
"Fra i critici del mondo moderno, ormai innumerevoli, René Guénon merita di essere segnalato come uno dei più radicali, dei più limpidi e coerenti... "Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi" è certamente la sua opera più completa e più rigorosa, e quindi anche la più utile ... Guénon - e in particolare questo suo libro, a preferenza di altri - merita di essere letto per togliersi dalla comoda illusione che il mondo sia necessariamente come noi siamo abituati a pensare che debba essere". (Sergio Quinzio)
Nel "Dilemma dell'onnivoro" Michael Pollan aveva smontato il pranzo che ci apparecchiamo ogni giorno, dimostrando che cosa realmente contenga, a dispetto di quanto dicono le etichette. In questo libro, che amplia e conclude il precedente, Pollan va oltre, demolendo una credenza particolarmente pericolosa e ormai diffusissima, e cioè che a renderci più sani e più belli non siano tanto le cose che mangiamo, quanto le sostanze che le compongono. Nel mondo immaginato dai nutrizionisti, ricorda Pollan, anziché perdere tempo a sbucciare e fare a spicchi le arance basterebbe assumere una quantità equivalente di vitamina C. Ma accade invece che gli stessi nutrizionisti mettano improvvisamente al bando le componenti della dieta che fino a poche settimane prima avevano presentato come irrinunciabili, e che per paradosso gli Stati Uniti, cioè il paese più ossessionato di qualsiasi altro dal terrore di mangiare qualcosa che fa male, o di non mangiare ciò che fa bene, si siano dati il modello alimentare più malsano e patogeno fin qui conosciuto. Il rimedio? Sarebbe semplice, sostiene Pollan: non mangiare nulla che la nostra nonna non avrebbe mangiato. In altre parole, cibo, meglio se poco, e meglio ancora se verde. Sarebbe semplice, cioè, se non sconvolgesse il credo dell'industria più potente e insostituibile al mondo, quella agroalimentare. Che, come dimostrano le violentissime polemiche già suscitate da questo libro alla sua uscita, non intende arrendersi neppure all'evidenza senza combattere.
"Questo libro di Citati è in fondo l'antologia segreta dei suoi sogni, e dei misteri sui quali gli preme di far luce: gli ori luminosi degli Sciti, e la strana luce del dio Apollo; le visioni iniziatiche dell'A-sino d'oro di Apuleio; l'accecante oscurità delle Lette-redi Paolo; e il Dio di Agostino, nelle Confessioni. I giochi del Tao, e la Bibbia vista dall'Islam... E Dante, e Mozart, e Montaigne... E il prodigio delle favole e dei racconti mitici". Hector Bianciotti
Con questo libro Elvio Fachinelli si avventura nella regione che, per la psicoanalisi tutta e in primo luogo per Freud stesso, fu la regione per eccellenza del pericolo, della minaccia, dell'ambiguità invischiante: l'estasi. Di questo percorso affascinante Fachinelli scrive sobriamente: "Frugo uno strato percettivo, emozionale, cognitivo, che è stato colto perlopiù come un'area di frontiera, pericolosa dal punto di vista dell'affermazione di un io personale, ben individualizzato. Uno strato che forse proprio per questo è stato messo da parte nel corso dell'evoluzione dell'uomo detto civile. Sarebbe assurdo criticare o irridere questo accantonamento, che è stato una necessità per la maggioranza degli esseri umani. Si può dire, ora, che questa necessità viene meno? e che possiamo prendere in noi, che possiamo esercitare pienamente una disponibilità finora trascurata, ma non assente? Se si risponde di sì, allora l'estatico che nella nostra civiltà affiora di solito in esperienze liminari, facilmente ritenute insignificanti, o addirittura inesistenti, non è proprio di sperimentatori eccentrici, ma è ciò che manca alla nostra comune percezione. Esso può cominciare ad entrarvi, a patto di vincere i processi di isolamento e frammentazione, più che di vera e propria cancellazione, a cui è stato sottoposto sin qui. [...]"
Di lei credevamo di sapere tutto: dalla nascita a Kiev nel 1903 alla morte ad Auschwitz nel 1942, dall'avventura del manoscritto di "David Golder", inviato anonimo nel 1929 all'editore Grasset, al manoscritto salvato di "Suite francese", apparso nel 2004 e tradotto ormai in trenta lingue. Sbagliavamo: Philipponnat e Lienhardt ce lo dimostrano in questa biografia. Per tre anni, costantemente affiancati dalla figlia di Irène, Denise Epstein, gli autori hanno consultato le carte inedite della scrittrice: la corrispondenza con gli editori come gli appunti presi a margine dei manoscritti, i diari come i taccuini di lavoro. Un'opera che non solo fa risorgere dall'oblio con una vividezza sorprendente le diverse fasi dell'esistenza di Irene (l'infanzia nella Russia prima imperiale e poi rivoluzionaria, la fuga prima in Finlandia e poi in Svezia, la giovinezza dorata in Francia, i rapporti con la società letteraria degli anni Trenta, gli sconvolgimenti della guerra, gli ultimi mesi di vita nel paesino dell'Isère dove si è rifugiata con la famiglia), ma coglie e restituisce tutte le sfaccettature di una personalità complessa, affrontandone senza remore di alcun tipo anche gli aspetti più discussi e contraddittori.
I faits divers - sottolineava Sciascia presentando nel 1989 la sua terza raccolta di articoli e saggi dispersi - sono "quelli che noi diciamo fatti di cronaca, cronache quotidiane, cronache a sfondo nero, passionali e criminali spesso, sempre di una certa stranezza e di un certo mistero". "Fatti diversi" vale dunque "parodisticamente, paradossalmente e magari parossisticamente, cronache: a render più leggera la specificazione, di crociana ascendenza, di storia letteraria e civile". Ma anche a ribadire, si vorrebbe aggiungere, la fedeltà a un metodo in cui alla pertinacia del detective si accompagna l'urgenza di verità, all'erudizione dell'enciclopedista la fabula, alla volontà di ribadire la ragione della memoria "il senso e il senno dell'oggi". La raccolta si apre sull'interrogativo "Come si può essere siciliani?", e prosegue poi con "inquisizioni" che hanno al centro la Sicilia e insieme la letteratura, il cinema, la pittura, la fotografia.
Anna Politkovskaja è stata assassinata il 7 ottobre 2006, sul pianerottolo di casa sua. Il 19 febbraio del 2009 un tribunale moscovita ha giudicato non colpevoli i tre imputati del delitto. La difesa aveva sostenuto che erano meri capri espiatori, e che i veri colpevoli godevano di altissime protezioni. Da chi sia stata uccisa l'indomita giornalista forse rimarrà un mistero. Ma non le ragioni per le quali non erano pochi a volersi liberare della sua ingombrante presenza: gli articoli raccolti in questo libro (grazie al lavoro appassionato dei due figli di Anna, i quali, insieme ai colleghi della «Novaja gazeta», hanno scandagliato lo hard-disk dei suoi computer, il suo archivio personale e gli archivi del quotidiano) ci consentono di leggere, in drammatica successione, le cronache che, dal 1999 a fine settembre 2006, hanno decretato, appunto, la sua condanna a morte. Si tratta di un documento straordinario: una sorta di reportage sulla Russia contemporanea in cui tornano, illuminati da nuovi dettagli, gli scenari delineati nei libri precedenti: il fronte bellico del Caucaso si dispiega in tutta la sua complessa, torbida geografia; sui retroscena dell'attacco terroristico al teatro na Dubrovke getta luce l'eccezionale colloquio con un terrorista sopravvissuto (un agente infiltrato?); le trame del potere sepolte tra le rovine della scuola di Beslan si intrecciano a storie quotidiane di una Russia devastata da «guerra, razzismo e violenza come metodo decisionale»; mentre lo sguardo che da Occidente si posa sul «paese pacifico» è quello cinico, lusinghevole o distratto dei politici. Il giornalismo di Anna Politkovskaja era costantemente teso alla testimonianza della verità: una verità che si imprime nella nostra memoria anche grazie a una magistrale padronanza dello stile, a un sottile senso dello humour, a una sensibilità così acuta da consentirci di scrutare l'anima dei vincitori come dei vinti, delle vittime come dei carnefici.
Una galleria di ritratti in parte nuova, ispirata a un principio antico, enunciato dallo stesso Pericoli: «una biografia diversa da quella ufficiale, una sintesi visiva, una sorta di faccia-riassunto» – un volto che «somiglia, certo, al volto vero, ma che è ancora più vero perché ne racconta la storia».
«Un famoso critico d’arte del secolo scorso aveva elaborato un metodo per attribuire i quadri. Credeva che la personalità di un pittore si rivelasse soprattutto nei piccoli particolari fisici che sfuggono alla sua coscienza. Botticelli o Giorgione o Raffaello o Michelangelo dipingevano le orecchie, le sopracciglia e il dito mignolo del piede in modi completamente diversi tra loro. Esiste l’orecchio secondo Botticelli o secondo Giorgione o secondo Raffaello. Credo che si possa riconoscere un vero Tullio Pericoli dai piccoli particolari».
PIETRO CITATI
Se il suicidio è certamente il più violato fra i tabù – oggi più che mai, come testimoniano le cronache –, rimane nondimeno, nella percezione comune, lo scandalo supremo, il gesto inaccettabile. La giurisprudenza lo ha giudicato per molto tempo un reato; la religione lo considera peccato, aborrendolo più di ogni altra forma di uccisione e condannandolo come atto di ribellione e apostasia; la società lo rifiuta, tendendo a sottacerlo o a giustificarlo con la follia, quasi che il suicidio fosse l’aberrazione antisociale per eccellenza. E non si può dire che siano mancate riflessioni e analisi – da John Donne a Hume, da Voltaire a Schopenhauer, da Durkheim alla messe di studi psicologici e psichiatrici –, ma il problema, nella sua essenza, è rimasto intatto.
Nel 1964 James Hillman capovolge ogni prospettiva con questo libro. Un libro che, dichiara, «mette in discussione la prevenzione del suicidio; va a indagare l’esperienza della morte; accosta il problema del suicidio non dal punto di vista della vita, della società e della “salute mentale”, bensì in relazione alla morte e all’anima. Considera il suicidio non soltanto come una via di uscita dalla vita, ma anche come una via di ingresso nella morte … Questo punto di vista totalmente altro scaturisce dall’indagine del suicidio per come è esperito attraverso la visione che l’anima ha della morte». Perché nell’esperienza della morte, afferma Hillman, l’anima trova una rigenerazione, e dunque l’impulso suicida non va necessariamente concepito come una mossa contro la vita: potrebbe esprimere il bisogno imperioso di incontrare la realtà assoluta, la richiesta impellente di un’esistenza più piena.
Raccogliendo nel 1974 interventi apparsi nell'arco di circa un decennio, Elvio Fachinelli additava proprio negli scarti e nelle devianze di un «procedere asistematico» le ragioni della loro intima coerenza. Snodi decisivi della psicanalisi, e più in generale dei mutamenti della società contemporanea, vengono anzitutto affrontati attraverso chiose e commenti a testi di maestri quali Freud, Reich, Benjamin o a narrazioni di pazienti: il saggio di Freud sulla «negazione», ad esempio, consente a Fachinelli di rileggere con magistrale acutezza il «disagio della civiltà » e il rapporto tra «analità » e «denaro» (da cui il «bambino dalle uova d'oro» del titolo), mentre il referto clinicamente delirante di una paziente psicotica, Rose Thé, è sorprendentemente eletto a metafora dell'ambiguità dell'utopia sessantottesca, fondata su «intelaiature ideologiche» già obsolete all'atto di nascita. E anche laddove lo sguardo si appunta su temi disparati e in apparenza eccentrici - dai deficit delle politiche per l'infanzia all'identità dei «travestiti» e dei loro clienti, dal marxismo in Cina alla lettura in prospettiva freudiana dell'Otello di Shakespeare o della Lettera rubata di Poe -, sempre riaf fiorano e si impongono possibilità interpretative sorprendenti e interrogativi radicali sulla psicanalisi stessa.
Che cos’è Donguan? Una città, verrebbe da rispondere, se il termine non si applicasse solo per difetto a un enorme agglomerato di fabbriche, collegate da una rete di tangenziali che non contemplano il passaggio, o anche solo la presenza, di pedoni. Ma perché a Donguan arrivano ogni giorno, dalle sterminate campagne di tutto il paese, migliaia di ragazze? Qui la risposta è più semplice: intanto perché le braccia delle giovani donne sono le più ambite, nel mercato del lavoro cinese, e poi perché una ragazza, in un posto come Donguan, può realizzare il suo sogno, l’unico apparentemente concesso, in Cina, oggi: fare carriera. Certo le condizioni di partenza sono durissime: turni massacranti, paghe minime, il tempo che avanza al lavoro reinvestito nell’apprendimento coattivo di quei rudimenti di inglese senza il quale una carriera non può avere inizio. E come alternativa, una bella serata fra colleghe al karaoke aziendale. Ma le ragazze di Donguan – e in particolare le quattro che Leslie T. Chang, in questo suo magnifico e appassionante reportage, ha seguito per anni, un giorno dopo l’altro – sono disposte ad accettare tutto: un nomadismo incessante (per una fabbrica in cui si trova posto ce n’è sempre un’altra che offre condizioni migliori, e in cui bisogna trasferirsi il prima possibile); relazioni personali fuggevoli, ma irrinunciabili, non fosse altro che per le informazioni che ne possono derivare; e una vita interamente costruita intorno al possesso di un unico bene primario, il cellulare (perderlo, in un posto come Donguan, significa conoscere all’istante una solitudine quasi metafisica). Sembra l’anticipazione di un incubo futuribile, ed è invece solo una scheggia di un presente parallelo al nostro, e molto più vicino di quanto vorremmo sperare.
Quando Irène Némirovsky viene arrestata, nel luglio del 1942, la maggiore delle sue due figlie, Denise, ha tredici anni, ma è molto più infantile delle sue coetanee; la minore, Élisabeth, soltanto cinque. Tre mesi dopo anche il padre sarà deportato. Per le due bambine - vissute fino a quel giorno al riparo da ogni minaccia, da ogni bruttura grazie alla barriera di amorosa felicità domestica che i genitori avevano costruito loro attorno - cominciano gli anni atroci della fuga: braccate dalla polizia francese e dalla Gestapo, passano da un nascondiglio all'altro, spostandosi di notte, prendendo treni da cui bisogna saltare giù prima che entrino nelle stazioni per evitare i poliziotti e i loro cani, trovando rifugio in un convento di suore, in cantine umide, in sottoscala. Alla Liberazione, Denise ed Élisabeth si recheranno, insieme a molti altri, alla Gare de l'Est, dove assisteranno sgomente all'arrivo dei treni che riportano a casa quei fantasmi macilenti che sono i sopravvissuti dei campi: ma da quei treni non vedranno scendere né l'uno né l'altro dei genitori. Di loro resta soltanto la valigia che Michel Epstein ha affidato alla figlia maggiore raccomandandogliela come cosa preziosa appartenuta alla madre: la valigia dentro la quale, molti anni dopo (quando finalmente avrà il coraggio di aprirla), Denise troverà il manoscritto di Suite française, che ricopierà con straziata pietas filiale, per poi darlo alle stampe nel 2004. In questa lunga intervista Denise (che nel novembre 2009 ha compiuto ottant'anni, e che da più di un decennio ha perso la sorella) ripercorre, con la limpida chiarezza del suo spirito indomabile, ma anche con l'arguzia e l'ironia che le sono proprie, un'esistenza in cui le assenze hanno pesato più delle presenze, e la memoria (e la difesa della memoria stessa) ha svolto un ruolo determinante.