
Il neoliberismo è morto. Se quando si profila la crisi della pandemia i mercati - considerati gli strumenti più efficienti di regolamentazione sociale - scompaiono, e le persone cercano rifugio nello Stato, il neoliberismo è morto. Beninteso: uno Stato capace di proteggere, non che sceglie di reprimere. Boaventura de Sousa Santos, smentendo il pessimismo apocalittico di Giorgio Agamben, indica un'alternativa al neoliberismo, ma anche al capitalismo tout court: è la preziosa, violentissima lezione del virus, che rende ancora più profonde le disuguaglianze sociali. Una pedagogia crudele, dalla quale è giunto il tempo di imparare.
Di fronte a un evento straordinario come quello che stiamo vivendo in questi giorni - in un clamore informativo affollato di cifre, di paure, di previsioni - è necessaria una riflessione che ci aiuti a riconoscere le dimensioni di questa crisi, a comprenderne gli antecedenti e a immaginare i cambiamenti. Una riflessione urgente e necessaria perché l'epidemia ha messo in evidenza tanto la capacità di tenuta del nostro sistema sanitario quanto le sue gravi debolezze strutturali. Si è spesso dichiarato, con qualche retorica, che il sistema sanitario andava costruito intorno alle persone come un diritto di cittadinanza: forse è il momento di prendere queste enunciazioni al loro valore letterale. Oggi esistono gli strumenti per rendere questo diritto effettivo e sarebbe grave se, normalizzata (se non sconfitta) l'epidemia, si cercasse di tornare alle vecchie logiche.
I giorni del Coronavirus segnano un cambiamento: si parla di un "dopo" come si è fatto per le grandi tragedie che hanno afflitto l'umanità. Anche la scuola non può sottrarsi a questa ridefinizione degli obiettivi, dei mezzi, delle strategie per poter vivere insieme una vita serena. Come sarà la scuola dopo il Coronavirus? L'occasione che ci si presenta è importante per ripensare la didattica, la valutazione, il rapporto tra strumenti e contenuti e soprattutto la relazione educativa: una relazione fisica, corporea, che è proprio ciò che ci manca in modo così lacerante in questi giorni di isolamento. Il primo giorno di scuola dopo l'emergenza non dovrà essere semplicemente un ripartire ma un rifondare la scuola, un ripensarla a partire dall'insostituibilità della relazione di contatto tra insegnanti e allievi.
La pandemia ha rivelato tutta la fragilità di un'idea che ci martella da decenni: il pubblico è spreco, il privato è bello. Oggi scopriamo che la nostra sanità parla di clienti e non più di cittadini con diritti; che il nostro ambiente è stato sacrificato all'altare della crescita infinita; che ricerca e scuola sono scarnificate dai tagli; che il mondo del lavoro è spaccato in due, tra chi continua a dare ordini da casa e chi deve stare a contatto con i macchinari, fare consegne in bicicletta, raccogliere ortaggi nei campi. Scopriamo la perversione di un modello che ha venduto la globalizzazione come un processo in cui vincono tutti, ha trasformato l'economia in finanza e ha reso i poveri dei «consumatori a debito dei sogni dei ricchi». E che infine, dopo la crisi dei sub-prime (accertato che no, non vincono tutti), ha favorito la proliferazione dei sovranismi: tutti contro tutti. Andrea Ranieri ha scritto una storia breve del capitalismo degli ultimi cinquant'anni, per orientarsi nella prossima fase di revisione dei trattati europei tenendo a mente le lezioni del New Deal di Roosevelt e del disastro dell'austerity: non può darsi rilancio economico senza aumentare le tasse ai più ricchi.
Nella spasmodica ricerca di contenere il dilagare della pandemia, sempre più nazioni, inclusa l'Italia, hanno approvato decreti emergenziali volti a ridurre il più possibile i contatti sociali dei cittadini. A marzo del 2020, nel picco della pandemia, si tratta di quattro persone su dieci, in pratica il 43% della popolazione della Terra. Se la speranza, per molti, è quella di un rapido ritorno alla normalità, è lecito chiedersi: come sarà il "dopo"? Il Sars-Cov-2 potrebbe condurre a due ambivalenti e possibili scenari futuri: l'uomo vivrà una fase di benessere, pace e serenità che si configuri come post-bellica, post-patologica o post-povertà oppure si arriverà a una soglia in cui il post- collassa nel significato di dis-, creando un contesto dis-umano che nega ogni forma di valore condiviso e di comunione sociale. Fare i conti con questa ambiguità rivela l'esigenza di pensare come e cosa fare per uscire dal presente ed essere ancora umani nel futuro.
L'epidemia ha travolto le nostre sicurezze e sconvolto le nostre abitudini. La paura si è imposta nella nostra quotidianità, impedendoci di distogliere lo sguardo dalla sofferenza, come eravamo invece abituati a fare soprattutto di fronte al dolore degli emarginati. Abbiamo oggi la possibilità di ripartire abbracciando una nuova prospettiva. In questa forte e sentita intervista, Ivo Lizzola cerca il senso di questi giorni, che devono portarci a ridisegnare la convivenza nella sobrietà, nell'aiuto reciproco, nel buon uso dei saperi, nel forte senso di giustizia. È arrivato il tempo di essere umili, di affrontare la realtà e costruire insieme un futuro più dignitoso e più sicuro per tutte le generazioni a venire.
Nel tempo della quarantena abbiamo assistito a vere sospensioni della democrazia partecipativa e rappresentativa, con una generale riduzione del potere delle assemblee. Dopo la pandemia non ci aspetta dunque il ripristino di una qualche "normalità", ma l'attuazione del nuovo modello che queste sospensioni ci sollecitano: la riapertura del "cantiere Europa". Per arrivare a esporre un «progetto, un metodo e un'agenda», Pier Virgilio Dastoli ripercorre la storia della capacità fiscale, della democrazia e del bilancio comune europei, ma anche della crisi del modello del welfare state. La via da percorrere passa dalla risoluzione della crisi di fiducia tra l'Unione Europea e i suoi cittadini, offrendo una nuova prospettiva economica e politica a tutti gli europei.
Con il Coronavirus e la pandeconomia che ne è derivata siamo di fronte a un bivio: riprendere la vecchia strada, con tutto quello che ne consegue in termini di disuguaglianze sociali, inquinamento e distruzione dell'ecosistema, o procedere verso un'equonomia, ovvero la ricerca di un equilibrio tra uomo e habitat, fondato sull'equità, sugli insegnamenti e i valori positivi che questa crisi ha fatto emergere.
La pandemia di Covid-19 ha imposto al mondo di fermarsi. L'umanità si è trovata costretta ad avviare un processo di apprendimento collettivo che, in quanto universale, ha imposto di ripensare in modo radicale la responsabilità di tutti verso i più elementari diritti umani. Siamo arrivati alla conclusione che nulla debba essere più come prima. Da decenni, infatti, il sistema capitalista e la globalizzazione hanno contribuito alla sistematica distruzione delle risorse della Terra, e oggi è più che mai necessaria una trasformazione delle nostre abitudini e dei nostri sistemi di produzione. È possibile che una cultura del cambiamento possa diventare egemone e che un'altra politica possa realizzarsi? Con una democrazia in grado di riappropriarsi di uno sguardo dal basso, e quindi attraverso il civismo, capace di segnalare alla classe dirigente come intervenire per il benessere collettivo, sarà possibile costruire un governo mondiale che impieghi tutte le sue forze per la pace globale e la salvaguardia del nostro pianeta?
Cosa unisce il ronzio di una zanzara al destino economico e politico dell'Italia, e quindi dell'Unione Europea? Tanto. Molto più di quanto si possa immaginare. "Non è andato tutto bene" investiga, scava e disegna il possibile scenario che emergerà nel mondo e nell'Italia del dopo Coronavirus. Con ironia e leggerezza, passione e precisione, si analizzano i mesi marchiati dal demone Covid-19, che rappresenta la logica e inevitabile conseguenza degli eventi accaduti negli ultimi quattrocento anni. Attraverso osservazioni, annotazioni e interviste a esperti, il libro ricostruisce il fil rouge multidimensionale che lega eventi lontani tra loro nello spazio e nel tempo, narrando le occasioni perse e quelle da non perdere nel nostro prossimo futuro: dalla devastazione delle foreste vergini ai rischi dell'homo deus; dagli allarmi pandemici ignorati per anni alla politica sempre più evanescente e rivolta al controllo dei cittadini.
Il coronavirus sta velocizzando la mutazione tecnologica e sta rendendo il dibattito sui gemelli digitali più che mai urgente. Il gemello digitale è la nostra vita riprodotta e raccontata dai dati; un "altro noi" che si fa strada grazie al mondo degli assistenti virtuali, che incarna tutte le facoltà umane e le trasforma in un tutt'uno, rendendoci «trasparenti». Saremo capaci di gestire questi strumenti per il bene di tutti, o finiremo per delegare loro poteri considerevoli, perdendo le capacità che ci rendono esseri umani, come l'intelletto, il giudizio, l'immaginazione? L'unico modo per non farci sopraffare è riuscire a riappropriarci della gestione dei nostri dati, pretendendo garanzie politiche e giuridiche più elaborate di quelle già esistenti. Dobbiamo essere noi a costruire il nostro gemello prima che lo facciano altri. Prefazione di Roberto Saracco.
La lingua madre della Città Eterna è il latino, ma davvero gli antichi romani parlavano solo quello? E come siamo passati dal latino al romanesco? Si può dire che Roma non abbia un vero dialetto ma una parlata? Luca Serianni risponde a queste domande partendo dai primi insediamenti etruschi e latini per arrivare alle lingue contemporanee della capitale, passando per la fase cruciale dei Papi medicei del Cinquecento, la cui corte è principale artefice della "toscanizzazione" del volgare parlato a Roma. Ma sono tante le incursioni linguistiche che hanno modificato il romanesco arcaico. "Le mille lingue di Roma" è una mappa che segue le sorti alterne di una lingua forgiata da dinamiche costanti di integrazione e che ha per risultato l'essenziale e originario plurilinguismo della nostra capitale.