
L'autore ripercorre la storia millenaria del concetto di "Uguaglianza", una storia che si svolge tra luminose speranze e contraddizioni cocenti. Nel mondo antico l'uguaglianza è limitata dalla differenza gerarchica, fino al paradosso di Atene, culla della democrazia europea e, insieme, luogo di schiavitù. Più tardi, proprio dall'uguaglianza la cultura cristiano-medievale muove nei termini di una fratellanza universale, salvo ricavarne la necessità della subordinazione dell'uomo nella vita terrena. E ancora la filosofia politica moderna costruisce lo Stato partendo dall'assioma di un'uguaglianza naturale tra gli individui, che però nella realtà si trova a fare i conti con coppie dialettiche quali cittadino straniero, proprietario-proletario, padrone-schiavo, uomo-donna. Infine, l'oggi: un tempo incerto, caratterizzato dai fenomeni globali che sfidano l'uguaglianza sul terreno della sua contraddittoria universalità.
Alcuni mesi prima del fatidico crollo mentale e fisico del gennaio 1889, Nietzsche inizia a raccontare la storia di Gesù di Nazareth nell'Anticristo, mentre, quasi contemporaneamente, progetta il suo autoritratto narrativo in Ecce Homo. Le trasformazioni in atto in questi ultimi testi così criptici sono sempre state analizzate dalla critica alla luce della pazzia incipiente. In questo libro Heinrich Detering legge invece le ultime opere nietzscheane secondo una via interpretativa di matrice narratologica e non solo filosofica, esplorando nuovi spazi per la discussione di alcuni dei testi più suggestivi e meno esplorati del pensatore tedesco.
L'opera del filosofo e sociologo tedesco Jürgen Habermas (n. 1929) è assai conosciuta: è stata, infatti, tradotta in molte lingue e su di essa è disponibile una vasta letteratura secondaria. Il volume intende offrire al pubblico italiano un'introduzione breve, ma relativamente completa e aggiornata, del suo pensiero. Sono oggetto di attenzione la sua teoria dell'agire comunicativo; la valutazione che Habermas ha fornito di autori classici e contemporanei; la sua tesi della razionalizzazione e colonizzazione del mondo vitale e le conseguenze di questi processi per l'agire comunicativo; la sfera pubblica come fonte di legittimazione; la ricezione, infine, della sua opera. Diversamente da altre introduzioni, si è preferito evidenziare la continuità tematica del suo pensiero, piuttosto che suggerire la presenza di fasi di sviluppo. Si sono inoltre privilegiati gli aspetti sociologici della sua riflessione, piuttosto che quelli filosofici.
Mantenendosi ben lontano dalle esibizioni volgari così caratteristiche della nostra epoca, "L'arte del lusso" è essenzialmente un trattato sul saper vivere. Lo spirito trionfa sulla materia, l'essere conta più dell'avere, e l'apparire è disprezzato come si conviene. L'autore esalta la vita interiore, la contemplazione, l'amore per la natura e per il vero, il senso della tradizione... In questa prospettiva, il lusso, che colma l'uomo di emozioni, di gioia, di pace, e gli permette di sfuggire al peso dell'esistenza, non ha nulla da spartire con il consumo dei prodotti dell'industria che a esso si richiama. Inutile ed essenziale, è un assoluto da desiderare, da ricercare, da raggiungere, sempre legato alla bellezza, alla perfezione ideale, alla luce, alla grazia. Merita un'iniziazione e attenzioni particolari in ogni singolo momento, forse persino un vero e proprio culto: il lusso è un'arte. Sulla linea di Baudelaire e Barbey d'Aurevilly, in questo libro l'autore propone un'etica, un'estetica e una dietetica, nel senso più ampio del termine, per restituire al lusso il suo posto (molto elevato) e il suo valore (inesauribile). Quando, schiacciata dal peso delle sue troppe bassezze e ottusità, la nostra epoca sarà crollata, l'uomo del lusso, come un tempo l'uomo probo o l'uomo di corte, diventerà forse un modello per i tempi che verranno.
Studi aristotelici
Nuova edizione riveduta e ampliata
DESCRIZIONE: Il dovere di introdurre, e con ciò di giustificare nella sua unità, la presente raccolta mi fornisce l’occasione più opportuna per riflettere sulle ricerche da me compiute in questi anni e anche per risalire alle origini del mio interesse per Aristotele, allo scopo di determinarne il più esattamente possibile il senso e l’orientamento generale. Uno dei fili conduttori dei miei lavori è la persuasione del valore classico, cioè perenne, e quindi anche attuale di certe istanze del pensiero aristotelico. Si tratta di una valutazione di ordine teoretico, o filosofico, che oggi, a causa dell’imperante storicismo e del conseguente relativismo, può sembrare, nel migliore dei casi, ingenua. Tuttavia è una persuasione a cui tengo particolarmente; non ho difficoltà infatti a confessare che, se non la possedessi, non riuscirei a dare alcun senso al lavoro fatto.
Le ragioni del valore classico della metafisica antica si trovano nel rilevamento, da parte di Aristotele, di un’inadeguatezza tra il sistema platonico e il problema da cui ogni filosofo deve prendere le mosse, cioè la problematicità integrale e assoluta. Questa problematicità si esprime in un «domandare tutto», che è insieme un «tutto domandare», in una domanda che investe la totalità del reale e, per il fatto di escludere ogni precedente certezza, è integralmente domanda; e si identifica con la stessa esperienza intesa come conoscenza di tutto e insieme domanda della ragione di tutto, o con la stessa vita, che è somma di tanti valori, ma insieme domanda di un valore che tutti li comprenda. È appunto l’esperienza ciò che Aristotele oppone a Platone come un’istanza a cui questi non può sottrarsi e che tuttavia questi non ha soddisfatto. La filosofia aristotelica in tal modo si configura, sì, come una metafisica, in quanto afferma la necessità di un principio trascendente che costituisca la soluzione sistematica, ma del tutto particolare, poiché si preoccupa di porre tra il principio e l’esperienza un rapporto tale che consenta di rendere ragione della problematicità di questa, mantenendola intatta.
(Enrico Berti)
COMMENTO: La nuova edizione, riveduta e ampliata, degli Studi aristotelici, un testo che ha rinnovato gli studi su Aristotele, che qui comprende saggi inediti.
Pubblicato nel 1935 in un'Europa attraversata dall'ascesa dei totalitarismi, "Scienza e religione" non è solo un importante testo di filosofia dedicato alla secolare lotta tra pensiero scientifico e autorità religiosa, ma rappresenta, oggi come allora, una preziosissima arma intellettuale contro l'oppressione generata dal pensiero unico di qualunque matrice, teologica o politica. I temi affrontati, gli strabilianti progressi della medicina, l'impatto culturale della rivoluzione copernicana, dell'evoluzionismo di Darwin e della psicologia scientifica, hanno rimodellato la nostra percezione del cosmo e di noi stessi in un contesto ormai privo di rassicuranti certezze sul destino e sul ruolo del genere umano. Di qui, l'inevitabile attacco da parte di chi fonda sulla verità rivelata il controllo e la produzione del sapere. A Russell, tuttavia, non preme tanto l'esaltazione dei trionfi della scienza, quanto l'affermazione della costitutiva diversità tra l'approccio scientifico alla conoscenza e, più in generale, alla vita, e quello religioso. Per Russell, infatti, il valore della ricerca scientifica non si misura soltanto in base ai successi della tecnica, rispetto ai quali il lettore è invitato a usare la salutare arma della critica, ma è riconducibile a una scelta di fondo improntata alla libertà di indagine e al riconoscimento della potenziale fallibilità di ogni avventura umana.
Il volume affronta l'evoluzione dell'idea di intenzionalità nell'opera di Emmanuel Lévinas e sottolinea come l'autore progressivamente si orienti a una separazione tra momento intenzionale e momento etico, arrivando a cogliere nell'emozione l'unica possibilità di incontro con l'altro. Tale itinerario è interessante in quanto lascia emergere il tentativo di Lévinas di elaborare un nuovo modo di intendere la soggettività per reintrodurre la questione teologica nel dibattito filosofico contemporaneo. Lo scritto cerca di recepire l'istanza levinassiana, mettendo tuttavia in evidenza i nodi problematici che da essa emergono.
«Un dotto lo chiamo ciclope […]. Ci sono ciclopi tra i teologi, i giuristi, i medici. [...] Ognuno di essi dovrebbe essere fornito di un [altro] occhio di fattura particolare [...]. Il secondo occhio è [...] quello della conoscenza di sé della ragione umana». La riflessione 903 del lascito antropologico di Kant offre l’orizzonte allo studio Dell’esistenza. Glosse allo scritto kantiano del 1762. Guardando con l’occhio di cui il ciclope è privo, l’Autrice coglie i risvolti teoretici della riflessione precritica di Kant sull’esi stenza di Dio ed individua le radici della lotta kantiana al nichilismo.
Sulla base del con fronto con le filosofie coeve a Kant, nel volume sono delineati gli albori della teoria del riferimento come primo distacco critico dall’egida del possibile logico leibniziano e dall’essenzialismo. La riflessione interna all’Unico argomento possibile sull’esistenza di Dio, cara allo stesso Heidegger, non presenta però solo una filigrana onto-teologica e teoretica, essa presta anche il fianco a riflessioni di ordine etico. Consapevole di come il problema del determini smo nell’agire morale faccia ancora discutere i filosofi continentali ed analitici, l’Autrice confronta l’argomento onto-teologico con i temi della ragion sufficiente della scuola leibniziana e wolffiana per segnalare e seguire i tentativi kantiani di differen ziazione dal mec cani cismo e dal fatalismo etico.
Che cosa c'è di nuovo nel "nuovo realismo" di cui si parla tanto da un anno a questa parte, in Italia e all'estero? E il nuovo realismo non significa un ritorno alla vecchia metafisica? Come si collega alle voci più vive della situazione filosofica internazionale? E quali sono i risvolti teorici e politici della messa in crisi del postmoderno? Ecco alcuni degli interrogativi a cui risponde questo volume fornendo una straordinaria batteria di argomenti a favore del realismo, ma anche dando spazio a voci dissenzienti.
Se c'è un libro che mostra fin dove si può spingere la comprensione di un simbolo, questo è "II simbolismo della croce". Pubblicato nel 1931, dopo i due grandi libri indiani ("Introduzione generale allo studio delle dottrine indù" e "L'uomo e il suo divenire secondo il Vedanta"), è l'opera in cui Guénon scelse l'immagine stessa su cui è fondata la civiltà occidentale cristiana per condurre una dimostrazione rigorosa e inflessibile, che permettesse di cogliere la "pluralità dei significati inclusi in ogni simbolo". I quali nel caso scorreranno davanti agli occhi del lettore come anelli di un'aurea catena: fra gli altri, la teoria indù dei tre guna (le qualità fondamentali che compongono il mondo), la simbolica della tessitura, l'Albero della Vita e l'Albero della Scienza, il rapporto fra il punto e l'estensione, il vortice sferico universale, infine la Grande Triade (Cielo, Terra, Uomo) della Cina arcaica.
La nostra vita ha un senso? Una vita equilibrata è davvero possibile? Possiamo imparare a vivere? Entrando negli aspetti più apparentemente ordinari della quotidianità, Wilhelm Schmid propone 100 piccoli esercizi per trovare una risposta a queste domande. Richiamandosi a una tradizione che risale a Epicuro e Seneca, e prosegue con Montaigne, Nietzsche e Wittgenstein, l'autore lascia emergere le implicazioni nascoste in ogni più semplice momento della nostra esistenza. Il gusto del caffè al mattino, il profumo dei tigli, i piaceri di una sauna, il film preferito, le segrete virtù di un raffreddore, le ansie di una normalissima domenica in famiglia o con gli amici: tutti strumenti per capire che l'equilibrio individuale non è una condizione permanente ma nasce da una ricerca incessante che oscilla tra polo positivo e negativo, che impone l'attraversamento del dolore e della sofferenza e si nutre del continuo alternarsi di sentimenti, esperienze, incontri. Con un linguaggio leggero e penetrante Schmid riesce a dare anche una lettura originale dei più significativi avvenimenti politici del nuovo millennio e delle questioni filosofiche che caratterizzano la modernità. Emerge così un magnifico affresco del nostro tempo che diviene progetto di un diverso modo di stare al mondo, grazie al quale ciascuno di noi può essere protagonista - anzi, "poeta" della sua stessa vita.
Che cos'è la verità propone in traduzione italiana quattro saggi tratti dal secondo volume dei suoi "Gesammelte Werke" e dalla raccolta "Gadamer Lesebuch", dai quali emergono in maniera particolarmente chiara il senso fondamentale e la perdurante attualità del messaggio filosofico dell'ermeneutica, condensabile nella rivendicazione di significato e valore autonomi per una serie di esperienze che stanno "al di fuori della scienza" e nelle quali, per Gadamer, "ci si dà a conoscere una verità che non sarebbe altrimenti raggiungibile", cioè si annuncia "una verità che non può esser verificata con i mezzi metodici della scienza". Una rivendicazione di significato e autonomia, in altre parole, per "una forma di intelligenza" quella del comprendere (Verstehen), il fenomeno ermeneutico fondamentale che, "nel nostro tempo sopraffatto dalla rapidità dei mutamenti", secondo Gadamer "rischia di oscurarsi e di perdersi", e che è invece nostro compito salvaguardare, coltivare e continuare a sviluppare, pena uno smarrimento del senso più profondo di ciò che è autenticamente "umano".