
Quando "il Maestro" e "il Poliziotto" s'incontrano Nicola Longo è già celebre, Federico Fellini ne ha seguito le imprese sui giornali appassionandosi a una carriera fitta di operazioni sotto copertura, scontri a fuoco, ferimenti e casi risolti. Tra i due, messi in contatto da Tonino Guerra, nascono subito una reciproca fascinazione e la voglia di lavorare insieme. Il primo tentativo - un film tratto dal romanzo autobiografico di Nicola, "La valle delle farfalle" - fallisce per contrasti con il produttore Renzo Rossellini. Il regista rilancia, sa che Nicola può essere la guida perfetta per decifrare il presente dei primi anni Ottanta: un eroe senza retorica, diviso tra l'orgoglio del proprio ruolo e una nascosta amarezza, con la consapevolezza del male e dei suoi indefiniti contorni. "Poliziotto" raccoglie i sei racconti che i due produssero, con l'aiuto di Gianfranco Angelucci, chiusi nello studio di Fellini nell'estate del 1983. Longo racconta impassibile, la voce è fredda e impersonale, irresistibilmente ipnotica. Fellini ascolta e annota, nella sua mente le storie diventano l'affresco di un mondo assediato da una violenza cieca e pervasiva che tutto confonde. Sono episodi di lotta quotidiana, che attraversano i bassifondi della malavita, s'immergono nel vortice caotico del crimine e arrivano a sfiorare il fantasma dei poteri occulti. Questi racconti, sospesi in precario equilibrio tra descrizione della realtà e metafora visionaria, non diventaranno film...
Ogni isola delle Eolie è il fossile di un animale. Stromboli è l'antenato del cinghiale. Panarea è il progenitore di un geco. Filicudi è un triceratopo rivolto verso l'abisso. Vulcano ha la pelliccia gialla del primo leone. Salina, con i suoi due vulcani, è l'antenato del cammello. Alicudi è il fossile di un canguro che fa il morto a galla. Lipari affiora come un coccodrillo. Se mai decideste di visitarle, uscite di casa all'alba e tornate in piena notte, percorretele tutto il giorno a piedi da un'estremità all'altra, senza fermarvi. Passate una notte all'aperto. E soprattutto cambiate isola di continuo, spostatevi quanto più potete. Perché le Eolie sono sette. E per sentire il loro racconto completo bisogna visitarle tutte e tornare e ritornare anche dove si è già stati.
Un ballo all'aperto. Fine estate. Un'orchestrina suona vecchi pezzi anni sessanta. Checco e Renata dondolano tra le coppie, belli, complici, divertiti. Hanno deciso di prendersi una serata tutta per loro: nulla da festeggiare in particolare, solo il semplice piacere di stare insieme dopo tanto tempo. Sulle note delle canzoni che hanno scandito la loro storia, si rivedono poco più che ventenni in un'Italia che decollava: Checco giovane ingegnere in carriera, Renata studentessa, poi insegnante. Guardandosi negli occhi ricordano il loro primo incontro, le gite al mare sulla decappottabile di lui, gli amici, i genitori, le nozze e poi la vita insieme: la vita felice di una coppia colta, innamorata, invidiata. Ma c'è una voce misteriosa a fare da controcanto. È lei a raccontare in rima le zone d'ombra delle loro esistenze, intrecciate a quelle del paese. Una voce che nessuno sembra sentire, tranne Renata, o che forse nessuno vuole ascoltare. La voce di un uomo che nessuno vede o che nessuno forse vuole vedere. Perché ha il dono.
Corso Bramard è stato il commissario più giovane d'Italia. Meditabondo, insondabile, introverso, capace di intuizioni prossime alla chiaroveggenza. Fino a quando un serial killer di cui seguiva le tracce ha rapito e ucciso la moglie Michelle e la piccola Martina. Da allora sono passati vent'anni. Corso vive in una vecchia casa dimessa tra le colline, insegna in una scuola superiore di provincia e passa gran parte del tempo arrampicando da solo in montagna, spesso di notte e senza sicurezze, nell'evidente speranza di ammazzarsi. Perché, come suole ripetere, "non c'è nessuna vita adesso". Eppure qualcosa è rimasto vivo in lui: l'ossessione, coltivata con quieta fermezza, di trovare il suo nemico. Il killer che ha piegato la sua esistenza e che continua a inviargli i versi di una canzone di Léonard Cohen. Diciassette lettere in vent'anni, scritte a macchina con una Olivetti del '72. Un invito? Una sfida? Ora, quell'avversario che non ha mai commesso errori sembra essere incappato in una distrazione. Un indizio fondamentale. Quanto basta a Corso Bramard per riprendere la caccia, illuminando una scena popolata da personaggi ambigui e potenti, un dedalo di silenzi che conducono là dove Corso ha sempre cercato il suo appuntamento, e il suo destino.
È sera e Cesare è nella sua baita, quando si accorge che manca l'acqua. Va a controllare. Ma al torrente lo attende una macabra sorpresa: riverso, a tappare la condotta, giace il corpo del suo amico Fausto. La notizia si diffonde in un battibaleno ma la gente si cuce la bocca. Tutti, polizia compresa, ritengono che il delitto sia legato al traffico di clandestini. Quindi, sicuramente un regolamento di conti. Alla ricerca della verità si muove anche il commissario, una donna bella ed estranea al mondo della valle, convinta che Cesare sia stato una figura chiave di quel traffico. Ma la verità alla fine emergerà proprio grazie a Cesare che, indagando da solo sulla morte dell'amico, capirà che la ragione è da ricercarsi in tutt'altra direzione.
Leonardo, scrittore e professore universitario, dopo lo scandalo che ha distrutto la sua vita familiare e la sua carriera letteraria, si è ritirato nel piccolo paese natale dove conduce un'esistenza ritirata e solitaria. I tempi in cui era un padre felice, le sue lezioni affollate e le sue letture che riempivano i teatri, sono lontani: Leonardo da sette anni non scrive e non ha notizie della moglie e della figlia. Ma non è solo la sua vita ad aver subito un tracollo. Nel paese dilaga la barbarie. Rapine, sopraffazioni, omicidi, bande. L'esercito che tutti pensavano impegnato a bloccare l'invasione degli "esterni" è allo sbando. La gente ha paura e si arma: nascono ronde e corpi armati per difendere le frontiere, le città, le case. I telefoni smettono di funzionare, la televisione di fornire notizie, le banche di erogare denaro. L'ondata di violenza giunge anche fra le colline dove Leonardo ha cercato rifugio, costringendolo a fare i conti con il nuovo mondo e la sua spietatezza. Unica via di scampo sembra essere la fuga a occidente. Inizia così un viaggio pieno di insidie, avventure, drammi che porterà il protagonista a sperimentare sulla sua pelle l'evoluzione dell'odio, del coraggio e del male. Davide Longo, tra le voci più importanti della nuova narrativa, scrive un romanzo sul nostro paese senza mai nominarlo, un luogo dove l'odio comanda, unisce e divide gli uomini ridotti a distruggersi e umiliarsi per sopravvivere.
“Il colore della storia è soprattutto affidato al continuo, simbolico gioco di buio e di luci, di albori e di notti. Così come è altra metafora l’insistenza del ritratto etico che punta tutto sullo sguardo o sul dettaglio. Ma il collante del romanzo è affidato alla secchezza e alla spezzatura di uno stile senza trasalimenti. Impeccabile nel rendere il tono da cronaca esistenziale di un animo.” Giovanni Pacchiano, “Il Sole 24ore”
“Il trentenne Davide Longo ha scritto un libro scabro, essenziale, che ricorda da vicino le pagine di Fenoglio e Pavese, per via di una narrazione fatta di vuoti ed elisioni, e tuttavia perfettamente tornita e compiuta. Molto belle le descrizioni del paesaggio africano, vuoto e misterioso. Alla pari del tenente di Flaiano, Pietro esprime un male di vivere, un senso di disagio, che in Tempo di uccidere prende la forma della paura e dello squilibrio mentale, mentre qui quella di un impulso improvviso e inatteso,un piccolo colpo di scena nella storia. Il destino manovra la vita e Pietro si culla nell’illusione di esserne fuori, mentre è già stato giocato. Scritto con piglio sicuro, Un mattino a Irgalem è decisamente una storia del nostro tempo, un buon esempio di romanzo italiano di cui si erano smarrite le tracce.” Marco Belpoliti, “L’Espresso”
Etiopia 1937: lo scenario insolito di una guerra che si è preferito per questo bellissimo romanzo
d’ esordio di Davide Longo. Pietro, tenente avvocato torinese, viene mandato in Africa per difendere la causa del sergente Prochet, un uomo che nessuno difenderebbe, perché ha commesso atrocità ingiustificabili, con una ferocia che si spiega solo con le parole del medico Viale, “ne vedo tutti i giorni di gente che dà fuori per colpa di questo posto”. In realtà il destino di Prochet è già segnato da tempo: è stato uno strumento nelle mani di superiori che si sono serviti di lui e della sua natura indubbiamente violenta, per poi sbarazzarsene quando è diventato una figura scomoda e fuori controllo. Pietro tenta di aprire un varco nel silenzio ostinato di Prochet, per alcuni un eroe della guerra che ha dato all’Italia un impero, secondo i più “un matto, una bestia, uno che l’Africa gli ha fatto male”. Scortato da un “ragazzino dagli occhi azzurri, in una divisa cachi troppo grande”. Incalzato dai superiori, che vogliono il caso chiuso al più presto. Accompagnato dalle partite a scopa e dalle conversazioni con il tenente medico Viale, gay e amico di vecchia data rifugiatosi nell’altipiano per non incappare nell’intransigenza fascista. Ma… perché hanno affidato proprio a lui quel caso a duemila chilometri dal suo Paese? Si sale sul treno polveroso dei militari, al primo capitolo, e fra una sigaretta fumata “stretta” da Pietro e un ruvido paesaggio africano, non si scende fino all’epilogo. In meno di 200 pagine, con uno stile asciutto e un’economia di linguaggio che gli è valso nel 2001 il Premio Grinzane Cavour come miglior esordio dell’anno, Davide Longo racconta attraverso la storia personale di un singolo, quella“impresa d’Africa” che è stata uno sfogo delle manie di grandezza e di imperialismo di tutta una nazione.
Davide Longo è nato a Carmagnola, nei pressi di Torino, nel 1971. È scrittore, documentarista e insegnante. I suoi romanzi Un mattino a Irgalem (Premio Grinzan e Opera Prima 2001 e Premio Via Po) e Il Mangiatore di pietre (Premio Città di Bergamo e Premio Viadana 2004) sono stati pubblicati da Marcos y Marcos e poi da Fandango Libri. Per Corraini, dopo La vita a un tratto (2006) e Lettera prima (2007) ha scritto il libro per bambini Pirulin senza parole, con Chiara Carrer. Ha curato la raccolta Racconti di montagna (Einaudi, 2007). Collabora con la Scuola Holden di Torino e insegna lettere in un piccolo paese tra le colline del Roero.
Un pomeriggio di agosto, verso la metà degli anni Novanta. Nel silenzio immobile della controra, una voce chiede aiuto. Una volta, due volte, dieci volte il grido risuona nell'androne ombroso di una elegante palazzina di Posillipo. Poi il silenzio, di nuovo, avvolge la strada. Nessuna porta si è aperta, nessuno degli inquilini ha risposto all'appello della ragazza. In quell'androne la troverà, morta, un giovane poliziotto, uno che viene da un quartiere che sembra appartenere a un altro mondo, nella periferia orientale della città. È la prima volta che vede un cadavere - e quella ragazza potrebbe avere la sua età. Nel vuoto sospeso di una Napoli dove chi può permetterselo è partito per le vacanze, e chi non può aspetta Ferragosto per andare a passare una giornata a Ischia o a Procida, il giovane poliziotto si intestardisce a chiedersi chi era quella sua coetanea che sembrava così normale, chi ha potuto ammazzarla, e perché. Interrogherà i vicini, rintraccerà gli uomini che l'hanno amata. Scoprire la verità (tanto imprevedibile quanto inquietante) lo indurrà a guardare con meno candore, e a giudicare con meno benevolenza, quella parte della città i cui abitanti, pur non essendo né camorristi né spacciatori né tossici - ma liberi professionisti, intellettuali, "gente perbene", insomma -, hanno anch'essi i loro ignobili segreti, le loro viltà nascoste.
Il primo sorriso Caterina e Lorenzo se l'erano scambiato al 'party' del sindaco - "Ca lu chiamava party picchè faceva cchiù moderno." Era da un pezzo che Lorenzo teneva nel cuore quella malattia, ma aveva cercato di non pensarci: perché sulla "vuaglioncella" aveva messo gli occhi Rancio Fellone, il figlio dell'uomo più ricco del paese, e lui, Lorenzo, era solo il nipote dello scarparo: "Pirciò aviva deciso ca Caterina se l'aviva levare da la capa". Poi, quella sera, lei lo aveva guardato, e non aveva smesso di guardarlo mentre lui suonava la tammorra come mai prima. E da allora si erano visti di nascosto, ogni domenica mattina, al mare. Ma Rancio Fellone sapeva: e aveva deciso di vendicarsi, e insieme di togliersi quel "vulìo". Così, il giorno della festa di San Vito, mentre sulla piazza del paese tutti si preparavano a scatenarsi nella pizzica, Rancio Fellone, insieme ai suoi degni compari Cicciariello e Capa di Ciuccio, aveva aspettato i due ragazzi nel campo di girasoli dove si erano dati appuntamento. E la cosa sarebbe finita male se non lontano da quello stesso campo non si fossero fermati, dopo aver goffamente svaligiato un banco lotto, due rapinatori improvvisati: Dummenico, un operaio disoccupato, e il Professore, uno di quelli che ancora credevano alla solidarietà, al popolo e alla rivoluzione proletaria. Saranno questi due "angeli con la pistola" (comprata, peraltro, in un negozio di giocattoli) il deus ex machina della vicenda...
Genny ha sedici anni e lavora in un bar dalle parti di via Toledo; gli piace giocare a pallone e fare il buffone sul motorino. Perché, dicono gli amici, come lo porta lui, il mezzo, non lo porta nessuno. Tania di anni ne ha quindici, va ancora a scuola e dorme in una stanza che "tiene il soffitto pittato di stelle"; le piacciono le scarpe da ginnastica rosa e i bastoncini di merluzzo. La madre di Genny "ha quarant'anni, forse pure qualcuno in meno, ma il viso è segnato da certe occhiaie scure che la fanno sembrare più vecchia"; passa le giornate a fare gli orli ai jeans: venti orli ottanta euro; ogni tanto si interrompe, prende le carte e fa i tarocchi; e ogni tanto, quando non riesce a respirare, si attacca all'ossigeno. La madre di Tania fa la poliziotta, ha un corpo asciutto, muscoloso, e vicino all'ombelico "la cicatrice tonda di quando l'hanno sparata"; ed è una che se qualcosa va storto non esita a tirare fuori la pistola. Un sabato pomeriggio, in una strada del Vomero, le vite di Genny e di Tania si incrociano in modo tragico: e una madre decide di fare giustizia. A modo suo. Come già in "Dieci" con quella scrittura spigolosa e incalzante che riesce, è stato scritto, "a riattivare ciò che giace inerte nel linguaggio collettivo e privato", Andrej Longo ci racconta una certa Napoli, e gli uomini e le donne che la abitano: protervi e feriti, crudeli e generosi.
Nel momento stesso in cui sente una piccola vita fiorire dentro di sé, una donna diventa madre. E per tutte quel momento è lo stesso. Ma per un padre non è così.
Va bene, avremmo avuto un bambino: sarebbe stato piccolo, di dimensioni comunque contenute almeno per qualche tempo, ogni suo tratto sarebbe stato equamente diviso tra noi due, con alcune doverose concessioni ai parenti tipo il naso tutto di zia, le orecchie di nonna sua, per poi passare ad upgrade successivi in cui il pargolo sarebbe cresciuto in totale armonia e tranquillità. Qualcosa continuava a sfuggirmi. Avrebbe influito col calcetto del giovedì?
Potrebbe essere nella sala d'attesa di un ospedale, potrebbe essere la prima volta che tocca quel piedino paffuto. Potrebbe essere dopo un minuto, ma anche dopo un mese. Per ogni uomo la prima volta che comincia a sentirsi padre è diversa. E questo non è che l'inizio di un'avventura tutta da vivere (e a cui sopravvivere). Il primo giorno di scuola, la prima delusione, il primo amore, il primo discorso sul sesso (no, davvero, quello no), la prima scelta importante... Ogni giorno una sfida diversa che Paolo Longarini affronta tra una treccina sfatta, un ginocchio sbucciato e gli occhioni delle sue figlie Chiara e Irene che lo guardano con un misto di amore totale e compassione. Ed è in ognuno di questi momenti che un padre si trasforma, cresce, inciampa, si rialza. Da semplice uomo diventa padre. E credete, è molto, molto meglio.