
I racconti più belli e intensi della vita di una donna e di un'artista. Loretta Goggi - 62 anni (50 di carriera) - racconta la sua parabola esistenziale intrecciandola alle riflessioni sull'oggi e sul futuro, sul dolore e la gioia di vivere, sulla professione e su quella fede in Dio che l'accompagna da sempre.
Perché un secolo e mezzo dopo l'unificazione - più presunta che reale - il nostro Paese non è ancora diventato una nazione? Perché dopo aver (mal)fatto l'Italia non siamo ancora riusciti a fare gli italiani? E perché proprio non riusciamo a diventare semplicemente un Paese normale? Principalmente perché la storia che ci raccontano e ci raccontiamo è per molti versi un castello di bugie. Ma forse è arrivato il tempo di guardare al nostro passato con occhio più disincantato, meno ideologico e, persino, più irriverente, per comprendere che cosa è successo - per davvero - nei decenni e nei secoli che hanno rappresentato l'incubazione del nostro DNA. E di farlo con prospettiva rivolta al presente. Perché la storia è maestra di vita: indica la via della quotidianità e, in qualche modo, suggerisce il percorso della politica. Per correggere i nostri gravi (e, qualche volta, gravissimi) difetti è necessario vedere da dove vengono, in modo che l'esempio e l'esperienza pregressa possano consentirci di trasformarli in piccole (e, forse, piccolissime) virtù. Prefazione di Pierluigi Battista.
Luigi è figlio d'arte. Suo padre è un boss della camorra, un pezzo grosso, uno di quelli che contano nell'aversano. Dalle sue parti, con quelle credenziali, potrebbe essere padrone incontrastato. Ma lui non ne vuole sapere. Troppo vivo e amaro il ricordo degli anni di infanzia, con il padre sempre in galera e la geografia imparata andando in visita nelle carceri di massima sicurezza in tutta Italia, con i Natali a toni smorzati, solo con donne e cugini, perché tutti gli uomini della famiglia o erano latitanti o in prigione. Quando le irruzioni all'alba della polizia o i parenti morti in agguati non li vedi sullo schermo ma li hai in casa, puoi crescere senza poterne fare a meno, o cercare di starne lontano il più possibile. Luigi ha scelto la seconda strada, dicendo tanti no, poi qualche sì, poi ancora no no no, fino a costruirsi una vita pulita e dignitosa. Questo vuole dire ai figli di Scampia e a tutti gli altri, una vita diversa è possibile, ed è molto più bella.
Quando Martin Sixsmith, noto giornalista in cerca di nuova occupazione, accetta di incontrare quella donna sconosciuta, non ha molte aspettative. Ma poi, la donna lo invita a indagare sul segreto che, dopo un riserbo di quasi cinquant'anni, la madre Philomena le ha svelato, e il suo istinto da giornalista non sa tirarsi indietro. Philomena è poco più che una ragazzina quando rimane incinta. È giovane e ingenua, senza cognizione dei fatti della vita e la società irlandese del 1952 la considera ormai una "donna perduta". Rinchiusa in un convento, poco dopo darà alla luce Anthony. Per tre anni si occupa di lui tra quelle mura, fino a quando le suore non glielo portano via per darlo in adozione, dietro compenso, a una facoltosa famiglia americana, come accadeva in quegli anni a migliaia di altri figli del peccato. Non c'è stato giorno da allora in cui Philomena non abbia pensato al suo bambino, senza mai abbandonare il sogno di ritrovarlo, e cercando in segreto di rintracciarlo. E senza immaginare che, dall'altra parte dell'oceano, anche suo figlio la sta cercando. Nella sua ricerca, Martin porterà alla luce segreti, ipocrisie e soprusi occultati per anni e annoderà le fila di due anime separate alla nascita e spinte l'una verso l'altra da una sete d'amore inesauribile.
"La 'mia' Shoah, quella di molti ebrei italiani, è mia madre ragazzina che non trova il suo nome nel tabellone dei voti a scuola, perché gli ebrei sono a parte. Che non può ricevere un otto, perché i voti degli ebrei non possono superare quelli degli 'ariani'. È mio padre, che fino alla morte conserva il telegramma dell'amico Bruno, che gli dice di usare la sua casa, in caso di bisogno. La mia Shoah sono bambine che spariscono da scuola per sette anni e quando tornano nessuno gli chiede dove sono state. Prima delle leggi razziali, prima della Vergogna, mia madre, mio padre, i nonni, gli zii, i cugini, erano normali cittadini italiani. Finché non divennero 'di razza ebraica', e persero il lavoro, la dignità, la sicurezza, e infine rischiarono anche la vita: la scelta fu scappare, oppure morire. Qualcuno fu deportato. Qualcuno non tornò. Poi, mio padre e mia madre si conobbero in un campeggio ebraico, nel dopoguerra, e riconquistarono la 'normalità'. Grazie a loro sono qui. A raccontare. Di loro e degli altri". Manuela Dviri è una figlia che riscopre un po' alla volta un grande mosaico famigliare, ed è una madre che perde in guerra l'amato figlio ventenne e trova nel suo ricordo la forza di rinascere e di battersi perché ad altre madri sia risparmiata l'orribile sofferenza. Tra l'Israele di oggi e l'Italia di ieri risale i rivoli che si ricongiungono nel vasto fiume di una grande famiglia ebraica.
"Il rossetto nel frigo, l'arancia tra la biancheria, lo spazzolino nelle posate, le calze sul piatto. D'improvviso il caos. Fraseggi senza logica, domande infantili, scambio del sole con la luna, apatia e attivismo, Venere nell'Ave Maria, Gesù in Catullo, spavento per la luce, fobia per i balconi. Mi chiedo perché, cerco di capire." A fatica Vincenzo si rassegna a vedere la donna da cui era rimasto folgorato in un lontano giorno in un caffè di Roma, vitale, appassionata, docente di storia, ora smarrita come una bambina di fronte alle cose più semplici. Mentre i ricordi di lei si affievoliscono inesorabilmente inghiottiti dall'Alzheimer, quelli di Vincenzo, e della loro figlia Francesca, si intensificano e si amplificano, nel tentativo di tenere viva l'immagine della donna che sorride felice da un vecchio video delle vacanze. Postfazione di Francesca Di Mattia.
Quando, nel 2002, Slahi viene mandato nel famigerato campo di detenzione di Guantánamo, è costretto a sopportare tutto il peggio che un carcere può offrire, compresi mesi di deprivazione sensoriale, tortura, violenze sessuali, minacce di ogni tipo, perfino ai suoi cari. Dopo tre anni di prigionia, ha cominciato a scrivere a mano la sua storia, in inglese, la lingua che ha imparato interagendo con i suoi carcerieri. Nel 2007 l'FBI, la CIA e l'intelligence americana hanno stabilito che non ci sono elementi per collegare Slahi ad alcun atto di terrorismo. Non è mai stato accusato formalmente di alcun crimine. Nel 2010 un giudice federale ha ordinato la sua scarcerazione. Eppure resta a Guantánamo. Nonostante questa inimmaginabile ingiustizia, Slahi rimane tollerante, razionale, benevolo. La sua è una memoir intima e personale, spaventosa, pervasa da una grazia sorprendente. Il suo manoscritto è stato ora declassificato dal governo americano e le sue parole ispirate, percorse da un umorismo dark, comunque devastanti, sono finalmente a disposizione di tutti. Raccontano una storia scioccante, fondamentale, che ha il potere di modificare la considerazione di ciascuno e rappresenta un documento di immensa importanza storica. Il risultato è un racconto di perseveranza umana portata al limite, ma mai spezzata.
Un ex-ragazzo di oggi, figlio di un padre strappato alla vita, racconta la vicenda di quel padre, Aldo, partigiano con i suoi sette fratelli nella banda Cervi, per rivendicare la sua storia e, al tempo stesso, per rivendicare di essere figlio di un uomo, non di un mito pietrificato dal tempo e dalle ideologie. Una vicenda racchiusa tra due fotografie. La prima, degli anni trenta: una grande famiglia riunita, sette fratelli, tutti con il vestito buono, insieme alle sorelle e ai genitori. La seconda, dopo la fucilazione dei sette fratelli da parte dei fascisti: solo vedove e bambini, soli di fronte alle durezze del periodo, alla miseria, ai debiti, anche alle maldicenze. C'è tutto un mondo da raccontare in mezzo a quelle due foto, con la voce di un bambino che ha imparato a cullarsi da solo, perché suo padre è morto troppo presto e sua madre ora è china sui campi.
Questo libro è il manifesto della battaglia per i diritti umani che Cécile Kyenge conduce da una vita e su cui ha fondato la sua attività di ministra per l'Integrazione. Un pamphlet dalle argomentazioni forti, che non si limita a sviscerare i temi che l'hanno vista al centro del dibattito politico e mediatico, ma che racconta tante storie: vicende talvolta drammatiche di dignità umana negata e calpestata, ma anche avventure a lieto fine d'integrazione positivamente realizzata, che mostrano un volto italico aperto all'arrivo del nuovo e capace d'intuire che gli immigrati non sono un pericolo ma un'occasione di mutua crescita. È in tempi di crisi che l'unione fa la forza. I diritti - come spiega l'autrice - sono un bene comune come la conoscenza, l'arte, la pace: più sono distribuiti più ciascuno di noi ne gode.
Cos'è davvero la «Divina Commedia»? Non certo un polveroso tomo o una mera reminiscenza scolastica. Il poema immortale di Dante è ben altro: una «strepitosa storia d'amore», piuttosto, un'«esplosione di entusiasmo per Dio» e, soprattutto, il resoconto memorabile del viaggio più estremo e drammatico che un essere umano possa compiere. Un capolavoro che per la sua capacità di comunicare la potenza della fede cristiana e di parlare a ogni generazione, dovrebbe essere lettura indispensabile per noi cittadini spaventati di questo cupo XXI secolo, inghiottiti dal buio interiore della selva oscura in cui tutti, prima o poi, ci troviamo a vagare. Questa originale "traduzione" dell'«Inferno» - che qui rivive fedelmente in prosa e con le parole dell'italiano corrente - mostra l'impressionante contemporaneità dei temi e dei personaggi danteschi. Già la condizione iniziale del protagonista non può che stupire. È così moderna, così immediata per noi: l'angoscia, lo smarrimento, la solitudine, il sentirsi "gettati" nel mondo, la paura, la disperazione, il fallimento, il sentirsi braccati. Un'esperienza sbalorditiva in cui riconoscersi: perché il viaggio di Dante non è semplicemente grandiosa immaginazione, ma visione, testimonianza, esperienza. È un vero e proprio cammino di conversione, e il passo iniziale è costituito precisamente dal guardare in faccia il male. Se la modernità ha solo creduto di capire Dante, e in realtà non l'ha capito affatto, è perché ha creduto di conoscere il cattolicesimo. Dobbiamo avvicinarci all'«Inferno» con la stessa curiosità che si avrebbe per un poema riportato alla luce dalle ricerche su una civiltà perduta. Solo così la «Commedia», che è anche il racconto della risalita dall'abisso, fino a «rivedere le stelle», saprà rivelarci tutta la meraviglia del suo percorso di salvazione.
Si aggirano per casa come entità estranee e imperscrutabili. Non parlano con i grandi, come se rispettassero un codice d'onore noto solo a loro. Stanno sul divano con in testa il cappuccio della felpa, o chiusi in camera a giocare alla PlayStation. Sono adolescenti. I genitori spaesati si preoccupano che malumore e mutismo nascondano problemi a scuola, o di cuore, o magari più gravi, come alcol e bullismo. O noia. O niente. Liquidare tutto con "ai miei tempi non era così" non aiuta a capire né a risolvere. Perché i tempi sono cambiati, non solo per modo di dire, gli anni che separano una generazione dall'altra corrispondono a secoli ormai. Superata la tv, sono gli smartphone, i tablet, le wii, i social network le nuove appendici dei ragazzi. Sono nativi digitali, cresciuti in una società che non si riconosce più nei ruoli tradizionali. Nuove famiglie, precariato, istituzioni fragili sono ciò che conoscono. Stanno facendo da apripista a un nuovo mondo, e in più hanno tutti i sintomi dell'adolescenza che anche i loro genitori hanno conosciuto. Attraverso le testimonianze di molti ragazzi, talora crude, sempre rivelatrici, raccolte dal giornalista Mario Campanella, Maria Rita Parsi, psicoterapeuta di grande esperienza, spiega le ragioni sociali e fisiologiche dei comportamenti dei ragazzi, e aiuta i genitori a prendere atto delle responsabilità della famiglia e della scuola. Per guidarli sani e salvi fuori dal malessere e ritrovare insieme la serenità.
È il 1962. Nel suo studio, la principessa Grace sta per sigillare la lettera più difficile che le sia capitato di scrivere. È durato così poco il sogno di tornare sulle scene, dopo sette anni di matrimonio con il principe Ranieri. Hitchcock l'ha tentata con il ruolo da protagonista in Marnie e lei, con l'approvazione del marito, ha accettato. Non immaginava a cosa sarebbe andata incontro. Polemiche, critiche, accuse, i giornali che strillano che Ranieri dev'essere sul lastrico, se Grace torna a lavorare. Voci, voci, voci, proprio mentre il Principato è ai ferri corti con de Gaulle. Nel momento in cui firma la lettera di rinuncia al suo regista preferito, Grace Kelly muore per sempre. Quel giorno, Grace diventa principessa di Monaco più di quanto non lo sia diventata il giorno delle nozze. La vita di Grace ha tutti gli elementi della favola. La diva di Hollywood, icona di stile e musa di registi come Hitchcock, che rinuncia alla carriera per amore, sposa un principe e diventa la principessa amata di un mondo minuscolo e sfavillante. La fine tragica e avvolta nel mistero che la accomuna ad altri miti imperituri come Marilyn. Ma quello che si cela veramente nel suo cuore nei momenti di luce come in quelli d'ombra, è un segreto che solo chi l'ha amata molto può conoscere.