggio - da Corrado a Bonolis, da Morandi a Celentano - il giudizio della verità alla quale, da una mattina d'agosto del 1992, ha consacrato i suoi giorni.
Siamo a metà del XVI secolo, e nell'Europa tramortita dai venti della protesta luterana fa la sua comparsa l'elefante Salomone, giunto dall'India a stupire le folle ma che adesso, a Lisbona, non fa che "mangiare e dormire". Sembra una presenza inutile, quand'ecco che Joào III, sovrano del Portogallo e dell'Algarve, e sua moglie Caterina d'Austria decidono di inviarlo in dono all'arciduca Massimiliano, proprio ora che si trova a Valladolid in quanto reggente di Spagna. Il regalo viene accettato, e così si procede a organizzare la carovana che dovrà accompagnare il portentoso quadrupede e il suo cornac Subhro prima da Lisbona al confine con la Spagna, e poi da Valladolid fino a Vienna, passando per Genova, Verona, Padova e Innsbruck. Il romanzo è quindi il racconto di questo viaggio, di questa variopinta comitiva di ufficiali, soldati, servitori, preti, cavalli e buoi che, in mezzo a molte difficoltà e tra ali di gente entusiasta, ha il compito di scortare il prezioso dono fino a Vienna, dove l'elefante sarà artefice di un "miracolo" squisitamente umano. Un libro corale, ironico e delicato, che coinvolge il lettore in prima persona, gettandolo, attraverso la forza visionaria della scrittura, nei meandri della storia in cui tutti siamo immersi.
E se il Santo Graal, l'antica reliquia, fosse custodito nei labirinti di pietra, nelle cisterne bizantine sotto i palazzi di Istanbul? Il sultano Mahmut II sta morendo. Yashim, più che mai solo, deve combattere contro un incubo che sembra risvegliarsi da un passato antichissimo. 1839, anni dopo la lotta per l'indipendenza dei greci dell'impero ottomano, Lefèvre, archeologo francese, arriva a Istanbul per cercare un tesoro bizantino che ha a che fare con le reliquie più antiche della città, e forse della cristianità. Yashim, l'eunuco di corte che ama le donne, riceve la richiesta di investigare su Lefèvre. Ma quando il cadavere sfigurato dell'archeologo viene trovato davanti all'ambasciata francese, tutto porta a sospettare dello stesso Yashim... C'è qualcuno che lo sta usando per coprire un complotto, o la realtà è ancora più sorprendente?
Con uno stile intenso e vivo, Mario Rigoni Stern narra la sua esperienza di ragazzo nella Seconda guerra mondiale, dall'arruolamento tra gli alpini, appena diciassettenne, alle campagne di Grecia, Albania e Russia. In ogni pagina la biografia si fonde con la storia collettiva, per poi disperdersi in rivoli di storie individuali, in episodi apparentemente marginali che custodiscono un altro senso della storia. Così per sussulti e frammenti, la storia di un uomo e di un'epoca ci viene incontro. Un libro "esile di pagine ma denso di vita", un distillato prezioso in cui Rigoni Stern concentra in un modo del tutto nuovo mezzo secolo della sua scrittura.
Polonia, 1812. La luna irradia una flebile luce attraverso le nubi nere, nell'aria odore di neve. Finalmente, dopo cinque giorni ininterrotti di viaggio, dodici cambi di cavalcatura e brevi sonni all'addiaccio, il tenente Jean-Baptiste Perez scorge a pochi passi da sé il quartier generale di Bonaparte. È quella la sua destinazione, quello il luogo dove porterà a termine la sua missione più importante. Al suo arrivo, però, il tenente, che dovrebbe consegnare un dispaccio del ministro Fouché direttamente nelle mani dell'imperatore, trova ad attenderlo una situazione inaspettata e pericolosa. Un generale tedesco morto assassinato nelle sue stanze, di cui tutti sembrano disinteressarsi, tre soldati che nessuno pare conoscere e che stanno arrestando tutti gli alti ufficiali e preoccupanti voci riguardanti una presunta malattia di Napoleone sono solo alcune delle avvisaglie che qualcuno sta tramando nell'ombra per destituire il sovrano e prendere il potere. E forse, proprio quel prezioso dispaccio, che nel frattempo è stato sottratto con l'inganno al giovane Jean-Baptiste, può essere utile per scoprire il colpevole. Al tenente, solo in quel covo di congiurati e di falsi amici, non resta che allearsi con il più impensabile dei compagni, una donna, la bellissima e crudele contessa Maria Dobrugova, spia dello zar. In una sola notte saranno artefici e spettatori di tradimenti e di morte, di inganni e di amori clandestini, fino all'alba di una guerra crudele, la campagna di Russia.
"Per una volta, ladies and gentlemen, non allacciatevi le cinture. Don't fasten your seat belts. Si parte in treno, la Cenerentola dei trasporti. Si fa l'Italia in seconda classe, per linee dimenticate. Buttate dunque a mare duty free, gate, flight, hostess e check-in. Lasciate le salette business a parlamentari e commendatur. Questo è un viaggio hard, fatto di scambi, pulegge, turbocompressori e carbone. E noi lo faremo, anche a costo di farci sbattere da una squinternata vagona baldracca, un glorioso rudere che cigola e scoreggia sulla rete di ferro, in attesa di rottamazione. "In tasca, un'idea corsara. Percorrere 7480 chilometri, come la Transiberiana dagli Urali a Viadivostok. Una distanza leggendaria, un gomitolo lungo come l'Asia da srotolare dentro la Penisola. Non sappiamo ancora dove andremo e in quanto tempo consumeremo questo buono chilometrico che nessun biglietto può contenere. Sappiamo solo che il nostro è un conto alla rovescia che ci obbligherà a scendere al chilometro zero. Il treno, non l'aereo, ha fatto l'Italia. Un piccolo treno come questo che arranca tra praterie e fichi d'India. Siamo in ballo. Il viaggio comincia." (Paolo Rumiz). Con i disegni di Altan e una premessa del misterioso 740.

