Metafisica: ecco la parola «davanti alla quale ognuno, più o meno, si affretta a fuggire come davanti a un appestato» (Hegel). Un fuggire che, a furia di decostruzioni, oltrepassamenti, dichiarazioni di morte o di inesorabile, fatale compimento nelle forme della razionalità scientifica, ha finito col diventare una sorta di habitus del pensiero contemporaneo. E tuttavia, ripercorrendo contropelo le filosofie classiche e i grandi sistemi del razionalismo moderno, così come le più ardite e recenti teorie della scienza, è possibile riscoprire ciò che di quel termine rimane inaudito: la tessitura che collega l'essente in quanto osservabile e determinabile allo s-fondo della sua provenienza e del suo imprevedibile avvenire; la relazione tra la theoría della cosa sotto l'aspetto della sua caducità, nell'ordine di Chronos, e quella che cerca di esprimerla nella sua relazione al Tutto e in tale relazione giunge a considerarla res divina. Nessun 'al di là', nessuna Hinterwelt, o mondo 'dietro' tà physiká, dietro il manifestarsi di Physis. Questo mondo, e il soggetto che intende conoscerlo conoscendo sé stesso, il cui essere-possibile non si arrende al Muro dell'Impossibile, esigono di essere interrogati anche secondo una tale prospettiva. Metafisica concreta, dunque, come Florenskij, scienziato, filosofo e teologo, voleva intitolare l'opera che avrebbe dovuto concludere la sua ricerca. Filosofia e scienza possono in essa ritrovarsi ed esprimere insieme, in forme distinte e inseparabili, l'integrità e inesauribilità della vita dell'essente.
"L'uomo senza qualità" di Robert Musil riflette l'uomo contemporaneo, per cui il mondo di ieri, con le sue illusioni di armonia, di compiutezza, con le sue pretese di esattezza da ricercare in ogni campo, è finito per sempre. Vie di uscita non ve ne sono, vie soltanto, che dovremo costruire mentre si va, si cerca. Vi sono poche opere universali che in figure e situazioni storicamente concrete sanno esprimere lo spirito di un'epoca, la 'ragione' dei suoi drammi e della sua catastrofe, con la massima obbiettività, il più lucido disincanto e insieme la partecipazione più coinvolgente e sofferta. Opere che compiono il «miracolo» della trasformazione del 'pathos' in conoscenza, e della conoscenza più esatta e anche spietata della realtà che rappresentano in autentica 'saggezza' intorno alle insuperabili contraddizioni e aporie della nostra esistenza, saggezza che trascende ogni limite di tempo e cultura. "L'uomo senza qualità" è una di queste. L'uomo contemporaneo abita il «cielo dei casi», di cui canta lo Zarathustra di Nietzsche, ma le sue conoscenze statistico-probabilistiche gli consentono di affrontarlo pur sempre armato di relative certezze. Il mondo di ieri, con le sue illusioni di armonia, di compiutezza, con le sue pretese di esattezza da ricercare in ogni campo, è finito per sempre - ma guai a lasciarsi infatuare da ideologie, vuoti profetismi, promesse salvifiche. Vie di uscita non ve ne sono, vie soltanto, che dovremo costruire mentre si va, si cerca. La mèta non è determinabile, epperò occorre tenere lo sguardo ben lucido per cogliere tutto ciò che durante il viaggio ci viene incontro e contro. E il romanzo è una straripante piena di indimenticabili incontri. La mèta è forse almeno indicabile? Possiamo farne segno? Il suo segno è quel "Viaggio in Paradiso" in cui avrebbe dovuto compiersi il grande romanzo? La rinuncia a ogni dialettica conciliativa, a ogni ben fondata sovranità politica, a ogni immutabile Legge, non è rinuncia all'"impossibile possibilità" di quell'esperienza che, nell'istante di una "incommensurabile chiarezza", accorda il mondo dell'esattezza probabilistico-statistica al sentimento che ci rende partecipi di ciò che amiamo come lo abitassimo all'interno. Il matematico Ulrich, l'uomo senza qualità, si volge a quella Chiarezza e la ama, tanto più intensamente quanto più, «con rigore», ne riconosce l'inafferrabilità.
Riflessione filosofica, esperienza politica e cultura estetica si intrecciano anche in questo libro di Cacciari sulla storia della città. Dalla pólis greca alla civitas romana, dalla città europea alla metropoli e alla odierna postmetropoli: uno sguardo appassionato e insieme disincantato, una difficile lezione della storia da cui trarre qualche saggio consiglio per il futuro prossimo. La città è sottoposta a domande contraddittorie. Voler superare tale contraddittorietà è cattiva utopia. Occorre darle forma. La città è il perenne esperimento per dare forma alla contraddizione.
Tra il 1917 e il 1919 Max Weber tenne due conferenze dal titolo Die geistige Arbeit als Beruf, che potremmo tradurre «Il lavoro dello spirito come professione». Formulazione quanto mai pregnante, perché rappresentava l'idea regolativa, il progetto e la speranza che avevano animato il mondo della grande cultura borghese tra Kant e Goethe, tra Romanticismo e Schiller, tra Fichte e Hegel, e avrebbero costituito il filo conduttore dello stesso pensiero rivoluzionario successivo, da Feuerbach a Marx. Il «lavoro dello spirito» è il lavoro creativo, autonomo, il lavoro umano considerato in tutta la sua attuosa potenza, e volgersi alla sua affermazione significa liberazione di ogni attività dalla condizione di lavoro comandato, dipendente, e cioè alienato. Ma il suo dissolversi nella forma capitalistica di produzione, nell'universale macchinismo, che fagocita quella Scienza che pure è l'autentico motore dello sviluppo, finisce col delegittimare la stessa autorità politica, che nella «promessa di liberazione» trova il proprio fondamento. La «gabbia di acciaio» è destinata dunque a imprigionare anche quel «lavoro dello spirito» che è la prassi politica? Lo spirito del capitalismo finirà col destrutturare completamente lo spazio del Politico, riducendolo alla forma del contratto? O tra Scienza e Politica sono ancora pensabili e possibili relazioni che ci affranchino dal nostro «debito» nei confronti del procedere senza mete né fini del sistema tecnicoeconomico? Sono le attuali domande che, un secolo fa, nessuno ha posto con la drammatica chiarezza di Max Weber - e con le quali, oggi, Massimo Cacciari si confronta.
Predomina ancora una visione del periodo dell'Umanesimo che ne esalta, da un lato, i valori estetico-artistici, e tende a ridurne, dall'altro, il pensiero a elementi retorico-filologici. Massimo Cacciari ci fa capire come le cose siano più complesse e meno schematiche, e come la stessa filologia umanistica vada in realtà inserita in un progetto culturale più ampio nel quale l'attenzione al passato è complementare alla riflessione sul futuro, mondano e ultramondano. Dunque una filologia che è intimamente filosofia e teologia. E i nodi filosofici affrontati dagli umanisti (che in quest'ottica non iniziano con Petrarca o con i padovani, ma con lo stesso Dante) sono difficilmente ascrivibili a sistemi armonici o pacificanti, secondo una visione tradizionale del Rinascimento. C'è un nucleo tragico del pensiero umanistico, fortemente «anti-dialettico», in cui le polarità opposte non si armonizzano né vengono sintetizzate.
Profezia e utopia, due categorie fondanti dello sviluppo dell’Occidente moderno. La tensione dialettica che le ha caratterizzate nel corso dei secoli e il dualismo istituzionale che si è creato tra potere religioso e potere politico hanno permesso all’Occidente la conquista delle sue libertà, dallo stato di diritto alla stessa democrazia. Oggi, sbiadito ormai ogni progetto utopico, il declino dell’Europa non può essere letto solo come corruzione delle regole e delle istituzioni, ma come conseguenza di una crisi di civiltà.
La figura della Vergine col suo bambino ha svolto un ruolo straordinario nella civiltà europea. Attraverso questa immagine, che assume forme diversissime, che è chiamata e invocata con nomi anche contrastanti, questa civiltà non ha pensato soltanto il proprio rapporto col divino, la relazione di Dio con la storia umana, ma l'essenza stessa di Dio. Perché Dio è generato da una donna? Pensare quella Donna costituisce una via necessaria per cogliere quell'essenza. E le grandi icone di quella Donna, come la Madonna Poldi Pezzoli del Mantegna, non sono illustrazioni di idee già in sé definite, bensì tracce del nostro procedere verso il problema che la sua presenza incarna.
Per decenni docente all'Università di Urbino, Italo Mancini (1925-1993) è stato tra i maggiori filosofi e teologi della seconda metà del Novecento. A lui la cultura italiana deve la scoperta di autori come Karl Barth, Dietrich Bonhoeffer e Rudolf Bultmann, in opere dove la filosofia poneva la domanda su Dio, e la teologia non dimenticava il rigore dei concetti. Un cammino che ha portato Mancini a riflettere su - e a far propria - un'espressione di Pascal e Dostoevskij: "Dio nei doppi pensieri". In Dio coabitano i contrari, la miseria e la gloria, la perdizione e la salvezza. Pensieri abissali che, secondo Massimo Cacciari e Bruno Forte, mostrano l'eredità di Mancini, la sua attualità.
Profezia e utopia, due categorie fondanti dello sviluppo dell'Occidente moderno. La tensione dialettica che le ha caratterizzate nel corso dei secoli e il dualismo istituzionale che si è creato tra potere religioso e potere politico hanno permesso all'Occidente la conquista delle sue libertà, dallo stato di diritto alla stessa democrazia. Oggi, sbiadito ormai ogni progetto utopico, il declino dell'Europa non può essere letto solo come corruzione delle regole e delle istituzioni, ma come conseguenza di una crisi di civiltà.