
Bella d’un fascino che ammaliava chi la incontrava, tanto colta e poliglotta da poter offrire una compagnia irresistibile a chi le parlava, estroversa coraggiosa intelligente e astuta, spregiudicata e saggia, scandalosa e disperata, fragile e spietata, maestra nei trucchi della seduzione, madre premurosa nella cura dei figli, pronta allo scherzo quanto alla guerra, allo stratagemma e al gioco, alla minaccia come alla promessa, così la presentano gli antichi: è Cleopatra, ultima Lagide sul trono d’Egitto, la regina “inimitabile”, la più grande del mondo antico. Il libro racconta la sua vita e soprattutto la storia dei ventuno anni che la impegnarono prima nella lotta per il potere contro gli intrighi di palazzo e quindi nei rapporti con la sua gente e i Romani, a difesa dell’indipendenza del suo regno e della gloria dei Tolomei, nel gioco d’amore e guerra che la fece, unica donna in un mondo di uomini, protagonista del suo tempo.
Letterato curioso, sempre alla ricerca del nuovo, Giovanni Boccaccio «nel corso della sua vita è stato attratto dai più disparati ambiti del sapere e, come scrittore, ha sperimentato un gran numero di generi letterari; è stato uomo di corte, mercante, amministratore del Comune; si è adoperato a diffondere la letteratura in volgare ed è stato parte attiva di elitari circoli umanistici. A tanta apertura e disponibilità si accompagna una straordinaria capacità di recepire, assorbire, introiettare: anche grazie a questa disposizione innata è diventato il più polivalente e sperimentale scrittore del suo secolo». Un genio multiforme dietro al quale, tuttavia, si cela un'inaspettata fragilità, come uomo e letterato: «Boccaccio accoglie, ma anche si adegua; si modella sugli ambienti circostanti, ridisegna il suo profilo intellettuale sulle aspettative altrui, o almeno, su quelle che lui ritiene tali». Dopo i volumi dedicati a Dante e Petrarca, Marco Santagata torna a parlare dell'ultima delle tre corone fiorentine. All'analisi critica delle singole opere, Santagata predilige un discorso unitario che tiene insieme storia politica e sociale, panorama culturale e biografia. Dall'infanzia tra Certaldo e Firenze al trasferimento a Napoli, dagli studi di diritto alla nascita del romanziere, dall'incontro con Petrarca e l'umanesimo fino alla vecchiaia, il racconto delle vicende biografiche di Boccaccio e insieme della sua carriera di scrittore e di intellettuale.
Il risorgimento fu l'aspirazione di un popolo intero – in tutte le sue diverse componenti – verso l'unità, e quell'anelito fu alimentato prevalentemente dalle giovani generazioni. Le Cinque giornate di Milano, la rivolta di Palermo, la rivitalizzazione dell'esperimento di fine Settecento della Repubblica romana e la strenua difesa della risorta Repubblica di San Marco, furono i momenti storici che cementarono definitivamente il connubio tra popolo italiano e l'idea di patria. Si trovarono a combattere fianco a fianco esponenti dei ceti professionali, artigiani, popolani, artisti, rampolli della nobiltà e tante donne, che per la prima volta presero parte attiva a una rivoluzione. Accanto ai nomi più celebri, come Mazzini, Cavour e Garibaldi con la moglie Anita, c'è un universo di storie di uomini e donne che hanno contribuito ad alimentare il sogno di un'Italia unita, arrivando spesso a sacrificare la propria vita. In nome di un ideale che ha cambiato il destino del nostro Paese.
Una volta, si dice, Oscar Wilde rifiutò un medicinale per via del suo colore «marrone sporco»: per convincerlo a curarsi, il farmacista dovette sostituirlo con un flacone di bellissimo liquido «rosso-rosa» e pastiglie che «splendevano come l'oro». Un'altra volta, agli amici preoccupati per il suo pallore mattutino rivelò, esausto: «Il fatto è che ieri ho colto una primula in giardino, dopo stava così male che ho dovuto passare la notte sveglio al suo capezzale». Il più classico dei problemi per un biografo è trovarsi con poco materiale di partenza. Ma esiste un altro, speculare problema: averne fin troppo. Così è per Wilde, di cui già in vita si moltiplicavano aneddoti, battute, aforismi, fanfaronate, miti e leggende: riverberavano dalle colonne dei giornali al cicaleccio dei circoli letterari, si amplificavano di bocca in bocca in una gara a chi la sparava più grossa, gara che spesso era vinta da Oscar stesso, suo primo mitologo e ufficio stampa, creatore del personaggio che si trovava a impersonare ogni giorno, fino a restarne forse imprigionato. Un paradosso? Certo, ma per chi aveva eletto il paradosso a stile e l'ironia ad arma non restava che vivere una vita all'altezza: genio della commedia, si ostinava a scrivere tragedie; dandy di natali aristocratici, si dichiarava a favore di un individualismo "socialista"; dissacratore di ogni autorità e norma morale, si appellò alla legge per proteggere la relazione con Lord Alfred Douglas, dando così inizio al processo che avrebbe decretato la sua rovina; mattatore dei più eleganti salotti, precursore del futuro culto della celebrità, morì solo e dimenticato - al funerale si presentò appena una manciata di persone. A lungo i biografi sono rimasti vittima di questo incantesimo: non riuscendo a districare in lui la vita dall'opera, anche perché in un'opera d'arte suprema aveva trasformato la vita stessa, hanno schiacciato l'una sull'altra, confondendo i piani e faticando a restituirci la verità dei fatti. Riportando alla luce nuovi documenti, tra lettere inedite e atti del processo, Matthew Sturgis penetra nella complessità romanzesca del tardo Ottocento attraverso una delle sue personalità più geniali e discusse.
Giorgio Fuà ha visto la propria vita intrecciarsi con alcuni tra i fatti e i processi più importanti del Novecento. Il secondo conflitto mondiale, la Shoah, la Guerra fredda, il «miracolo economico », la crisi del sistema fordista, il crollo del modello sovietico e l’erompere della globalizzazione hanno costituito lo sfondo di un’esistenza che lo ha condotto a collaborare, assumendo ruoli di grande responsabilità, con uomini come Adriano Olivetti, Ernesto Rossi, Gunnar Myrdal ed Enrico Mattei. Anche grazie a queste esperienze, Fuà ha tratteggiato e sostenuto il profilo dell’«economista utile», uno scienziato sociale cioè che all’accurata analisi della realtà è chiamato ad aggiungere proposte per la soluzione dei problemi indagati.
Un maestro siciliano, di solida fede fascista, va a insegnare nella scuola di un paesino sloveno vicino a Gorizia, annesso all'Italia dopo la carneficina della Grande guerra. Ha una giovane moglie, cinque figli e un sesto in arrivo. È uno dei molti convocati a realizzare la «bonifica etnica», l'italianizzazione forzata di una minoranza renitente. Una sera, all'inizio dell'anno scolastico del 1930, il maestro Sottosanti viene ucciso in un agguato. L'Italia fascista commemora il suo martire. Ma da oltre confine si accusa: infieriva contro i bambini, sputava in bocca a chi si lasciasse sfuggire una parola nella sua lingua madre, lo sloveno. Ed era tisico. Il rumore si spegne presto. Le autorità fasciste sanno che i maltrattamenti raccapriccianti avvenivano davvero, ma l'autore era un altro, il più vicino all'ucciso. I militanti antifascisti sloveni si accorgono di aver commesso un incredibile scambio di persona. Adriano Sofri ha ricostruito questa cronaca del 1930, cui lo legano imprevisti fili personali, andando su e giù dai confini. Niente è bello come un confine abolito. Soprattutto quando c'è chi lo rimpiange, e investe in fili spinati.
Margherita di Savoia, una donna che ha lasciato una traccia nella nostra storia: si pensi al termine Margheritismo coniato per definire il movimento culturale-sociale-artistico fiorito attorno alla sua corte o alla prima rivista di moda che si chiamò "Margherita" in suo onore. Regolo, già autore di due biografie su Elena e Maria José, le altre due regine d'Italia, conclude così un ciclo, portando a galla scritti e testimonianze su Margherita che, come scrive la principessa Maria Gabriella di Savoia nell'introduzione, persino tra i discendenti erano sconosciute. Dal rapporto difficile col patrigno, Rapallo, che sposò segretamente la madre Elisabetta di Sassonia, alle nozze combinate con il cugino Umberto I, col quale costruì un'alleanza «professionale» ma mai un rapporto coniugale. Anche col figlio Vittorio Emanuele Margherita alterna slanci e ansie materne a rigore e freddezza estremi dovuti anche al senso di colpa che le provocava l'aspetto dell'erede, di poco superiore al metro e mezzo d'altezza. Lettere inedite ricostruiscono il rapporto con il barone Peccoz, forse l'unico suo vero amore, seppure Margherita non sacrificò mai a esso il «culto» per la missione dinastica. Fu artefice instancabile di disgelo tra i Savoia e la Chiesa dopo la Presa di Porta Pia, ma anche cultrice del latino, musa di poeti come Carducci, referente privilegiata di altri reali, non ultimo il consuocero Nicola del Montenegro che se ne invaghì, capace di ammaliare persino Garibaldi. Le ricevute degli acquisti svelano una smania compulsiva per lo shopping, ma anche il suo perfezionismo, dai dettagl
Bruno Varacalli è un giovane poliziotto, appassionato del suo lavoro. Non ha mai cercato la notorietà ma Ia sua storia sta facendo il giro del mondo.
Un terribile incidente in moto gli ha cambiato Ia vita: ha perso una gamba, ha rischiato di morire e di dover rinunciare alle cose che amava, prima di tutto la divisa, conquistata a denti stretti. Ma non si è arreso. Con grande coraggio e determinazione ha imparato a camminare e a correre con una gamba bionica ed è tornato in Polizia.
"Non rinunciate ai vostri sogni, ai vostri progetti, perché se abbiamo una seconda possibilità non dobbiamo sprecarla piangendoci addosso, la vita deve andare avanti", scrive ai giovani e ai tantissimi follower che Io seguono sui social.
Il 3 ottobre del 1996 l’Accademia di Svezia comunica a Wislawa Szymborska che le è stato assegnato il premio Nobel. Da quel momento, lei così schiva, è costantemente sollecitata: arrivano lettere, telegrammi, manoscritti, richieste e proposte spesso del tutto incongrue. Il telefono squilla anche di notte. Si impone il supporto di un segretario. Quando Michal Rusinek, neolaureato ventiquattrenne, si presenta in casa sua, la trova sgomenta. «Allora» racconta «chiesi cortesemente un paio di forbici e tagliai il cavo. Il telefono smise di squillare. La Szymborska esclamò: “Geniale!”. E fu così che venni assunto». Le resterà accanto per più di quindici anni. In questo libro – basato su ricordi di prima mano – Rusinek getta un fascio di luce su aspetti della grande poetessa rimasti finora in ombra: le sue a volte stravaganti passioni (per i limerick e per il Kentucky Fried Chicken, per Vermeer e per gli oggetti kitsch, per Woody Allen e per Il Circolo Pickwick – e soprattutto per le sigarette); il suo bisogno di solitudine; il modo in cui nascevano le sue poesie («Sosteneva che l’utensile più importante nella casa di un poeta fosse il cestino della cartastraccia») e quello in cui creava i suoi collage; i suoi (complessi) rapporti con l’altro grande premio Nobel polacco, Czeslaw Milosz; i rituali della scrittura e quelli che precedevano qualunque spostamento. Ma inanella anche decine di aneddoti esilaranti, di battute fulminanti e di osservazioni acuminate, in cui ritroviamo l’esprit settecentesco, la sottile ironia e la capacità di stupirsi di una delle poetesse più fervidamente amate dai lettori di tutto il mondo.
"Incontrando Alessandro e Beatrice per la prima volta, ho visto due persone in difficoltà, che tentavano di parare, per quanto era possibile, i colpi che la vita stava loro dando. Sui loro visi ho letto insicurezza, ho visto sofferenza, ho percepito la richiesta di felicità, ho visto la delusione di non essere compresi fino in fondo, ho visto un uomo e una donna ammirati da molti per la loro bravura e per la loro bellezza, ma che non avevano consapevolezza piena di un bene e di una bellezza molto più grandi che erano dentro di loro e che dovevano solo essere tirati fuori. Un bene e una bellezza che Dio vedeva perfettamente e che Lui, allora, mi fece solo intuire. Ma giorno dopo giorno, passo dopo passo, Dio ha reso Alessandro e Beatrice capaci di pazienza, di umiltà e di saper donare se stessi. Li ha forgiati, plasmandoli, è riuscito a tirare fuori la bellezza nascosta (non ai Suoi occhi) che era in loro. Dio li ha resi capaci di accoglienza, ha dato loro il coraggio di aprire le porte della loro casa, ma soprattutto del loro cuore, a molti fratelli. Spero che in tanti, leggendo queste pagine, possano sentire il desiderio di lasciarsi prendere il cuore e la vita dall'amore di Dio e, ne sono sicuro, chi avrà questo coraggio vedrà anche per la sua vita una storia meravigliosa, degna, come quella di Alessandro e Beatrice, di essere raccontata."
Per Federico Vespa, classe 1979, la vita sembra in discesa: il padre è un celebre giornalista, la madre un importante magistrato. Cresce nella Roma bene, Federico, ma ha una sensibilità particolare. Vive con disagio l'euforia spensierata degli anni '80 e '90: a ben guardare, non è tanto meglio del fervore e della violenza degli Anni di Piombo. Sente sulla pelle le derive del consumismo sfrenato, delle relazioni facili ed effimere, del precariato lavorativo e umano, dell'antipolitica che sfocia poi nel populismo. Da esponente dell'ultima generazione analogica partecipa con sgomento, più che curiosità, all'avvento di Internet e dei social. Mentre l'Italia cambia, declina e implode, Federico scopre i tormenti e le incostanze dell'amore, muove qualche passo in politica, segue il calcio con trasporto, inizia con buon successo la carriera di giornalista radiofonico. Ma c'è un buco nero, un nodo in gola, un senso di vuoto. Il male oscuro della depressione. I farmaci. Le incomprensioni con la famiglia. La sensazione che niente conti davvero, che niente possa distoglierlo dal suo torpore affettivo. L'appuntamento fisso con il bourbon, perché il demone dell'alcol «costa meno dell'analista». "L'anima del maiale" è un autoritratto senza reticenze e senza imbarazzi, sul cui sfondo possiamo leggere il paradossale disagio di una generazione intera, ingannata proprio da quei privilegi che avrebbero dovuto renderla felice. Non c'è una morale, nella storia personale di Federico Vespa. O forse c'è: a volte il disincanto e la chiusura in se stessi sono l'unico antidoto a una società vuota e isterica, che ha perso ogni punto di riferimento.
Raramente un protagonista delle scene e chi ne narra la vicenda trovano un'intesa creativa e profonda come è capitato nella stesura di questo libro a Simone Cristicchi e a Massimo Orlandi: quest'ultimo ha raccolto confidenze, interpretato suggestioni e riportato dialoghi, rielaborando e riproponendo a sua volta, con personalissima creatività, la ricchezza di un percorso già originale. Personaggio che avrebbe potuto adagiarsi su una carriera che la sua genialità artistica gli permetteva in vari ambiti (dal disegno, alla musica, al teatro), il vincitore del Festival di Sanremo 2009 si è rimesso invece continuamente in gioco, sia nella vita che sul palco: spesso a fianco degli ultimi (siano essi i "matti" presso i quali ha anche prestato servizio, siano i minatori che riunisce in un coro costruendo una performance che gira l'Italia con un successo inatteso, siano i profeti incompresi come David Lazzaretti), Cristicchi rimane un uomo inquieto, in ricerca. Il suo approdo presso la Fraternità di Romena e altre realtà spirituali lo fa riflettere anche sulla questione più intima, e riannoda il suo percorso spirituale di cui la canzone presentata a Sanremo 2019 (che dà il titolo a questo libro) offre una sintesi formidabile. Questo libro racconta, emoziona, dibatte, provoca, e invita i lettori e i fan dell'autore di "Ti regalerò una rosa" a non dare nulla per scontato e a continuare a camminare: poiché «la vita è fragile» e siamo «in equilibrio sulla parola "insieme"». Un cammino umano e spirituale alla ricerca dell'essenziale da condividere nel terribile e meraviglioso quotidiano della vita.