Molti indicatori segnalano che la società liberale occidentale è attraversata da una crisi della partecipazione che in Italia si fa sempre più evidente: il progressivo calo dell'affluenza alle urne esprime il disinteresse di molti cittadini per la politica e desta preoccupazioni sulle sorti della stessa democrazia. Servendosi dei concetti più classici del pensiero sociale cristia­no, Giovanni mette a fuoco la specificità dell'amicizia sociale e i motivi della sua crisi attuale. Alla luce delle esperien­ze di applicazione delle soluzioni metodologiche di supporto al "discernimento in comunità" prosegue quindi l'esplorazione del problema, traendo dall'intreccio tra "teoria" e "clinica" osserva­zioni originali e utili, per comprendere perché e in che modo la cultura della sinodalità rappresenti, anche in termini laici, una risorsa per la democrazia.
Mentre consegnamo queste pagine arrivano storie e immagini di una tragedia dai luoghi di cui si parla nel libro. Oltre 30.000 palestinesi uccisi da Israele nella striscia di Gaza e non solo. Tra il 2022 e il 2024 abbiamo raccolto storie di donne palestinesi che vivono in quei territori, di israeliane che gridano la necessità di un'altra Israele e di donne italiane che sono andate là partendo da qui, per restare una settimana o 25 anni, per tradurre in concreto parole difficili come giustizia e solidarietà. Dopo il 7 Ottobre le abbiamo cercate, a volte senza più trovarle; desiderano ancora parlare.
Non fu solo un sogno. Fu la visione lucida e profetica di un gruppo di politici e di intellettuali che colsero l'urgenza di un nuovo inizio mentre ancora imperversava la carneficina della Seconda guerra mondiale. Proporre oggi questa raccolta significa tornare lì dove tutto è cominciato, rileggere le parole di chi lanciò la sfida rivoluzionaria degli Stati Uniti d'Europa per rispondere alla tragedia generata dai nazionalismi, dalla logica di dominio, dalla guerra. Ora che il progetto europeo non sembra più capace di accendere l'immaginazione politica, e quasi nessuna forma di entusiasmo, prima di constatarne l'irreparabile fallimento, è importante tornare alle origini. È determinante rileggere le parole scritte e pronunciate da alcuni dei principali protagonisti. Ritrovare le idee, le ambizioni, le visioni di chi si è battuto per costruire un mondo finalmente libero dal desiderio egemonico di sopraffazione. Gli scritti e i discorsi raccolti in questo libro, che coprono un arco temporale che va dal 1944 al 1957, sono qui riproposti non solo e non tanto per il loro valore archeologico ma per la forza che sanno restituire a un progetto politico che oggi forse più che mai ha raggiunto il suo minimo storico in termini di capacità di coinvolgimento e d'identificazione dei cittadini. Non stiamo parlando dell'ambizione di un gruppo di anime belle: in queste pagine c'è l'antidoto a un mondo altrimenti condannato a distruggere quei valori fondanti della civiltà occidentale che sono la libertà e l'uguaglianza. Un mondo che purtroppo vediamo terribilmente sempre più vicino. Contributi di: Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Edgardo Monroe, Winston Churchill, Luigi Einaudi, Alcide De Gasperi, Robert Schuman, Konrad Adenauer. Prefazione di Ferruccio De Bortoli.
L'altra faccia della tragedia israelo-palestinese è a poca distanza: è la rapida evoluzione in atto in Arabia saudita, che allarga su scala più vasta gli esperimenti già avviati a Dubai o nel Qatar. Quell'area compresa tra il Golfo Persico e il Mar Rosso è un gigantesco cantiere di sviluppo, attira un boom di investimenti e di imprese straniere, anche italiane. E accoglie nuovi flussi di imprenditori, turisti, studenti e ricercatori (il nostro Paese si è accorto della svolta con qualche ritardo quando Roberto Mancini ha abbandonato la guida della nazionale di calcio per quella saudita e Riad ha soffiato a Roma la sede dell'Expo). Ma cosa c'è dietro? Una delle chiavi è la laicizzazione in corso, che riduce i poteri del clero islamico, liberalizza i costumi e migliora i diritti delle donne. In questo reportage ispirato dai suoi viaggi più recenti Federico Rampini racconta il «nuovo impero arabo» che resta un regime autoritario (su cui la guardia deve restare alta) ma vuole rilanciare il proprio ruolo mondiale, memore di quella che fu l'epoca d'oro della sua civiltà. E che sembra uscire dal vittimismo antisraeliano spezzando la catena dell'odio nei confronti dell'Occidente (e il suo finanziamento) che ha portato alla diffusione della Jihad e della violenza fanatica. È un'area in forte crescita, segnata da progetti grandiosi di modernizzazione con ricadute nella geopolitica, nell'energia, nell'economia, nella finanza, nella tecnologia e nel campo della lotta al cambiamento climatico. Ma l'Arabia e i suoi vicini più piccoli sono sotto la minaccia permanente di un avversario come l'Iran e del focolaio minaccioso del Golfo di Suez; e il conflitto israelo-palestinese condiziona leader e popoli di tutta la zona. Dal successo nei piani avveniristici di questa parte del mondo dipenderanno anche lo sviluppo dell'Africa, la stabilità del Mediterraneo, la sicurezza mondiale, la transizione verso un'economia meno condizionata dal petrolio. «Bisogna trattenersi, prima di abbracciare visioni del mondo manichee, crociate che oppongono le forze del Bene e del Male. L'Arabia merita di essere studiata più che esorcizzata.»
"Oriente" e "Occidente" sono costruzioni culturali di lunga durata. Questo libro esplora il modo in cui, fra Medioevo e contemporaneità, l'"Occidente" ha guardato al suo corrispettivo "orientale", all'insegna di quell'esotismo dietro il quale, sino al secolo scorso, si nascondeva, ancora, la consapevolezza d'interazioni profonde. La raccolta di alcuni saggi, in parte inediti e in parte pubblicati in sedi diverse, opportunamente rivisti costituisce un'occasione per tornare a riflettere su questo importante nodo della nostra storia culturale. Prefazione di Antonio Musarra.
Chi vuole rottamare, chi promette di asfaltare, chi minaccia di usare la ruspa. I politici dei nostri giorni amano distruggere, annunciano di voler abbattere l'edificio del passato, anche se di solito finiscono per abbattersi da soli. Ci fu invece un uomo, quando l'Italia era ancora un regno ma stava per diventare una repubblica, che si propose come «costruttore»: Alcide De Gasperi. Intorno a lui, le macerie della guerra provocate da un grande «distruttore». Eppure, De Gasperi riuscì a ricostruire l'Italia. In otto anni da presidente del Consiglio mandò via il re, difese l'integrità territoriale di un Paese sconfitto, ottenne i finanziamenti del Piano Marshall, portò Roma nel Patto atlantico e costruì l'embrione dell'Europa unita con Francia e Germania, creò la Cassa del Mezzogiorno e l'Eni di Mattei, promosse le grandi riforme sociali e avviò il miracolo economico. Invece di una rivoluzione, fece una democrazia. Quella in cui oggi viviamo. Un uomo nato povero e rimasto umile, sobrio e devoto, così diverso non solo dai politici attuali ma anche da quelli del suo tempo. E infatti morì da «uomo solo» nella Dc. Ma l'Italia lo capì e lo ammirò: alla sua morte ci fu un'ondata di commozione nazionale e il treno che trasportò la salma da Borgo Valsugana a Roma fu accolto dalla folla in decine e decine di stazioni. Fu un santo? Secondo alcuni sì. A Roma è in corso il processo di beatificazione che entro il Giubileo del 2025 potrebbe portare alla consacrazione di «venerabilità». Nel settantesimo anniversario della morte, attraverso cinque lezioni di straordinaria attualità - che spaziano dalla sua concezione della democrazia come «antidittatura», che lo portò a essere prima antifascista e poi anticomunista, alla politica estera, alla gestione della spesa pubblica, all'intervento nel Mezzogiorno -, Antonio Polito racconta la storia del primo e unico «premier forte» della Repubblica: per offrirne il modello a chi oggi guida o si candida a guidare l'Italia, ai politici dei nostri tempi.
In passato era il Ministero della Guerra. Poi il Ministero della Difesa. Oggi questo non basta più. Nessuna guerra è solo di difesa, ogni conflitto estende la "guerra mondiale a pezzi" di cui parla Papa Francesco: si ammazza e si distrugge anziché concentrare le risorse sulle vere emergenze dell'umanità, e il rischio di un conflitto irreversibile è sempre più vicino. «L'uomo ha sempre organizzato la guerra, è arrivata l'ora di organizzare la pace» diceva don Oreste Benzi. Attorno a questa idea è nata una Campagna che promuove un nuovo Ministero, quello della Pace, per dare strumenti e una architettura politica ad una parola, pace, che va messa al centro delle scelte di governo. Molti enti e personalità, tra cui 30 premi Nobel, hanno già aderito e ne hanno sostenuto l'istituzione. Questo libro propone una analisi e raccoglie contributi che dimostrano come questa scelta sia davvero possibile e necessaria per assicurare un futuro all'umanità.
«L'Ucraina sta invadendo la Russia su mandato dell'«Occidente collettivo». Potessimo radiografare la mente di Putin, vi leggeremmo questa paradossale carta del fronte bellico. Sineddoche geopolitica che dipinge russe quattro regioni ucraine di cui nessuna totalmente controllata da Mosca. E che il giorno dopo l'annessione già perdevano altri pezzi. Rappresentazione d'un fallimento che potrebbe sfociare nella liquidazione del presidente e forse dello Stato di cui si concepiva amministratore a vita. O nella guerra atomica che Putin scatenerebbe per impedirlo. Spettro che il Cremlino evoca nella speranza che la Casa Bianca accetti di negoziare un compromesso altrimenti improbabile. [...]» (dall'editoriale "Valzer per nessuno").
L'allarme per un ipotetico ritorno del fascismo guarda nella direzione sbagliata. L'attenzione degli allarmati democratici si concentra sui segnali più vistosi: gesti identitari (saluti romani, croci celtiche), violenze fisiche, manifestazioni di odio razziale. Si tratta di fenomeni esecrabili, ma appunto perché plateali forse meno pericolosi rispetto a quelli meno immediatamente evidenti: i movimenti politici che, pur ripudiando il ricorso alla violenza agita sul piano fisico (ma non su quello verbale) e pur muovendosi all'interno delle regole del gioco democratico, manifestano chiari caratteri ereditari del fascismo novecentesco. Sono quei partiti - spesso difficilmente riconducibili alle categorie di destra e sinistra - che vengono convenzionalmente definiti come populisti o sovranisti. Mentre i nostalgici dichiarati del nazifascismo non sono che un fenomeno di nicchia, i populisti europei e americani discendono, consapevolmente o inconsapevolmente, non dal Mussolini fondatore del partito fascista ma dal Mussolini che per primo intuisce i meccanismi della seduzione politica nella società di massa. Dopo anni dedicati a un corpo a corpo storico e letterario con i protagonisti del fascismo novecentesco, Scurati si solleva sopra quella materia bruciante e in queste pagine ne individua con limpida precisione le leggi e le eterne insidie, consegnandoci un testo fondamentale per affrontare l'epoca inquieta che stiamo attraversando.
La guerra in Ucraina ridisegna le relazioni tra le grandi potenze e innesca uno scontro a tutto campo destinato a protrarsi nel tempo. Ci attendono tregue armate e un futuro tutto da decifrare. Soprattutto per il nostro paese e per il Vecchio Continente, teatro del conflitto e testimone di un lungo periodo di pace che inizia a sfumare. Mentre una Russia in difficoltà nel pantano ucraino guarda alla Cina per sopravvivere. L'editoriale dal titolo "L'ultima parola ai popoli muti" apre il volume, a cui segue una corposa prima parte ("La guerra d'Ucraina fra strategia e tattica") dedicata alle sorti del conflitto e alle voci dei contendenti, ucraine, russe ma anche cinesi, americane ed europee. La seconda parte del numero ("Le Europe fra incoscienza e riarmo") è centrata sulla postura del nostro continente tra il riarmo annunciato della Germania e le inquietudini francesi. Chiude il numero la terza parte ("L'Italia fuori gioco") dedicata al nostro paese tra affanni e prospettive sul fronte domestico e continentale.
Ciclicamente rispunta una teoria autoconsolatoria che sentenzia: il fascismo è finito in un preciso giorno di 79 anni fa. Per chi abbia familiarità con i tempi lunghi della storia, questa appare però, senza eccessivo sforzo mentale, come una sciocchezza. E basterebbe del resto la cronaca del settantennio che abbiamo alle spalle per convincersi della vacuità di una tale teoria. Lo riprova inoltre quotidianamente la cronaca, che certo non ci rallegra: tanto più che - come un secolo fa - non si tratta di una questione solo italiana. Del resto, tutte le principali forze politiche del Novecento, dai cattolici ai neoliberali, passando per i socialisti, vivono, uguali e diverse, e variamente denominate, nel nuovo secolo. La partita, a quanto pare, è ancora aperta.
"Il Nagorno Karabakh è ancora una volta un paese dell'Islam e riacquista il suo posto all'ombra della Mezzaluna" annunciava trionfante Recep Tayip Erdogan, mentre nella piccola enclave che è stata la culla della cultura armena, il popolo che per primo abbracciò il cristianesimo nel 301 e che fu sterminato nel 1915 dai turchi, si avviava a un nuovo esodo. Tre mesi prima, il presidente turco aveva riconvertito a moschea la Basilica di Santa Sofia a Istanbul in una riedizione della conquista di Costantinopoli del 1453. Intanto, la Turchia pianificava la costruzione di moschee in Europa più alte delle nostre chiese, a Strasburgo, a Colonia, ad Amsterdam. Perché "l'Europa sarà musulmana, se Allah vuole", come dichiarano i dirigenti del Partito per la giustizia e lo sviluppo di Erdogan, impegnato anche in una reislamizzazione della Turchia che fu laica tramite le scuole religiose, la censura intellettuale e la scristianizzazione di decine di luoghi di culto che risalgono ai tempi degli Apostoli.