
Nel suo "Trattato di diritto ecclesiastico italiano" Pietro Agostino D'Avack afferma che "il problema dei rapporti tra ordine spirituale religioso e ordine temporale politico e delle relazioni conseguenti dello Stato con le confessioni religiose in genere e con la Chiesa cattolica in specie ha sempre costituito una di quelle questioni fondamentali nella storia e nella vita dell'umanità, che più sono state e continuano a essere considerate, analizzate e dibattute nella teologia, nella filosofia, nella sociologia, nella storia e nel diritto". V'è addirittura chi ritiene che forse la materia dei rapporti tra Stato e confessioni religiose "è stata la questione politica culminante nella storia dei popoli fino al punto in cui questa fu dominata dalla questione sociale". In effetti per secoli potere temporale e potere spirituale si sono combattuti nel reciproco tentativo di prevalere l'uno sull'altro o comunque allo scopo di affermare la rispettiva autonomia di fronte alle ingerenze altrui, sino a dar vita a vere e proprie guerre nei momenti di maggiore tensione.
Luglio 1936: in una Spagna nel caos, alcuni generali, tra cui Francisco Franco, mettono fine al debole governo del Fronte Popolare con un tentativo di colpo di stato che presto degenera in guerra civile. Nei lunghi e tragici anni della lotta per il potere, Franco potrà contare sull'aiuto delle altre nazioni già comandate da regimi totalitari: Italia e Germania. Ma se Hitler si limita a dare soltanto un aiuto in campo aeronautico, Mussolini stabilisce con il Caudillo un rapporto molto più stretto. La fornitura, proseguita per circa quattro anni, di materiale bellico italiano e la partecipazione militare del nostro paese. Terminata la guerra civile, Mussolini cercò di convincere Franco a scendere in campo nella seconda guerra mondiale, ma il dittatore spagnolo, pur favorendo italiani e tedeschi in alcuni campi respinse sempre con decisione ogni pressione volta a fargli dichiarare guerra alle potenze democratiche, e dette continue assicurazioni a queste ultime di non avere alcuna intenzione di abbandonare la sua posizione di neutrale.
Tra i gerarchi “fedelissimi del Duce” spicca la figura di Roberto Farinacci, il “ras di Cremona”, collaboratore del “Popolo d’Italia” e fondatore insieme a Mussolini dei Fasci italiani di combattimento. Ritenuto da molti “più fascista del Duce”, Farinacci divenne il rappresentante-simbolo del fascismo estremo e violento, quello con il manganello facile. Questa nuova biografia ripercorre con scrupolo e precisione le principali tappe della sua parabola umana e politica, dalle acrobazie giovanili fino alla morte avvenuta per fucilazione il 28 aprile 1945. Grazie a un rigoroso approccio alle fonti, Romano Canosa realizza un’opera ambiziosa e convincente, ma soprattutto evita l’errore più comune commesso da quasi tutti gli storici che si sono occupati di Farinacci: ridurre il preteso “uomo forte” del regime a una sorta di caricatura e attenuare, di conseguenza, le sue precise responsabilità nell’instaurazione, nel consolidamento e nelle scelte più gravi del regime fascista, prime fra tutte l’esaltazione e la pratica della violenza squadristica.
Il lemmario dell'enciclopedia è stato progettato in modo da documentare nella prospettiva più ampia possibile tutte le variegate componenti che contribuiscono a formare la macchina-cinema: registi, attori, sceneggiatori, costumisti e compositori; generi e correnti, critici e storici, case di produzione, festival, scuole, riviste e periodici; teorie, tecniche, linguaggi.
A partire dai segni più evidenti del cambiamento in atto (la perdita dell'egemonia dello sguardo nei processi di percezione sensibile, la rottura del legame ontologico tra immagine filmica e realtà, l'affermarsi sempre più marcato di un "regime di simulazione" nei modi di produzione del visivo), il volume studia la crisi della forma che investe tanto il cinema contemporaneo come un sintomo di lucidità ermeneutica e diagnostica, e individua nelle due grandi serie di "Alien" e "Batman" il territorio privilegiato per indagare la mutazione che sta cambiando in profondità non solo il cinema, ma anche la forma del mondo che lo produce e lo consuma.
Gianni Canova tocca uno dei nervi scoperti del dibattito culturale in Italia, senza sconti per nessuno dei soggetti coinvolti: L'Italia del XXI secolo è diventato un paese culturalmente anoressico: dopo il neorealismo dell'immediato dopo-guerra mancano riferimenti culturali riconosciuti a livello internazionale e un paesaggio di consumo culturale degno di un paese sviluppato. Mentre l'intellettuale progressista-elitarista si gongola tra i suoi idoli (denaro, mostre e popolarità), l'unica vera rivoluzione culturale del XX secolo sembra rimasta quella del cinema. La domanda di fondo del saggio rimane: è possibile rianimare o costruire una nuova democrazia culturale nel Belpaese?
Quando pensiamo alla famiglia, la prima immagine che ci viene in mente è, con buona probabilità, quella di due genitori e dei relativi figli. D'altronde, oggi il concetto di famiglia è talmente interiorizzato e condiviso che quasi mai si riflette sul suo reale significato e sul ruolo che gioca nella vita di ognuno di noi. C'è persino chi sostiene di non averne una, ignorando che famiglia si è, prima di tutto, con se stessi: tutti noi, che ci piaccia o no, siamo anche la somma delle storie di chi ci ha preceduto. Proprio di questo tratta Ameya Canovi nel suo nuovo libro, partendo dal presupposto che ogni nucleo familiare è come un albero: le radici, forti oppure fragili, lo nutrono e sostengono, e i rami crescono dando origine, in alcuni casi, a foglie e frutti, in altri restando «a maggese». Insieme a coloro che sono venuti prima, quest'albero forma una foresta che può essere prospera e rigogliosa o, al contrario, poco accogliente. Trovare il coraggio di prendere il proprio vissuto e addentrarsi in quel bosco alla scoperta delle tracce di chi ci ha preceduto non è facile. Spesso, però, è l'unico modo per conoscere davvero se stessi. È questo il viaggio in cui ci accompagna l'autrice: fra trattazione, ricordi personali, soste riflessive e testimonianze in cui ogni lettore può riconoscersi, dimostra come ricostruire la propria storia familiare sia fondamentale per scoprire le proprie eredità emotive, la presenza di traumi transgenerazionali, il modo in cui ci relazioniamo a noi stessi e agli altri. Tenendo a mente che, qualunque siano la nostra storia e le nostre radici, è sempre possibile prendersi cura delle ferite e trasformarle in risorse.
«Vittima com'è di una disperata follia di annientamento e di distruzione, Antigone non ama nessuno, così come non ama sé stessa: il suo solo e vero amore è la morte». In una rilettura controcorrente della più celebre figura tragica della classicità, Eva Cantarella smonta pezzo per pezzo le basi su cui si fonda il mito di Antigone. Per la sua determinazione a dare sepoltura al fratello Polinice, violando la legge cittadina per obbedire a una legge non scritta, Antigone ha rappresentato nei secoli il modello insuperato di chi si oppone a un regime tirannico, di chi reagisce di fronte ai diritti calpestati e negati, di ogni donna in lotta contro il potere maschile. Ma questa figura che sembra racchiudere in sé ogni virtù non corrisponde al personaggio cui Sofocle ha dedicato l'omonima tragedia oltre 2500 anni fa. Ed è esplorando la distanza tra mito e personaggio che Eva Cantarella mette in luce lati sorprendentemente negativi dell'eroina da tutti osannata e arriva a contestare il ruolo di despota attribuito a Creonte, protagonista di una drammatica vicenda umana e politica che lo rende una figura non meno interessante e non meno tragica. Proprio come in un'orazione, portando prove a sostegno della propria tesi e confutando gli argomenti di potenziali avversari, la più grande studiosa italiana di diritto greco traccia un profilo di Antigone spiazzante e inevitabilmente divisivo.
Gli Atridi, Saffo, Ulisse e Penelope, Achille, Elena, Antigone. Agamennone. Tutti i personaggi della storia, della letteratura e della mitologia greca tornano a parlare dei lettori. Un libro la cui origine è una trasmissione radiofonica, "Sex and the polis", dove Eva Cantarella si è divertita a fare quello che forse aveva sempre desiderato: raccontare attualizzando storie di uomini e di donne che continuano a somigliare ai lettori.
Quante volte leggiamo sui giornali che i disagi e i crimini tra le mura di casa derivano dalla crisi della famiglia, una crisi tutta moderna? Come se la famiglia fosse sempre stata un luogo di riparo, di protezione da una società ostile. Ma è davvero così? Dopo lo studio sul mondo greco di «Non sei più mio padre», Eva Cantarella ritorna sul tema centrale della famiglia e indaga le regole e la quotidianità della vita familiare nel mondo romano, per verificare attraverso le fonti l'ipotesi secondo la quale la famiglia infelice nascerebbe solo con la modernità. Con gli strumenti di studiosa del diritto e della storia antica ricostruisce costumi e abitudini delle famiglie romane, risalendo fino alle origini della civiltà che ha creato i fondamenti della nostra cultura giuridica. Dimostra così che, a partire dai Sette re di Roma, a metà dell'VIII secolo a.C., fino al VI secolo d.C. e alla stesura del Corpus iuris civilis di Giustiniano, il potere di vita e di morte dei padri sui figli è assoluto e l'uccisione del padre appartiene con impressionante frequenza alla realtà sociale di ogni famiglia romana. Cantarella si interroga sulla natura ansiogena e conflittuale dei rapporti tra padri e figli nell'antica Roma e, con una ricerca che guarda al passato per parlare del presente, mostra che le famiglie infelici non appartengono solo al nostro tempo. Da Cicerone a Ovidio, da Seneca a Giustiniano, racconta le norme che regolavano l'abbandono dei figli, la facoltà di venderli come schiavi o addirittura di ucciderli, evocando episodi di sconcertante violenza. Quella che svela è una storia tanto sconosciuta quanto decisiva per le nostre radici culturali, che ci spinge a riflettere sul carattere atavico e profondamente umano dello scontro tra le generazioni.
"L'amore. Cominciamo da qui, parliamo d'amore. Ma per farlo dobbiamo ricordare che anche i sentimenti hanno una storia. Tutto cambia nel tempo, persino questo sentimento che una retorica tanto facile quanto ingannevole ci spinge a considerare immutabile. Dimentichiamo allora la concezione romantica e cerchiamo di capire che cos'era l'amore per i greci, cerchiamo, addentrandoci in un mondo lontano, di cogliere i diversi volti di quell'amore. Innanzitutto, per i greci l'amore era un dio di nome Eros. Un dio armato, che con il proprio arco scoccava frecce spesso mortali. Chi ne veniva colpito non aveva scampo: si innamorava. Ma Eros non era solo sentimento, era anche desiderio sessuale...".