
Padre Gabriele Amorth, don Antonio Mazzi, padre Livio Fanzaga: tre grandi sacerdoti che hanno dato vita a opere e testimonianze di bene che tutti riconoscono parlano a cuore aperto della loro famiglia d'origine, della loro formazione e delle loro attuali opere per testimoniare la fede che li anima pur in ambiti così diversi tra loro.
La religiosa ungherese suor Maria Natalia Magdolna, al secolo Kovacsics Maria Natalia (1901-1992), ricevette messaggi profetici sia da Gesù che dalla Vergine lungo tutta la sua esistenza, con indicazioni pratiche e urgenti per la salvezza propria e del mondo. La sua vita si intreccia misticamente con quella di straordinarie figure sia dell'antico passato, come re Stefano d'Ungheria, sia a lei contemporanee, come il cardinale József Mindszenty, presto beato, martire dei totalitarismi nazista e comunista di stampo sovietico. Suor Maria Natalia ne sostenne la missione con preghiere e sacrifici, su esplicito invito della Vergine. Il cardinale studiò attentamente le sue rivelazioni profetiche e le accolse senza riserve. Persino papa Pio XII sperimentò in prima persona la loro veridicità, salvando la propria vita grazie ad esse. Queste profezie si collocano sulla linea delle grandi apparizioni mariane dei tempi moderni, iniziate a Parigi in Rue du Bac e proseguite a Lourdes e a Fatima fino alle attuali e si riferiscono agli Ultimi Tempi: il Tempo di Maria. Sottolineano l'urgenza e l'attualità dei suoi accorati appelli celesti che, pur evidenziando risvolti inquietanti e drammatici per questi nostri giorni, appaiono ricolmi di luminosa e certa speranza. prefazione di Serafino Tognetti.
Jean Guitton incontrò Marthe Robin per caso, accompagnando da lei il suo amico ateo, il medico e filosofo Couchoud. Rimase folgorato dal genio di questa umile contadina, che, dal suo letto di dolore e di malattia, illuminava e consigliava le migliaia di persone che venivano a lei attratte dalla sua testimonianza. L'amicizia tra Marthe Robin e Jean Guitton durerà venticinque anni, fino alla morte di Marthe. Ed è proprio questa amicizia che dà autorevolezza alla biografia attraverso la quale l'autore evidenzia e guida a comprendere l'esperienza mistica di Marthe e le sue manifestazioni fisiche collocate all'interno di un orizzonte storico, filosofico, evolutivo e spirituale.
L'unità del Reale, la ricerca dell'Uno, è probabilmente l'unico, definitivo tema di tutto l'immenso lavoro filosofico, teologico e scientifico - 70 anni di pubblicazioni in 7 lingue - di Raimon Panikkar, senza dubbio uno tra i più significativi 'monumenti dello spirito umano' del nostro tempo. Sempre sul confine, sulla soglia, forse è questa l'immagine che meglio di tutte racchiude l'uomo e il pensatore, che, più di altri, ha problematizzato il tradizionale concetto religioso di "Dio", animato però da quella che chiamava "fiducia cosmica", la quale poggiava, nonostante tutto e tutti, sul suo profondo amore per Gesù, il Cristo. Il volume si pone quale introduzione alla vasta opera panikkariana e alla sua ricchezza interpretativa così che il lettore possa conoscere e contribuire al dialogo tra fedi ed interdisciplinare con spirito costruttivo e di apertura.
Il suicidio è, nel mondo, la seconda causa di morte sotto i 20 anni e in Italia, ogni anno, il 12% di decessi legati a questo gesto estremo riguarda giovani e giovanissimi. Nonostante ciò, nelle nostre scuole non esistono modelli di intervento e di prevenzione mirati e negli stessi ospedali i tentativi di suicidio finiscono per essere sottostimati. Spesso ci si limita a procedure di controllo che eludono le domande davvero importanti: da dove viene il desiderio di morte? Quali pensieri si agitano nella mente di un adolescente che vuole morire e come è possibile affrontarli? La storia di Amina, raccontata in queste pagine, non offre le risposte a tutte le domande, ma è una straordinaria opportunità di conoscere, attraverso le vicissitudini di un caso clinico, la sofferenza profonda di una ragazza sopravvissuta ad un tentativo di togliersi la vita. Amina, infatti, era seguita da un'équipe di professionisti già da prima del suo gesto, e durante e dopo il ricovero successivo al mancato suicidio è stata accompagnata dagli stessi operatori; si tratta, forse, di un caso unico al mondo. Come scrive Gustavo Pietropolli Charmet nella sua Postfazione, queste pagine permettono di "assistere al momento in cui un'adolescente lacera e confusa si alza dal letto della cura e della disperazione, si rimette in piedi, zoppa e più incerta di prima, e invece di dirigersi verso la finestra apre la porta di casa e se ne va. Poi si vedrà".
"Museo diffuso", "progetto culturale", "via pulchritudinis"... queste locuzioni disegnano Crispino Valenziano, il suo percorso, il suo ministero. In esso l'impegno intellettuale non è mai disgiunto dall'attenzione creativa alle proprie radici, al proprio habitat ecclesiale e culturale. Questa lunga intervista con Marida Nicolaci è una sorta di bilancio sulla soglia dei suoi 90 anni. Vi scorrono tutte le sue "passioni": la Chiesa, la liturgia, l'arte, lo sforzo attuativo del Vaticano II... i rapporti molteplici e variegati con diversi protagonisti del secolo passato e di questo ai suoi inizi. Punto di ripartenza e di svolta l'essere stato presente nell'Aula Conciliare durante i primi tre periodi del Vaticano II. Da qui l'acquisizione di uno stile, di un'attenzione dialogica, di una pazienza ermeneutica di cui si sono avvalsi allievi e colleghi nei luoghi in cui per cinquant'anni ha insegnato. Senza dimenticare i progetti realizzati: l'erezione della Facoltà Teologica di Sicilia, l'Evangeliario delle Chiese d'Italia, i vari restauri della Cattedrale di Cefalù. Un volume in cui vengono ripercorsi sessant'anni di storia della Chiesa italiana, ma non solo, con gli occhi di uno dei suoi protagonisti. Con la schiettezza e la libertà che lo hanno sempre caratterizzato, Valenziano traccia un bilancio di questi anni con lo sguardo rivolto al futuro.
Tilde Manzotti (1915-1939) era una ragazza innamorata della vita desiderosa di studiare, fare l'università e dedicarsi all'insegnamento. La tubercolosi stroncò questo sogno ma l'incontro con alcuni padri domenicani le aprirono la mente e il cuore a un'altra vocazione: iniziò così un cammino spirituale che la portò ai vertici della contemplazione e della comunione con Dio attraverso la malattia e la morte, come ricostruisce sapientemente Elena Cammarata.
«Dopo aver cercato nella mia adolescenza qualcosa di grande per cui vivere, ho trovato nell'Ideale dell'unità quella luce e quella guida che ha accompagnato la mia vita e quella della nostra famiglia. È stata una vita felice e pienamente riuscita, perché abbiamo sempre sperimentato che tenere Gesù in mezzo è il segreto della riuscita di qualsiasi comunità. Adesso ci troviamo a vivere un'altra avventura: l'incontro con la malattia fisica a cui fin dal primo momento io e mio marito abbiamo detto il nostro "sì", offrendo questo cammino per la Chiesa e per l'Opera tutta». Così scriveva Renata Arcangeli Paoloni a Chiara Lubich pochi mesi prima di salire in Cielo, in una lettera che possiamo considerare il suo testamento spirituale, divenuto un messaggio di speranza, di amore a Dio, alla Chiesa e all'Ideale dell'unità per quanti l'hanno conosciuta e amata. La storia di una famiglia "normale", la cui normalità vissuta alla luce del Vangelo è una testimonianza che aiuta a cogliere una dimensione nuova del vivere, perché «ciò che conta è amare, amare come Gesù; fare tutto, anche le cose più semplici e normali della vita, con amore».
Questo libro ha l'intento di far capire la grandezza di Giovannino Guareschi a 360 gradi. Egli non è stato solo un grande scrittore, ma in un certo qual modo anche un grande "teologo" ed un grande "filosofo", pur non possedendo titoli accademici né per l'uno né per l'altro. Un grande "teologo", perché ci ha preso. È riuscito a "profetizzare" le conseguenze ultime della crisi della Chiesa quando questa era solo agli albori. Un grande "filosofo", perché in un tempo di trionfo di relativismo, situazionismo e nichilismo, egli parla del buon senso contadino, quello robustamente realista che riesce a fare anche del "comunistissimo" Peppone un uomo della tradizione.
«Questo breve schematico racconto della mia prigionia non può essere completo; né vi possono trovare posto tutte le vicende vissute, tutto quanto ho veduto e compreso. (…) Ho scritto queste pagine con il desiderio di fare testimonianza della semplicità con cui i nostri soldati hanno compiuto il loro dovere e hanno dato, senza odio e rancore, la loro vita per la patria. (…) Nel ricordo dei nostri fratelli lasciati laggiù, rimaniamo uniti sotto i due simboli che per i morti e per i vivi in Russia sono stati gli unici emblemi sacri: la croce di Cristo e il tricolore».
Il cappellano degli alpini don Giovanni Brevi non ha bisogno di presentazioni. Il suo nome, legato alla tragica campagna di Russia, è noto in Italia e in Germania, in Austria e in Spagna, fra centinaia di migliaia di reduci, come quello di un uomo che non ha avuto paura né delle angherie né della morte.
Migliaia e migliaia di uomini, che vissero per mesi, anni o lustri le drammatiche vicissitudini della prigionia nell'Unione Sovietica durante la Seconda guerra mondiale, lo ricordano con commossa ammirazione e con profonda riconoscenza per ciò che fece in aiuto di tutti i sofferenti, senza distinzione di nazionalità e di fede.
Tra le motivazioni della Medaglia d'oro al valor militare, conferitagli dal governo italiano nel 1951, si legge: «Esempio sublime di pura fede e di quanto possa un apostolo di Dio e un soldato della Patria».
Sommario
Presentazione. Introduzione. «La salvezza è a ovest». L'inferno di Tambow. Ordine di Stalin: «Vietato morire!». Il Cristo negli stivali. La spada di Brenno. Un messaggio alla Patria. La giustizia al guinzaglio. Tra gli schiavi del Cremlino. Ritorno. I dispersi. Campi di concentramento e carceri attraverso i quali passò padre Giovanni Brevi.
Note sull'autore
GIOVANNI BREVI (1908-1998), sacerdote dal 1934, divenne cappellano militare nel 1941 dopo una lunga esperienza di missionario tra i lebbrosi in Camerun. Partecipò con gli alpini della Divisione Julia alla campagna d'Albania, partì per la Russia nel 1942 e vi rimase, da prigioniero di guerra, condannato, deportato e costretto ai lavori forzati, per dodici anni. Reduci spagnoli e tedeschi l'hanno proposto ai rispettivi governi per una onorificenza a memoria e ringraziamento della sua opera di soccorso. Il governo italiano gli ha assegnato, il 5 agosto 1951, la Medaglia d'oro al valor militare, che si aggiunge alle altre ricompense guadagnate sul campo come ufficiale in Albania e in Russia.