
Per il catechismo significa soprattutto non nominare il nome di Dio senza rispetto e non bestemmiare. In realtà, nella sua formulazione più autentica, il comandamento biblico vieta di servirsi del nome del Signore per coprire ogni forma di ingiustizia: dal giurare il falso alle giustificazioni dell'oppressione, alle guerre sedicenti giuste. In un non lontano passato gli Stati moderni hanno definito giuste le loro guerre trovandone la legittimazione anche in simboli religiosi; e ancor oggi, in età globale, il connubio tra Dio e violenza resta più che mai all'ordine del giorno. Il nome di Dio continua perciò a dirsi in molti modi carichi di ambiguità, mentre la sua santificazione - prospettata nel "Padre Nostro" - dovrebbe essere uno spazio di libertà e rifrangersi nella costruzione di relazioni umane pacificate.
Che senso ha quel giuramento che ancora si fa pronunciare al testimone prima di essere interrogato dal giudice? Un comandamento che appare "nano" al cospetto degli altri, poiché sembra ruotare solo intorno all'asse giudiziario, ma la sua portata assume un'estensione ben superiore: esso attraversa la vita di tutti, chiama in causa la moralità del singolo, la difficoltà delle sue scelte e l'eticità delle norme collettive. Essere testimone della verità davanti a Dio, davanti all'altro, e in ogni circostanza, significa scegliere un comportamento che non rechi danno al prossimo. Un comando che lascia aperti tutti i quesiti riguardanti la fonte della verità e delle norme, rivelando i rapporti sempre problematici tra etica e diritto.
È il "comandamento nuovo" che umanizza e dà un significato universale a tutti gli altri che, se assunti nella loro pienezza, convergono verso questo appello unitario. Esso esprime la rottura più importante compiuta da Gesù rispetto al giudaismo: la logica della religione dei Padri si apre a una dimensione "altra", segnando il passaggio dalla Legge mosaica alla legge dell'Amore, come presenza di Dio nella storia umana. Non è legge della Ragione, ma verità che appartiene alla condizione di ogni singolo. Ma a chi mi faccio prossimo? È possibile oltrepassare la solitudine del singolo per aprirsi all'altro? È possibile uscire da se stessi e riconoscere l'altro? Un comandamento difficile e quasi sempre smentito: si può non praticarlo, ma non si può negarlo e non riconoscere che ha cambiato alla radice la storia dell'uomo.
Nel Vangelo di Luca si narra di Lazzaro, un povero mendicante affamato e piagato alla porta di un ricco gaudente. La parabola ebbe grande fortuna nell'Italia e nell'Europa fra tardomedioevo e prima età moderna, grazie ai predicatori che ne fecero il loro cavallo di battaglia. Seguirne le metamorfosi - come fa questa documentata ricerca - significa pertanto approfondire i modi in cui una articolata comunicazione religiosa rappresentava la società del tempo, attraverso una serie di tematiche come le vesti, i segni del lusso, le regole della carità e la sfuggente identità del povero, la tensione fra ricchezza mondana e destino eterno, le strategie per coniugare denaro e salvezza, l'immaginario dell'aldilà.
In un'epoca in cui la religione è tornata a influire fortemente sulle scelte morali e politiche, è possibile pensare a un sentimento religioso staccato dalla fede in questo o quel dio? Diversamente da quanto predicano fedeli dottrinari e atei zelanti, siamo tutti credenti, se credere significa coltivare l'ansia e la meraviglia della scoperta. Per Dworkin, come per Einstein, nella religione si esprime infatti il senso del mistero, del bello e del sublime che ci pervade di fronte all'universo. Né riscossa dogmatica né intransigenza razionalistica: ciò che queste pagine contengono è un'idea di divino come dimensione della ricerca umana, e come senso di infinito che trae nutrimento dalla conoscenza. Presentazione di Salvatore Veca.
L'universo dei legami d'amore appare oggi frammentato e sotto pressione. Alcuni rivendicano un accesso al matrimonio fin qui negato, altri aspirano a un'istituzione meno rigida, dimenticando che la secolarizzazione ha ereditato il matrimonio dal concilio di Trento, con tutti i limiti e le contraddizioni che esso aveva: un matrimonio-contratto ordinato a fini che prescindevano dall'amore. È possibile pensare il matrimonio fuori da questa logica, assumendo le fragilità dell'amore e della vita? La storia e l'esperienza cristiana che ruolo vi giocano?
La figura della Vergine col suo bambino ha svolto un ruolo straordinario nella civiltà europea. Attraverso questa immagine, che assume forme diversissime, che è chiamata e invocata con nomi anche contrastanti, questa civiltà non ha pensato soltanto il proprio rapporto col divino, la relazione di Dio con la storia umana, ma l'essenza stessa di Dio. Perché Dio è generato da una donna? Pensare quella Donna costituisce una via necessaria per cogliere quell'essenza. E le grandi icone di quella Donna, come la Madonna Poldi Pezzoli del Mantegna, non sono illustrazioni di idee già in sé definite, bensì tracce del nostro procedere verso il problema che la sua presenza incarna.
Potrà mai risorgere quel piccolo Cristo smarrito, che Bruegel nasconde tra la folla, ignorato e affondato nell’indifferenza degli uomini? Qui la croce non sembra aprire il movimento della storia, ma piuttosto precipitare nella lunga notte del mondo. Con Rembrandt, nell’atmosfera sfibrata della «Cena in Emmaus», anche l’evento della resurrezione si stempera: il risorto, seduto al tavolo dei viandanti, viene risucchiato indietro dalle tenebre verso un’esile luce. La sparizione del Cristo, l’assenza di ogni Dio su questa terra sono forse segni con cui oggi dobbiamo confrontarci.
Gabriella Caramore è autrice della trasmissione di cultura religiosa di Rai Radio 3 «Uomini e Profeti». Per il Mulino ha pubblicato «Pazienza» (2014).
Maurizio Ciampa, saggista, ha pubblicato tra l’altro «L’epoca tremenda. Voci dal Gulag delle Solovki» (Morcelliana, 2010). Sono autori di «La vita non è il male» (Salani, 2016).
«Siamo tutti imbarcati», dirà Pascal. Dove? Sulla Nave dei folli, risponde Hieronymus Bosch. A inseguire vanità delle vanità, dominati dalla «maledetta lupa» dell’invidia e dell’avarizia. Ci salveremo dalla perdizione e dal naufragio? Sarà la misura dell’ironia e la ragionevole fede dell’umanista Erasmo a offrirci una speranza? O soltanto la follia della fede nel Cristo deriso e crocefisso potrà riscattarci? Ma negli inverni e nei sinistri carnevali di Bruegel il Vecchio regnano unicamente la violenza e la lotta per sopravvivere, in un gioco tremendo e crudele che nessuno ormai ha la forza di trascendere.
Nel giugno 1970 un quartetto di teologi incaricati dal patriarcato di Costantinopoli e dal papa di Roma completava la stesura di un rapporto sulla possibile concelebrazione eucaristica fra Athenagoras e Paolo VI. Quella liturgia era l'atto che avrebbe trasformato la levata delle scomuniche fra Roma e Costantinopoli, sancita negli ultimi giorni del concilio Vaticano II, in una comunione piena ed effettiva. L'argomento offerto al termine di una lunga serie di contatti - che videro attivi padre Duprey, monsignor Willebrands, il metropolita Meliton e i due stessi titolari dei troni di Pietro e di Andrea - era lineare: se fra le due chiese non c'è sufficiente unità di fede, allora la condivisione del calice sarebbe un atto spericolato, ma se fra le due chiese c'è unità di fede, allora non comunicare alla stessa mensa sarebbe un peccato. Quell'atto, che il vecchio patriarca Athenagoras sognava, sarebbe sfumato: cautele, timori, contraccolpi ne fecero sospendere la preparazione; e alla fine, con la sua morte, tutto svanì, lasciando traccia solo in una serie di documenti della fine degli anni Sessanta, inediti nella loro interezza e poco compresi nella loro portata: emergendo dal chiuso degli archivi illuminano il momento drammatico in cui per i capi delle chiese il sogno trainante dell'unità visibile è diventato il pezzo di una diplomazia religiosa.
Quando, nel giugno 1960, Giovanni XXIII nominò il cardinale Augustin Bea a capo del Segretariato per l'unità dei cristiani, molti, come il domenicano Yves Congar, restarono sbalorditi da quella che ritenevano una singolare scelta. Cosa aveva a che fare un porporato settantanovenne, esegeta conservatore tra i più fidati collaboratori di Pio XII e suo confessore personale, con la primavera ecumenica che dal Vaticano II, e proprio da quel Segretariato, ci si attendeva? Eppure il gesuita tedesco si sarebbe in breve tempo rivelato uno dei protagonisti più autorevoli del rinnovamento conciliare e tra gli interpreti più fedeli dell'eredità roncalliana. Cosa si cela dunque dietro quella che agli occhi di molti apparve come un'improvvisa conversione? Proprio tale interrogativo, che la storiografia ha indicato come "l'enigma Bea", è al centro dell'indagine del volume, che, sulla base della documentazione degli archivi privati (tra cui l'inedito carteggio con il vescovo di Paderborn Lorenz Jaeger pubblicato integralmente in appendice), ricostruisce l'attività del gesuita nel decennio precedente al concilio, quando, dal 1949, era consultore del Sant'Uffizio. Quello che emerge è un originale profilo del futuro cardinale, divenuto progressivamente avvocato e intercessore dell'ecumenismo cattolico, in particolare tedesco, durante l'ultimo periodo del pontificato pacelliano. Fu proprio in quegli "anni di pazienza" che Augustin Bea maturò gradualmente le competenze e i contatti in ambito ecumenico che nel 1960 lo avrebbero reso tra i più stimati collaboratori di Giovanni XXIII e paladino di quell'ecumenismo destinato a rivoluzionare la chiesa cattolica durante il Vaticano II.
Luigi Sturzo (Caltagirone 1871-Roma 1959) fu politico di elevata statura morale e intellettuale animato da forte passione civile, oltre che esemplare personalità spirituale. In questo volume è studiata la prima espressione concreta del suo impegno politico, vale a dire il programma municipale col quale, all'inizio del Novecento, egli intendeva riportare i cattolici a essere fattivamente presenti in seno alla società. Per questo, a Caltanissetta, tra il 5 e il 7 novembre 1902, radunò i consiglieri comunali e provinciali che erano stati eletti in liste civiche d'ispirazione cattolica, guardando già a un partito municipale capace di garantire un'efficace rappresentanza degli ideali sociali di matrice cristiana negli enti locali. Di fatto, in quell'occasione, sorse l'embrione di quello che sarebbe stato poi il Partito Popolare Italiano.