
Alla sincerità come franchezza e veridicità la riflessione morale, da Aristotele a Sant’Agostino, da Montaigne a Rousseau e Kant, fino ai contemporanei, ha dedicato pagine fra le più notevoli del canone filosofico. Eppure, la sincerità non nomina il nostro rapporto con la verità se non attraverso la relazione che intratteniamo con gli altri e soprattutto con noi stessi. Nel mondo della vita la sincerità appare modulata in formule e frasi fatte, adattata alla diversità delle situazioni, dei toni e dei gesti. La sincerità è pretesa dagli amanti, giurata nei tribunali, temuta dai traditori, fuggita dai bugiardi e dagli ipocriti, ma anche evocata sia per ingannare meglio sia per testimoniare, se necessario contro tutto e tutti, la dignità del vero e di chi eroicamente gli si affida. Così la sincerità spalanca innanzi ai nostri occhi l’immenso teatro sociale dei ruoli e delle interazioni come spazio simbolico in cui gli individui sono impegnati a costruirsi, cercando la misura della propria autenticità.
L'autore
Andrea Tagliapietra insegna Storia delle idee, Storia della filosofia moderna e contemporanea ed Ermeneutica filosofica presso la facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Tra le sue opere più recenti Il dono del filosofo. Sul gesto originario della filosofia (Einaudi, Torino 2009) e Icone della fine. Immagini apocalittiche, filmografi e, miti (il Mulino, Bologna 2010).
Il tema del Simposio è un banchetto in casa del tragediografo ateniese Agatone in cui politici, filosofi e intellettuali parlano di Eros. È il medico Erissimaco che propone l'argomento, sostenendo che Eros, dio dell'amore, nonostante sia fra i più antichi e i più importanti, venga trascurato dai poeti. Poiché ognuno esprimerà il proprio pensiero, il tema verrà sviscerato a tutto tondo: come dio, come sentimento e come mito. Socrate sarà l'ultimo a prendere la parola rivelando, attraverso i misteri svelatigli dalla sacerdotessa Diotima, l'essenza dell'amore: una forza che spinge l'essere umano ad andare oltre il mondo sensibile per arrivare a quello intelligibile, al mondo delle idee.
La simpatia è un tema che ricorre frequentemente nelle conversazioni quotidiane ed è al centro di molte narrazioni letterarie e cinematografiche. L’autore muove dall’uso comune del termine per delineare il modo in cui la natura della simpatia e il suo ruolo nella vita umana sono stati interpretati dalla riflessione scientifica e filosofica. Dalle differenti caratterizzazioni qui esposte emerge un significato della simpatia sia come principio che consente una partecipazione affettiva immediata tra le persone sia come capacità che rende vive le emozioni altrui in vista di una presa di posizione etica. Le pagine del volume documentano come una ricostruzione di questo genere rappresenti una sorta di filo rosso che, dagli illuministi Hume e Smith e poi attraverso la teoria evoluzionistica di Darwin, arriva alle acquisizioni recenti dell'etologia, della psicologia sociale e delle neuroscienze. La consapevolezza della natura della simpatia permette di spiegare in termini naturalistici dimensioni centrali della condotta umana, come l'etica, il diritto e la politica.
L'autore
Eugenio Lecaldano, professore emerito presso il dipartimento di Filosofia dell'Università di Roma "La Sapienza", ha insegnato anche all'Università di Siena. Tra le sue pubblicazioni più recenti, Un'etica senza Dio (Roma-Bari 2006) e Prima lezione di filosofia morale (Roma-Bari 2010). Fa parte del comitato direttivo di Bioetica e Rivista di filosofia.
L'umanizzazione del lavoro, che è il grande tema dell'età moderna, si è riproposto nel mondo globale di oggi, caratterizzato dalle nuove schiavitù. Se ne è occupata soprattutto Simone Weil, filosofa, mistica francese, militante sindacale e politica, che alla riflessione sul suo lavoro ha affiancato l'esperienza personale di una non trascorso in fabbrica. Entrando in contatto con il lavoro sventura, inteso come oppressione che rende muto il pensare, la ricerca di Simone Weil è volta al possibile riscatto dei lavoratori dallo sradicamento.
Il pensiero di Simone Weil, una delle voci più significative del '900, ha conosciuto in questi ultimi anni una rinnovata fortuna. Sebbene l'opera della filosofa, mistica e scrittrice francese sia stata oggetto di numerosi studi che l'hanno analizzata da diverse prospettive, alcuni aspetti della sua riflessione sono stati trascurati dalla critica e restano terreno fertile di analisi, come nel caso del rapporto tra la Weil e lo gnosticismo. All'interno di un tema tanto ampio, come può sembrare quello del rapporto di un filosofo con un orientamento del pensiero articolato com'è stato lo gnosticismo, si è scelto di focalizzare gli sforzi nel tentativo di far emergere quell'idea di Dio elaborata dalla Weil, che fu una pensatrice fortemente attratta dalla deriva gnostica; il Dio weiliano, infatti, non è più onnipotente, bensì assente, un Creatore che si è ritirato dal mondo, un Dio che vogliamo provocatoriamente definire "gnostico", trascendente, perché, come sostiene la filosofa francese, l'atto di creazione non va inteso come un atto di potenza, ma di abdicazione, nel quale Dio, avendo rinunciato ad essere re del mondo, vi ritorna come "mendicante".
DESCRIZIONE: Apparso nel 1959, questo saggio segna la svolta in Ricoeur dalla fenomenologia all’ermeneutica e rappresenta la cellula originaria di Finitudine e colpa, l'opera che consacrerà Ricoeur tra i maestri della filosofia contemporanea. Una svolta che avveniva attraverso il confronto con la fenomenologia della religione di Mircea Eliade, la psicoanalisi di Freud e Jung, gli studi sull'immaginazione poetica di Gaston Bachelard e la teologia della demitolo-gizzazione di Bultmann. Il risultato è un'ermeneutica che, da un lato, giustifica il simbolo - sia esso religioso o culturale - in quanto "fonte non filosofica" della filosofia, dall'altro mostra come i simboli - i nomi dal senso molteplice attraverso i quali gli uomini hanno tentato di decifrare gli enigmi della vita - siano a pieno diritto cosa stessa del pensiero.
Un'ermeneutica oggi più che mai attuale, in un tempo dove il ritorno del sacro e dei suoi simboli assume il volto violento degli idoli: «non avremo mai finito di distruggere gli idoli, al fine di lasciare parlare i simboli».
COMMENTO: La seconda edizione del celebre testo-manifesto di Ricoeur sull'ermeneutica: il simbolo come testo che interroga la religione, la filosofia, la letteratura.
Nel 1939 Alexandre Kojève portò a termine quelle lezioni sulla "Fenomenologia dello spirito", che iniziate nel 1938, lo imposero come uno dei più importanti interpreti di Hegel di tutto il Novecento. Da allora sparì dalla scena filosofica, quasi mettendo in atto l'estrema conseguenza dell'idea che la storia fosse finita. In realtà Kojève continuò la sua attività in forma semiclandestina, un'attività di cui questo libro vorrebbe mostrare anche gli aspetti più eccentrici accostando al dibattito con Leo Strauss le lettere allo zio Kandinskij, alla ricostruzione dei rapporti fra cristianesimo e scienza uno scritto su Raymond Queneau. Gli scritti raccolti restituiscono un'idea meno approssimativa dei molteplici e sfaccettati interessi del filosofo.
Un libro costruito intorno alla parola "silenzio" e ai mille preziosi modi in cui questa dimensione incrocia l'esperienza di ciascuno. Un libro per riscoprire il silenzio e imparare a praticarlo, per ritrovare un ascolto profondo e una parola vera sul mondo e sulla nostra vita.
L'esigenza di attribuire un significato ultimo all'incessante scorrere degli eventi ha condotto il pensiero moderno a individuare nella storia un progresso, uno sviluppo che potesse giustificarne ogni crisi, ogni male e ogni inevitabile dolore. Eppure, molto prima del metodo storiografico di Voltaire o della grande filosofia dello spirito di Hegel, gli storici dell'età classica Erodoto, Tucidide e Polibio avevano già rinunciato a questa monumentale prospettiva. Per il pensiero classico, infatti, le gesta degli uomini seguono il corso dell'eterna ciclicità del cosmo; non il corso della rivoluzione sociale, ma della rivoluzione immutabile degli astri. Fra queste due visioni antitetiche della storia si colloca, secondo Karl Löwith, la prospettiva giudaico-cristiana, che opera una rottura fondamentale: tanto per il credente quanto per il filosofo della storia, il senso degli eventi non è racchiuso nel passato, ma in un futuro escatologico sempre a venire, capace di determinare ogni fatto alla luce di una storia della salvezza, al cui termine è attesa la redenzione. Ma se il primo è in grado di portare la croce, il secondo secolarizza la speranza religiosa nell'incondizionata fede nel progresso, tanto "cristiana nella sua origine" quanto "anti-cristiana nelle sue conseguenze".

