
Il Signore degli Anelli è romanzo d'eccezione, al di fuori del tempo: chiarissimo ed enigmatico, semplice e sublime. Dona alla felicità del lettore ciò che la narrativa del nostro secolo sembrava incapace di offrire: avventure in luoghi remoti e terribili, episodi d'inesauribile allegria, segreti paurosi che si svelano a poco a poco, draghi crudeli e alberi che camminano, città d'argento e di diamante poco lontane da necropoli tenebrose in cui dimorano esseri che spaventano solo al nominarli, urti giganteschi di eserciti luminosi e oscuri; e tutto questo in un mondo immaginario ma ricostruito con cura meticolosa, e in effetti assolutamente verosimile, perché dietro i suoi simboli si nasconde una realtà che dura oltre e malgrado la storia: la lotta, senza tregua, fra il bene e il male. Leggenda e fiaba, tragedia e poema cavalleresco, il romanzo di Tolkien è in realtà un'allegoria della condizione umana che ripropone in chiave moderna i miti antichi.
Rocciatore, taglialegna, scalpellino, minatore, apicoltore: chi è Celio? "Un niente" risponde lui, un semplice signor nessuno di un paesino sulle Alpi che è terra di nascita dell'autore. È lui a far rivivere Celio, a strapparlo all'oblio per renderlo personaggio vero, sfuggente, pulsante di idiosincrasie e contraddizioni. Insofferente alle persone fino alla misantropia, il protagonista si rifugia in se stesso, nell'ermeticità del dialetto ladino e nell'abbraccio ambiguo dell'alcol, che lo stringerà per tutta la vita, fino al delirio e alla morte. In Celio, conosciuto durante la problematica infanzia e quarant'anni più vecchio di lui, l'autore troverà un inaspettato mentore, una protezione dalle violenze perpetrate dal padre, una via d'accesso privilegiata ai misteri e alla saggezza della natura, rivelatasi solamente per lui. Nel racconto, Mauro Corona si riscopre bambino, mettendo nero su bianco le parole - sempre misurate, mai lasciate al caso - dell'anziano amico e compagno di bevute, alla ricerca delle radici di un male di vivere sempre scacciato e mai sopito, nel duro e apparentemente impenetrabile cuore da montanaro. Una scrittura aspra, nervosa e autentica al pari del protagonista di questo romanzo, dietro le cui vicissitudini si legge in controluce l'autobiografia dell'autore, vero alter ego di Celio e solo testimone di un'esistenza che si fa simbolo di una terra sospesa nel tempo, in cui la solitudine, portata su di sé come una croce, sembra l'unico rimedio al contagio della miseria e del dolore. Le uniche leggi e autorità riconosciute sono quelle della natura, al contempo madre e matrigna. Come il vecchio accendino a benzina, ereditato dal maestro, l'allievo tiene viva la fiamma del ricordo e fa luce sul potere dell'amicizia, rara e inafferrabile ma capace di farsi salvifica nell'ostilità e nell'indifferenza del mondo.
Ci si dava appuntamento in un parco, ci si metteva sparsi, chi in piedi, chi sdraiato e chi in braccio a qualcun altro, dopodiché s'iniziava. «Questo era il gioco, questa la sfida delle giornate di follia: aggirare l'ovvio, non ripetere il risaputo, bucare il tempo, aprire strade, sondare il possibile, il parallelo, l'alternativo. Poteva durare anche a lungo questo aggrovigliarsi di nuvole e mondi, ma si atterrava, prima o poi si atterrava sempre». La scuola di Roberto Vecchioni prima di tutto è un luogo in cui s'insegna senza impartire lezioni. I ragazzi hanno coraggio, desideri, paure, e una sete dentro che non si spegne mai. Sono irrequieti, protervi, insicuri: in una parola veri. Si chiamano come i più celebri pittori della storia, ma sono solo esseri umani in cerca di se stessi. E il professore, quel Roberto Vecchioni che insegnava negli anni Ottanta in uno storico liceo milanese, è colto, originale, ma soprattutto appassionato, sempre disposto a quell'incantesimo che balena diverso ogni giorno. Che parli della morte di Socrate, del viaggio di Ulisse o di un verso di una poetessa contemporanea, i suoi occhi brillano e la voce va su e giù come un canto.
Secondo una leggenda, i Magi che resero omaggio a Gesù appena nato non erano tre, ma quattro. Il quarto saggio, Artaban, partì portando con sé pietre preziose da donare al Messia, ma smarrì la strada e arrivò a Betlemme quando già la Sacra Famiglia era fuggita in Egitto. Vagò per il resto della vita alla ricerca di Gesù senza mai incontrarlo. Capitò però a Gerusalemme proprio nei giorni della Passione del Nazareno e quando, la mattina di Pasqua, il Risorto gli apparve, egli non aveva più nulla da donargli, perché aveva utilizzato i doni destinati a Gesù bambino per aiutare poveri e perseguitati. Ma Gesù gli disse: «Ogni volta che hai fatto questo ai tuoi fratelli, tu l'hai fatto a me». Artaban comprese allora che la sua ricerca era conclusa e seguì il Risorto in paradiso.
Con la consueta passione polemica, senza mai abdicare alla sua caratteristica soggettività tesa e vibrante, Sepúlveda offre in questo libro un'altra prova della sua passione politica e umana. Ma non è solo la denuncia sociale a dare energia alle pagine: alle riflessioni sugli argomenti più scottanti della politica internazionale, si alternano i commossi ricordi di amici scomparsi e storie, semplicemente da raccontare. E tutto, sembra dirci lo scrittore, tanto la necessità di raccontare quanto il desiderio di combattere, trovano ragione semplicemente nella capacità di sognare ancora, di non rinunciare ai nostri sogni.
Perfetta fusione tra racconto del terrore e giallo classico, Il mastino dei Baskerville, racconta l'impresa definitiva di Sherlock Holmes, la più spettacolare e la più complessa. La storia, ambientata nella landa desolata di Dartmoor, nel Devon, tra nebbie e paludi, è quanto mai suggestiva e carica di suspence. Un'oscura maledizione aleggia sulla casata dei Baskerville. Alla sua origine, un efferato crimine commesso da sir Hugo Baskerville due secoli prima. Da allora un mostro sanguinario, un enorme cane nero dagli occhi infernali, sembra perseguitare gli eredi maschi di Baskerville Hall, tutti morti in modo violento. Aiutato dal fedele Watson, Holmes tenterà, con la sua impareggiabile logica e il suo formidabile dinamismo, di districare la matassa che avvolge il caso più difficile e pericoloso che abbia mai dovuto affrontare.
ARTHUR CONAN DOYLE (1859-1930)
Arthur Conan Doyle nasca a Edimburgo da padre inglese e madre irlandese.Secondo di dieci figli è uno studente brillante e si laurea in medicina nel 1885. Mentre è assistente medico a Birmingham si appassiona alla letteratura ed è proprio uno dei suoi professori, Joseph Bell, che gli ispirerà il famoso detective Sherlock Holmes, personaggio che tentò invano di "uccidere" perché sopraffatto dalla sua notorietà. Uomo dal forte temperamento, conduce molte battaglie per mezzo della stampa e scrive saggi, racconti e romanzi di diverso genere: storico, di avventura, fantastico, del paranormale e del terrore. Insieme a Edgar Allan Poe, è fra i padri fondatori del romanzo poliziesco.
Nel 1936, quando scrisse la Storia dell'eternità, Borges lavorava in una biblioteca rionale dimenticata in un quartiere periferico di Buenos Aires, dove la topografia ortogonale della capitale argentina si frastagliava in terreni incolti e officine e ortaglie, e dove il tempo sembrava non passare mai. Fu in quel periodo che si delinearono nella sua opera i tratti che oggi chiunque definirebbe, a colpo sicuro, borgesiani, e in primo luogo l'inclinazione a considerare tutto come materiale letterario. Così, per esempio, teologia e metafisica potevano diventare ai suoi occhi cronache della vita di un personaggio chiamato eternità, del quale egli si proponeva di restituire, attraverso episodi ben vagliati, alcune delle fasi che punteggiavano una vita infinita. Senza impedirsi, comunque, di accostare queste storie a divagazioni sulla metafora, sui traduttori delle Mille e una notte e sull'arte dell'insulto. Tale procedimento, usato da Borges con discrezione e ironia, ha una straordinaria forza dissestante, nel senso che scalza ogni affermazione dal suo piedistallo di pretesa realtà, come se la realtà stessa non fosse che un genere letterario. E nel contempo ci introduce a un nuovo genere, di cui Borges seppe essere, per un paradosso a lui congeniale, insieme il fondatore e l'epigono.
«Non è una punta, ma una massa prodigiosa. Il lungo braccio della Cresta Nord-ovest, con i suoi speroni secondari, sembra la cattedrale di Winchester dopo una nevicata.»
George Leigh Mallory, 1921
È l’Everest: sui suoi pendii da un secolo si cimentano i migliori alpinisti del mondo, da Eric Shipton a Reinhold Messner, da Edmund Hillary a Krzysztof Wielicki, Anatolij Boukreev, Doug Scott, Simone Moro e Alex Txikon. Ma anche avventurieri, topografi, sognatori, scienziati e figure eccezionali come quelle degli sherpa.
Un secolo fa, nella primavera del 1921, una spedizione britannica lascia le piantagioni di tè di Darjeeling per dirigersi verso la base della montagna più alta del mondo, l’Everest. A partire da quel momento il Big E sarà teatro di una serie di vicende che rimarranno scolpite nella memoria storica dell’alpinismo: dalla scomparsa di George Mallory e Andrew Irvine nel 1924 alla prima ascensione da parte di Edmund Hillary e Tenzing Norgay nel 1953. Dalle imprese solitarie e senza ossigeno di Reinhold Messner nel 1978 e nel 1980 al fenomeno delle spedizioni commerciali dei giorni nostri, che vede centinaia di persone pagare alte cifre per raggiungere la cima, e alle esperienze dei protagonisti odierni delle scalate. Stefano Ardito racconta in queste pagine l’affascinante storia di cento anni di spedizioni. È una storia fatta di coraggio, intelligenza, paura, ma anche di tanti altri aspetti, dall’evoluzione tecnologica delle attrezzature alle trasformazioni geopolitiche che hanno influito sull’alpinismo.
«Quando Edmond Dantès arriva finalmente alla grotta sull'isola di Montecristo ad aprire il baule che contiene il tesoro dell'abate Faria, ecco quel che accade: "Si rialzò e prese una corsa attraverso la caverna con la fremente esaltazione di un uomo che sta per diventare pazzo". Con la Commedia può succedere qualcosa di simile.» A 700 anni dalla morte del Poeta, in apertura dell'anno dantesco 2021, un libro per rivisitare tutta la Commedia come racconto di viaggio. Perché quel poema complicato, erudito e pieno di enigmi è anzitutto "commedia", narrazione popolare, teatro. Per questo i lettori comuni hanno obiettivi diversi dai professori e dai Bignami: loro, come Edmond Dantès, vogliono ficcare le mani nel tesoro, immergersi nella musica, inebriarsi delle immagini.
Alika Touré, la più bella, lascia il Mali insieme alla piccola Kambirì per raggiungere il marito che vive in Italia. Affronta prima il deserto e poi la traversata del mare. Ad attenderla un sogno, la promessa di una nuova vita. Ma il viaggio è crudele, e non come Alika lo immaginava. Con le ultime forze che le restano, affida la figlia alla compagna di viaggio Awa, pregandola di fare in modo che la piccola raggiunga il padre a Mirano. Ne nasce però un fraintendimento: Awa capisce Milano, ed è questo che riferisce al medico che a Lampedusa si prende subito cura della bambina. Mentre si fa di tutto per rintracciare suo padre, Kambirì cresce nell'isola tra l'affetto del dottor Niccolò, della sua amica Chiara e della singolare famiglia del Caffè dell'Amicizia. Dall'autore di Hachiko, un racconto commovente ispirato alla storia del medico Pietro Bartolo e dei tanti abitanti di Lampedusa che ogni giorno offrono soccorso e accoglienza ai migranti che arrivano sull'isola. Prefazione di Pietro Bartolo. Età di lettura: da 10 anni.
Durante un soggiorno a Monte Carlo insieme alla signora cui fa da dama di compagnia, una giovane donna, appena ventenne, conosce il ricco e affascinante vedovo Maxim de Winter. L'uomo inizia a corteggiarla e, dopo due sole settimane, le chiede di sposarlo; lei, innamoratissima, accetta con entusiasmo e lo segue nella sua grande tenuta di famiglia a Manderlay. Sembra l'inizio di una storia da favola, ma i sogni e le aspettative della giovane si scontrano subito con la fredda accoglienza della servitù, in particolare della sinistra governante. Eppure non si tratta solo di questo: c'è qualcosa, in quel luogo, che giorno dopo giorno rende l'ambiente sempre più opprimente; c'è una presenza che pervade ogni stanza della magione e che si stringe attorno ai passi dell'attuale inquilina come una morsa silenziosa. È Rebecca, la defunta signora de Winter, più viva che mai nella memoria di tutti quelli che l'hanno conosciuta e modello inarrivabile per la giovane, che invece si muove impacciata e confusa nella sua nuova esistenza altolocata e mondana. Un fantasma ingombrante che si trasformerà in una vera e propria ossessione per la protagonista, costretta a immergersi nelle ombre del proprio matrimonio e spinta sempre più ai confini della follia, fino a dubitare della propria stessa identità. Fonte di ispirazione dell'omonimo film di Alfred Hitchcock con Laurence Olivier e Joan Fontaine, "Rebecca la prima moglie" è l'opera più famosa e amata di Daphne du Maurier: un thriller psicologico ricco di suspense e mistero, colpi di scena e ribaltamenti inaspettati, passioni e segreti. Un romanzo sulla gelosia e sulla memoria, che conduce il lettore tra le pieghe dell'animo umano, là dove si nascondono gli spettri nati dal dolore più atroce e dalle paure più inconfessabili.
Palermo, estate 1942. Come in un lucido delirio, il barone Enrico Sorci dal suo letto di morte vede passare davanti agli occhi la storia recente della sua famiglia. Vede la devozione della moglie e i torti che le ha inflitto, vede le figlie Maria Teresa, Anna e Lia, i figli Cola, Ludovico, Filippo e Andrea; e vede Laura, la nuora prediletta, con il figlio Carlino, per il cui futuro si inquieta. Poco prima di morire il barone ordina che la notizia del suo trapasso non venga immediatamente annunciata e infatti, ignari, i parenti si radunano intorno alla tavola per un affollatissimo pranzo che si tiene fra silenzi, ammicchi, messaggi in codice, tensioni, battibecchi, antichi veleni, segrete ambizioni. È come se il piano nobile di palazzo Sorci fosse il centro del mondo, del mondo che tramonta - fra i bombardamenti alleati e la fine del fascismo - e del mondo che sta arrivando, segnato da speranze ma anche da una diversa e più aggressiva criminalità. Uno dopo l'altro, i protagonisti prendono la parola per portare testimonianze, visioni, memorie che si avviluppano in una spirale di fatti e di passioni, vendette e tradimenti, componendo un quadro privato e collettivo degli eventi che segnano Palermo fino all'aprile del 1955. Offesa dalla guerra e dall'occupazione, la città si apre con sventato entusiasmo a una nuova ricchezza e a nuove alleanze con la politica e la malavita; nelle pieghe della famiglia Sorci si consumano amori, fughe, ribellioni, rovine. E tutto fluisce, incessante. Agnello Hornby sgomitola storie che sono anche episodi della storia di tutto il Paese e dilatano quella capacità di allacciare la visione d'insieme e la potenza del dettaglio che i lettori hanno già imparato a riconoscere nei suoi romanzi. Con "Piano nobile" prende vita il secondo capitolo della saga familiare cominciata con "Caffè amaro". Le famiglie sono famiglie, e chissà ancora per quanto impediranno, nasconderanno, confonderanno.