
«Meno male che mia madre mi aveva detto che sarebbe stata una giornata tranquilla! » dice al giovane Miron l'amico Staszek. È il 1° agosto 1944, e per le strade affollate di Varsavia, da cinque anni sotto l'occupazione dell'esercito tedesco, la gente è in subbuglio: si parla di soldati nazisti ammazzati, di «carri armati grossi come case», e le detonazioni dei pezzi d'artiglieria echeggiano ben presto più forti e vicine di quelle che già da qualche giorno provengono dal fronte, dove avanzano i sovietici. È l'inizio di una delle vicende più atroci e controverse della Seconda guerra mondiale, che ancora oggi è come una ferita aperta nella coscienza e nella memoria della Polonia. Organizzata dal movimento di resistenza nazionalista, l'insurrezione di Varsavia, nata con finalità antitedesche ma anche con un significato apertamente antisovietico, si rivelerà un catastrofico errore politico e militare: 25.000 insorti e 200.000 civili rimarranno uccisi, la città sarà letteralmente rasa al suolo, e molti dei reduci, bollati dalla propaganda stalinista come «luridi giullari della reazione», scompariranno nei gulag. Solo a distanza di oltre vent'anni Miron Bialoszewski riuscirà a scrivere di quella tragedia, che prima non è stato in grado di raccontare se non «chiacchierando». E, anche sulla pagina, il racconto è un "parlato" concitato, frantumato ed erratico, in un libero flusso di ricordi: l'unica forma capace di testimoniare una verità lontana da quella delle opposte propagande. E capace, nel percussivo alternarsi di immagini e suoni, odori e sapori, di costringere il lettore a un'immedesimazione assoluta.
Nelle terre di confine tra Liguria e Francia, un gruppo di personaggi il cui ago della bilancia è Veronique, con la sua malinconica bellezza, si incontra nelle case, lungo i sentieri delle colline, sulle strade vicino al mare. Nel fitto intreccio delle loro parole prende corpo il senso profondo della civiltà che quella terra ha espresso: il saper guardare gli alberi e i colori, il ricordo di guerre combattute senza doversi nascondere, i simboli malati delle culture nate da quello scontro. La conversazione è come sospesa sull'abisso. Nell'oscurità della notte si agita un mondo clandestino regolato dalle leggi della violenza e dello sfruttamento: l'universo dei disperati che si riversa in Occidente come un'onda oscura e inarrestabile. Prefazione di Giorgio Ficara.
La consapevolezza che "i rapporti tra le arti devono essere casti", non impedí a Francesco Biamonti di rincorrere in pitture, poesie e prose altrui le tracce di comuni demoni artistici. In opere nelle quali il paesaggio si fa metafora dell'animo umano; con forme, colori e parole che si caricano d'essere per quanto sono spogli. In queste pagine sono molti quegli artisti che con il territorio ligure, o con il paesaggio marino mediterraneo, hanno dialogato. Alcuni pittori, Boine, Orengo, passando attraverso al rapporto purissimo con le cose che Calvino iniziò sulle rive della sua Liguria e che si fece fantastico, perché cristallino, nelle "Città invisibili". Biamonti si sente in armonia con chi dà voce alla natura, al paesaggio verticale, tra cielo e mare, della Liguria e della vicina Francia: il Valéry del "Cimitero marino", Cézanne e l'amico Ennio Morlotti. Con quegli artisti che hanno saputo, come lui, coniugare un linguaggio spoglio, scarno e materico con un lirismo corroso e pieno di luce.
Felix è un ragazzo molto particolare: dopo aver passato l'infanzia chiuso in un enigmatico mutismo, indifferente ai tentativi dei genitori di scuoterlo dalla sua indifferenza ma capace di stupirli con improvvisi guizzi di genialità, è rimasto taciturno e riservatissimo. Se si eccettua la passione per i dolci, Felix non ha niente in comune con i suoi coetanei. Possiede inoltre un insolito talento che si compiace di coltivare in solitudine: una memoria prodigiosa che gli permette di catalogare in maniera precisissima - e all'occorrenza rievocare - milioni di ricordi. È il suo insegnante di filosofia, il professor Kobbe, a scoprire questa capacità e, affascinato, lo aiuta a coltivarla e a perfezionarla nella convinzione di poter fare di lui un grande filosofo. Ben presto, però, si rende conto delle potenzialità di questa dote se applicata alla politica e capisce che, se opportunamente guidato, Felix può diventare un grande statista. All'università Felix incontra un enigmatico insegnante nonché uomo politico, il Maestro, che - conquistato dalle straordinarie abilità di Felix e consapevole di poterle usare a proprio vantaggio - lo introduce nel mondo della politica. Felix si rivela un collaboratore preziosissimo. Soltanto la sua bizzarria rischia di ritorcersi contro il Maestro, divenuto intanto - dopo aver vinto trionfalmente le ultime elezioni - Presidente. Intanto, l'unanimità di consensi che il Presidente - ormai Gran Presidente - ha saputo creare intorno a sé si frantuma e a Felix tocca decidere se prendere le redini del comando o tornare da dove è venuto.
Fino all'adolescenza il protagonista ha avuto dal padre, oltre a un affetto smisurato, tutto ciò che può rendere felice un bambino: l'amicizia complice, favole fantasiose, sogni condivisi. Un giorno d'aprile del 1945, poco prima della fine della guerra, l'uomo scompare. Il figlio, disperato, lo piange per morto finché scopre una realtà meno tragica ma più devastante sul piano personale: il padre è fuggito in America con l'amante. Da quel momento il ragazzo cerca di sopprimere dentro di sé ogni traccia dell'idolo caduto, ma i ricordi lo ossessionano. Niente può aiutarlo, nemmeno l'amore e un matrimonio felice coronato dall'arrivo di un figlio: anzi, proprio il suo bambino, che porta indelebili, nell'aspetto fisico e nei comportamenti, le impronte genetiche del nonno scomparso, lo induce a mettersi sulle tracce del padre. La ricerca si protrae per lunghi anni, fino all'inattesa e dolorosa conclusione, legata all'indagine su un inquietante episodio di guerra partigiana e all'incontro con una donna indomabile, proprietaria di un vecchio albergo in riva al Po: La Dogana del Duca. Giuseppe Bianchetti, nato nel 1928, vive e lavora a Milano. Ha insegnato per decenni all'università e da alcuni anni ha lasciato la professione per dedicarsi a varie attività, soprattutto alla letteratura.
Luisito Bianchi scrive questo romanzo negli anni Settanta, rappresentando con i mezzi della letteratura un'esperienza per lui profonda e cruciale, seppur vissuta in giovanissima età: la Resistenza italiana. Nel 1989 - dopo una profonda revisione da parte dell'autore - gli stessi amici ne curano la prima pubblicazione, autofinanziata e ora esaurita. Il libro inizia così a diffondersi "da mano a mano, da amicizia ad amicizia", secondo le stesse parole dell'autore. L'editore Sironi, imbattutosi come tanti altri in quest'opera e convinto della sua forza, la propone ora al grande pubblico.
Un’opera inedita, per incontrare ancora una volta l’autore della Messa dell’uomo disarmato in tutta la potenza della sua scrittura.
Un romanzo di formazione ambientato nell’Italia fascista a ridosso della guerra. La storia di una vocazione drammaticamente intrecciata agli eventi della Resistenza.
«Un po’ Meneghello, un po’ Fenoglio, un po’ Bacchelli, un po’ Attilio Bertolucci, ma soprattutto la voce di un combattente felice e disarmato di cui ci ricorderemo.»
Paolo Di Stefano, Corriere della sera
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Il seminarista protagonista di questo romanzo muove dall’ingenuità dell’infanzia alla drammaticità dell’adolescenza in uno dei periodi più tragici della storia del nostro Paese: dalla vigilia della guerra fino alla Liberazione dai nazifascisti. Sullo sfondo di un’Italia contadina, vediamo maturare la sua vocazione, tormentata dai dubbi che lo spingerebbero verso scelte più immediate e radicali. Luisito Bianchi narra una storia sincera e commovente – i riferimenti autobiografici sono molto presenti – in cui non mancano momenti di grande levità, specialmente nel racconto della vita in seminario vissuta dal seminarista bambino.
Il seminarista pone in nuova luce molti degli interrogativi che hanno innervato il capolavoro La messa dell’uomo disarmato: il fuoco del racconto è il dilemma tra la fedeltà a una vocazione puramente spirituale e il bisogno di partecipare all’evento storico della Resistenza dalla parte dei “giusti”. Senza ideologia ma senza ambiguità, secondo una “regola” che ha improntato l’esistenza stessa dell’autore.
Questa è la storia di una vita. O meglio, questa è la storia di due vite. Di come queste due vite si incontrano e si separano nell'intreccio del tempo. Ruotano attorno l'un l'altra, come due astri attratti dalla loro forza di gravità, senza mai sovrapporsi davvero in un'eclissi totale. Il dolore più buio, piano piano - quasi riluttante - si trasforma in luce, una luce imperfetta, che conserva una macchia, ma non per questo meno splendente. Anzi, forse più brillante e vera. Questa è una storia di introspezione, della lotta contro sé stessi e le proprie abitudini, alla ricerca di una svolta, di un cambiamento radicale che spazzi via il passato e le sue imperfezioni incrostate. È anche la storia dell'accettazione di sé, ma solo dopo un lungo percorso che abbia messo in discussione, con fatica e sacrificio, anche l'essenza del proprio essere. Questa storia è un viaggio, non solo nelle pieghe dell'anima, ma anche attraverso luoghi reali, materiali. Ma è un viaggio subito marcato da un eterno ritorno: il paesello, l'infanzia, le origini. È lì che bisogna tornare quando si perde la bussola, verso quel "mondo che non c'è più", che però possiamo vedere, udire, odorare scorrendo le pagine di questo libro. Una realtà morta, fagocitata dalla modernità, e riportata in vita in piedi sulle proprie rovine. Tutto ciò che viene dall'alto, da Dio, è cosa buona. La volta stellata il punto di arrivo finale. Un traguardo cercato in mille modi, che però è sempre stato lì ad aspettare.
"Quando torni io non ci sarò già più." Sono le ultime parole di S. a Matteo, pronunciate al telefono in un giorno d'autunno del 1998. Sembra una comunicazione di servizio, invece è un addio. S. sta finendo di portare via le sue cose dall'appartamento di Matteo dopo la fine della loro storia d'amore. Quel giorno Matteo torna a casa, la casa in cui hanno vissuto insieme per sette anni, e scopre che S. si è tolto la vita. Mentre chiama inutilmente aiuto, capisce che sta vivendo gli istanti più dolorosi della sua intera esistenza. Da quegli istanti sono passati quasi venticinque anni, durante i quali Matteo B. Bianchi non ha mai smesso di plasmare nella sua testa queste pagine di lancinante bellezza. Nei mesi che seguono la morte di S., Matteo scopre che quelli come lui, parenti o compagni di suicidi, vengono definiti sopravvissuti. Ed è così che si sente: protagonista di un evento raro, di un dolore perversamente speciale. Rabbia, rimpianto, senso di colpa, smarrimento: il suo dolore è un labirinto, una ricerca continua di risposte - perché l'ha fatto? -, di un ordine, o anche solo di un'ora di tregua. Per placarsi tenta di tutto: incontra psichiatri, pranoterapeuti, persino una sensitiva. E intanto, come fa da quando è bambino, cerca conforto nei libri e nella musica. Ma non c'è niente che parli di lui, nessuno che possa comprenderlo. Lentamente, inizia a ripercorrere la sua storia con S. - un amore nato quasi per sfida, tra due uomini diversi in tutto -, a fermare sulla pagina ricordi e sentimenti, senza pudore. Ecco perché oggi pubblica questo libro, perché allora avrebbe avuto bisogno di leggere un libro così, sulla vita di chi resta. Ma c'è anche un altro motivo: "In me convivono due anime" scrive, "la persona e lo scrittore". La persona vuole salvarsi, lo scrittore vuole guardare dentro l'abisso. Per vent'anni lo scrittore che c'è in Matteo ha cercato la giusta distanza per raccontare quell'abisso. E quando si è trovato nel punto di equilibrio, da lì, da quella posizione miracolosa, ha scritto queste parole, che, seppur lucidissime, sgorgano con la forza e la naturalezza dell'urgenza. Ciò che stiamo consegnando nelle mani di chi legge è un dono, sì, ma un dono di straordinaria gravità. Eppure, ognuna di queste pagine contiene un germe di futuro, la testimonianza di come, persino nelle pieghe di un dolore indicibile, la scrittura possa ancora salvare.
Immaginate una commedia romantica senza love story. Prendete la Santa Vergine Maria e trattatela come una di noi: jeans di H&M e scarpe da ginnastica. Poi lasciatevi stupire. Elisabetta, detta Betty, è una ragazza di venticinque anni senza particolari pretese né ambizioni. E di Milano, vive con la madre nel quartiere di Lambrate e fa la segretaria in uno studio dentistico con un contratto a tempo indeterminato, una vera fortuna se paragonata alle situazioni precarie in cui versano Vero, la sua migliore amica, e Luchino, il suo più stretto confidente. Si divide fra lavoro, fidanzato e serate in compagnia. Una normalità rasserenante. Ma una sera, dopo piccoli avvertimenti a cui non dà peso, le appare Maria, la Madonna, proprio in camera sua. È un'apparizione esclusiva, a carattere privato. Nessun segreto da rivelare, nessuna profezia di catastrofi imminenti. Maria ha bisogno di un'amica. Di una persona semplice, quasi banale, da frequentare e con la quale condividere esperienze quotidiane. Vuole essere una ragazza qualsiasi, ciò che non è potuta mai essere.

