
Tra il 1917 e il 1919 Max Weber tenne due conferenze dal titolo Die geistige Arbeit als Beruf, che potremmo tradurre «Il lavoro dello spirito come professione». Formulazione quanto mai pregnante, perché rappresentava l'idea regolativa, il progetto e la speranza che avevano animato il mondo della grande cultura borghese tra Kant e Goethe, tra Romanticismo e Schiller, tra Fichte e Hegel, e avrebbero costituito il filo conduttore dello stesso pensiero rivoluzionario successivo, da Feuerbach a Marx. Il «lavoro dello spirito» è il lavoro creativo, autonomo, il lavoro umano considerato in tutta la sua attuosa potenza, e volgersi alla sua affermazione significa liberazione di ogni attività dalla condizione di lavoro comandato, dipendente, e cioè alienato. Ma il suo dissolversi nella forma capitalistica di produzione, nell'universale macchinismo, che fagocita quella Scienza che pure è l'autentico motore dello sviluppo, finisce col delegittimare la stessa autorità politica, che nella «promessa di liberazione» trova il proprio fondamento. La «gabbia di acciaio» è destinata dunque a imprigionare anche quel «lavoro dello spirito» che è la prassi politica? Lo spirito del capitalismo finirà col destrutturare completamente lo spazio del Politico, riducendolo alla forma del contratto? O tra Scienza e Politica sono ancora pensabili e possibili relazioni che ci affranchino dal nostro «debito» nei confronti del procedere senza mete né fini del sistema tecnicoeconomico? Sono le attuali domande che, un secolo fa, nessuno ha posto con la drammatica chiarezza di Max Weber - e con le quali, oggi, Massimo Cacciari si confronta.
Dike, la Giustizia, figlia degli Dei, sarà forse costretta, alla fine del suo destino, a coincidere con Nomos, il diritto posto dalla volontà umana uscita da una guerra vittoriosa? La Giustizia apparirebbe allora come un fatto, indisgiungibile dal fatto del potere e delle sue leggi. Oppure Dike, la Giustizia, fa segno, indica qualcosa che trascende i fatti, e che tuttavia deve coi fatti del potere e delle leggi implicarsi? Ecco l'interrogazione eterna della nostra civiltà. Per comprendere come oggi questi concetti e rapporti si dispongano, è necessario tornare al punto in cui si sono determinati per la prima volta, ripercorrerne la genealogia. È quello che fanno Massimo Cacciari e Natalino Irti ripensando un classico saggio del grande filologo Werner Jaeger, apparso all'indomani della seconda guerra mondiale.
Predomina ancora una visione del periodo dell'Umanesimo che ne esalta, da un lato, i valori estetico-artistici, e tende a ridurne, dall'altro, il pensiero a elementi retorico-filologici. Massimo Cacciari ci fa capire come le cose siano più complesse e meno schematiche, e come la stessa filologia umanistica vada in realtà inserita in un progetto culturale più ampio nel quale l'attenzione al passato è complementare alla riflessione sul futuro, mondano e ultramondano. Dunque una filologia che è intimamente filosofia e teologia. E i nodi filosofici affrontati dagli umanisti (che in quest'ottica non iniziano con Petrarca o con i padovani, ma con lo stesso Dante) sono difficilmente ascrivibili a sistemi armonici o pacificanti, secondo una visione tradizionale del Rinascimento. C'è un nucleo tragico del pensiero umanistico, fortemente «anti-dialettico», in cui le polarità opposte non si armonizzano né vengono sintetizzate.
Profezia e utopia, due categorie fondanti dello sviluppo dell’Occidente moderno. La tensione dialettica che le ha caratterizzate nel corso dei secoli e il dualismo istituzionale che si è creato tra potere religioso e potere politico hanno permesso all’Occidente la conquista delle sue libertà, dallo stato di diritto alla stessa democrazia. Oggi, sbiadito ormai ogni progetto utopico, il declino dell’Europa non può essere letto solo come corruzione delle regole e delle istituzioni, ma come conseguenza di una crisi di civiltà.
La figura della Vergine col suo bambino ha svolto un ruolo straordinario nella civiltà europea. Attraverso questa immagine, che assume forme diversissime, che è chiamata e invocata con nomi anche contrastanti, questa civiltà non ha pensato soltanto il proprio rapporto col divino, la relazione di Dio con la storia umana, ma l'essenza stessa di Dio. Perché Dio è generato da una donna? Pensare quella Donna costituisce una via necessaria per cogliere quell'essenza. E le grandi icone di quella Donna, come la Madonna Poldi Pezzoli del Mantegna, non sono illustrazioni di idee già in sé definite, bensì tracce del nostro procedere verso il problema che la sua presenza incarna.
Per decenni docente all'Università di Urbino, Italo Mancini (1925-1993) è stato tra i maggiori filosofi e teologi della seconda metà del Novecento. A lui la cultura italiana deve la scoperta di autori come Karl Barth, Dietrich Bonhoeffer e Rudolf Bultmann, in opere dove la filosofia poneva la domanda su Dio, e la teologia non dimenticava il rigore dei concetti. Un cammino che ha portato Mancini a riflettere su - e a far propria - un'espressione di Pascal e Dostoevskij: "Dio nei doppi pensieri". In Dio coabitano i contrari, la miseria e la gloria, la perdizione e la salvezza. Pensieri abissali che, secondo Massimo Cacciari e Bruno Forte, mostrano l'eredità di Mancini, la sua attualità.
Profezia e utopia, due categorie fondanti dello sviluppo dell'Occidente moderno. La tensione dialettica che le ha caratterizzate nel corso dei secoli e il dualismo istituzionale che si è creato tra potere religioso e potere politico hanno permesso all'Occidente la conquista delle sue libertà, dallo stato di diritto alla stessa democrazia. Oggi, sbiadito ormai ogni progetto utopico, il declino dell'Europa non può essere letto solo come corruzione delle regole e delle istituzioni, ma come conseguenza di una crisi di civiltà.
Dopo il '45 è sembrato che l'Europa riuscisse a mettere fuori gioco la guerra, sconfessando così gran parte del suo stesso passato. Ora però essa è nuovamente circondata da una conflittualità minacciosa, e per le nostre democrazie si sta forse annunciando un appuntamento fatale con la storia: un appuntamento nel quale mille indizi sembrano indicare che la guerra possa tornare d'attualità. Ma l'Europa saprà ritrovarne le categorie culturali, prima ancora che le armi? Provenienti dal mondo della storia, della geopolitica, della filosofia e della letteratura, quattro autorevoli voci fanno i conti con l'evoluzione dell'atteggiamento europeo sulla guerra: Massimo Cacciari; Lucio Caracciolo, Ernesto Galli della Loggia, Elisabetta Rasy.
All'origine dei diversi discorsi, molti dei quali "alla moda", sulla "fine della filosofia" che, almeno da Nietzsche, caratterizzano tanto pensiero dell'Occidente, sta la "sentenza" hegeliana: che la philosophia cessi di chiamarsi "amante" e si affermi finalmente come puro sapere, Sophia ovvero Scienza. Amore e Sapere debbono dirsi addio. Che il "sophós" dismetta il suo abito di eterno pellegrino e fissi la sua dimora. E questo il destino della nostra epoca? O ancora vi è "ciò" che non possiamo esprimere, rappresentare, indicare se non amandolo? Il discorso filosofico-metafisico porta in sé la traccia di questa tensione, e proprio là dove affronta il suo problema, la sua aporia costitutiva: che l'ente è, che nella sua singolare identità mai coincide con le determinazioni che il lògos ne predica, che la sua sostanza non può disvelarsi nella finitezza del suo apparire. Ogni ontologia deve basarsi su questa differenza - non differenza tra essere ed essente, ma differenza immanente alla realtà dello stesso essente, e in particolare proprio di quello straordinario essente che ha corpo e mente. Oltre l'esercizio sempre più vacuo delle decostruzioni, oltre gli astratti specialismi, oltre le accademie e le scuole, sarà a tale problema, eterno "aporoúmenon", e al "timore e tremore" che suscita, che questo libro intende fare ritorno, ascoltando alcuni grandi classici della tradizione metafisica, per svilupparlo ancora una volta.
In questa conferenza, qui proposta in dvd, il noto filosofo Massimo Cacciari affronta la pittura del Beato Angelico nel contesto della cultura dell'Umanesimo che il pittore domenicano ha non solo conosciuto ma anche contribuito a plasmare. A partire dalla pluralità delle sue prospettive e dall'urgenza del suo interrogarsi, Cacciari legge la pittura dell'Angelico come un dottissima pietas, non certo relegabile in un banale devozionismo lontano dalla cultura del suo tempo. Se per Leon Battista Alberti l'arte della pittura è tecnica, la ricerca pittorica dell'Angelico solleva il problema dell'invisibile che si manifesta nel visibile, tendendo verso una maggiore incarnazione della luce in cui le figure esprimono sempre più pienamente una compiuta teologia della luce.