
Una raccolta di testi chiave del Romanticismo italiano (accanto al "Discorso" questa edizione propone la "Lettera sulle traduzioni" di Madame de Stael, la Lettera di Leopardi a Madame de Stael, il "Giaurro" di Di Breme).
Se c'è un libro dove Manganelli ha mostrato, nella forma più radicale ed estrema, che cosa intendeva per letteratura, è questo. Ed è senz'altro una concezione allarmante rispetto a quelle correnti. Per Manganelli, la letteratura è qualcosa di ben più temibile ed enigmatico di quel che pensano quanti si sforzano «di mettere assieme il bello ed il buono». A costoro la letteratura non può che rispondere «con sconce empietà». Perché il suo compito non è di interpretare, documentare, esprimere idee, semmai di disorientare, inquietare. Di ridere - astratta e solitaria. È il riso antico di Dioniso, senza il quale non ci sarebbero parole. Cadono così, sotto i colpi di Manganelli, molte certezze: persino la fiducia che riponiamo nella figura dello Scrittore. Che in realtà è solo un «passacarte», un Grande Mentitore, agito dalle parole. La scrittura, infatti, accade, e lo attraversa e parla per suo tramite. Ma anche i lettori non hanno di che stare tranquilli. Devono finalmente rendersi conto che coltivano una «dolce e ritmica demenza».
Una notte di due anni fa, Walter Veltroni ricevette in regalo il disco di un pianista jazz che non aveva mai sentito nominare. Una musica che evocava un misterioso paesaggio interiore, che esprimeva un dolore profondo. Dalle note di copertina Veltroni scoprì che il giovane musicista, Luca Flores, si era suicidato poco giorni dopo l'incisione, nel 1995. Da allora, l'attuale sindaco di Roma ha cercato di scoprire tutto quello che poteva su un uomo che ormai considerava un amico perduto. In questo volume ripercorre la sua vita, dalla nascita a Palermo nel 1956 al diploma al Conservatorio di Firenze, fino alla sua affermazione sulla scena del jazz italiano e internazionale, e alla morte.
Bologna, autunno 1312. Mondino de’ Liuzzi, medico anatomista, viene incaricato dal podestà di far luce su una morte strana e orribile: un membro del Consiglio degli Anziani è stato ritrovato carbonizzato in casa sua, eppure nella stanza nulla fa pensare a un incendio. Perfino la poltrona su cui l’uomo era seduto è rimasta quasi integra, mentre il corpo è bruciato in modo irregolare. I piedi sono illesi, un braccio è interamente ustionato, tutto il resto è ridotto in cenere. Mondino fa trasportare il cadavere nella sua scuola di medicina per esaminarlo; sollevando con il coltello da dissezione la pelle bruciata del braccio scopre i resti di un tatuaggio: un mostro alato, con la testa di leone e il corpo avvolto nelle spire di un serpente.
La mattina seguente il cadavere è scomparso.
Il giorno successivo, anche un frate francescano viene ritrovato morto nel quartiere dei bordelli. È stato evidentemente assassinato. Unica traccia, un disegno molto simile al tatuaggio scoperto da Mondino. L’indagine sulle due morti misteriose rivela l’esistenza di una setta di cultori di Mitra, dio persiano del sole e del fuoco, adorato anche dai romani con il nome di Sol Invictus. Con l’aiuto di Gerardo da Castelbretone, un ex templare con cui ha stretto amicizia, Mondino viene a sapere che la setta si propone di salvare l’intera città per mezzo del fuoco purificatore: un grande incendio rituale in cui le anime di quelli che moriranno si riuniranno con il dio.
Tocca a Mondino fare di tutto per sventare la terribile minaccia che incombe sulla città e impedire ulteriori omicidi.
Antono si trova da solo in casa quando viene colpito da un infarto. In quel istante Anton rivede la sua vita, ma alla mente affiorano solo i ricordi peggiori ossia i suoi tradimenti, abbandoni, opportunismi, ipocrisie, nei confronti della famiglia, degli amici e della società. Anton ha solo cinquantanni ed è un corrotto procacciatore d'affari e di appalti truccati.
Sono atmosfere rarefatte e surreali a fare da sfondo ai racconti di "Disadorna". Seguendo quel tocco lieve e ironico che contraddistingue il realismo magico tutto padano di Dario Franceschini, incontriamo uomini storditi di fronte alla vastità del mare, ci perdiamo nella nebbia che avvolge la pianura, scoviamo ricordi e amori lontani, vediamo le storie con gli occhi dei protagonisti. Forse, ci dice l'autore, è proprio nelle cose più semplici della vita che si nasconde la felicità.
In un mondo in cui esiste solo l'informazione, che si avvita su se stessa, parla di se stessa, megafono del nulla, quel poco di realtà che c'è ancora è ignorata dai media e quindi non esiste, perché come dice lo slogan di Teleworld "fatto è la notizia e la notizia è il fatto". Il distacco tra virtuale e reale è ormai completo. Insospettito da alcuni segnali il protagonista, Matteo, in tre giorni di ricerca angosciosa durante i quali assiste a episodi di inaudita e gratuita violenza, di cui nessuno dà conto, scoprirà questa verità di cui gli altri, paghi e storditi dall'incessante rumore di fondo dei media, non sembrano preoccuparsi o avere coscienza. Matteo è un uomo in grigio, ingenuo e mite. Né eroe né rivoluzionario, la sua ribellione sarà la morte. Mentre il mondo dell'informazione, a causa di un blackout, imploderà su se stesso e scomparirà insieme ai suoi aiutanti. Il finale del libro, che a suo modo è anche un giallo, è a sorpresa.
Buenos Aires all'inizio del Novecento è una grande città in crescita tumultuosa. Per molti immigrati "e come quando si sta in prigione e ti manca l'aria; solo che qui la gabbia è fatta di troppe strade, di case troppo affollate, di rogge puzzolenti di acque luride". C'è un assassino che si aggira per la città, e che per anni, impunito, fa strage di innocenti. Le vittime sono soprattutto i figli degli italiani che vivono nei conventillos in condizioni di assoluta povertà. Ragazzini abbandonati a se stessi, ninos de calle i cui sogni sono destinati a spegnersi nella rabbia giorno dopo giorno. Chi può volerli morti? La verità sta sotto gli occhi di tutti, ma nessuno la sa vedere. Possono intuirla solo gli stessi bambini, perché quella verità, forse, si muove all'altezza dei loro occhi.
"Il germe della stupidità, a dire il vero, era presente nel mondo da milioni di anni, e anche nell'albero genealogico del giudice di corte d'appello Erich Stoiber si era manifestato con frequenza e con un certo vigore". Sarà per questo che il giudice Stoiber, dopo un'intera vita immutabile, decide di farsi crescere la barba e di corteggiare con ardente passione la stagionata segretaria Verona, ignorata da più di vent'anni. Parte da questo irresistibile spunto narrativo una girandola di situazioni paradossali, assurdità quotidiane e umanissime miserie, come un presepe di quadri viventi raccolti intorno al Dio della stupidità, che "ha incominciato a trasmettersi da un individuo all'altro come la tosse asinina o il colera". Ma anche nel mondo degli inferi c'è qualcosa che non va, se a raccontarci il dirottamento del volo United Airlines 93 il giorno 11 settembre 2001 è il Diavolo in persona, un povero diavolo innamorato che ha creato l'uomo a sua immagine e somiglianza senza prevedere lo scompiglio dei sentimenti. Non resta che aspettare il "grande caldo dei prossimi mille anni", un immane deserto di senso dove un esserino impazzito come la Mosca potrebbe essere la sola entità trascendentale capace di decidere chi vive e chi muore. Un romanzo in tre movimenti, drammatico e divertente, in cui Vassalli prosegue nella sua analisi spietata della contemporaneità, allargando il campo all'esistenza dell'uomo sia come possibilità fisica che come bisogno di risposte metafisiche.
I protagonisti di "Dio giocava a pallone" sono ragazzi nati, come l'autore, all'inizio degli anni novanta e ognuno di loro esplora inquieto quel passaggio all'età adulta che li renderà sconosciuti a se stessi. I compiti in classe, con il loro schema quasi calcistico di chi passa la soluzione e di chi se ne appropria, i giorni di scuola dove un buon voto è la possibilità di andare al mare e di innamorarsi al sole, le feste con la luna in cielo e i baci infuocati sulle panchine con partner inattesi, un'isola inventata, metafora dell'adolescenza da cui si esce ritrovandosi perduti, l'ascolto attento e proibito dei desideri del proprio corpo, le intermittenze del cuore e quelle dei sensi, le corse pazze e forsennate con i motorini truccati che trasformano i viali e i lungomari in un nostalgico far west pomeridiano. Con una prosa consapevole e immacolata, Giorgio Ghiotti svela un'adolescenza che è il presente indicativo dello stare al mondo e ci racconta perché nessuno la abbandona mai veramente.
Oggi. Una giovane senza passato si aggira per le strade della città. Non ha nome né casa e indossa un grosso cappotto di lana: sembra una vagabonda come tante, eppure è capace di trasformare ritagli di carta in pesciolini guizzanti e di leggere nel cuore di chi la circonda le sofferenze più intime e i traumi più segreti. Chi sarà mai? si chiedono quelli che la incrociano. Se solo conoscessero la risposta, resterebbero senza fiato. È Dio tornato sulla Terra. Anzi tornata: perché se il peso della lontananza dagli uomini è insopportabile, se solo condividendone le gioie e le pene si può essere veramente e pienamente Dio, cosa c'è di meglio che incarnarsi in un corpo di donna e affrontare il creato? Ma quando il Creatore diventa creatura, la natura umana prende il sopravvento: il Dio fatto donna è fragile e soggetto a stupori e paure. Dubita dei propri poteri, si interroga sull'esistenza del male e non esita a mettersi in discussione. Conosce la gioia dell'innamoramento e dell'intimità e il sapore aspro della cattiveria, sperimenta il groviglio inestricabile di luce e oscurità del mondo. In un caleidoscopio di avventure tenere, buffe, drammatiche, Dio riscoprirà passo dopo passo la propria divinità, attraversando la vita e la morte fino all'epilogo, spiazzante e sorprendente. Perché la risposta che tutto spiega è celata nelle pieghe della vita vissuta.
"Tantissimi anni fa, per una collana chiamata "Invito alla lettura di...", fra tanti autori del nostro Novecento scelsi di scrivere su Dino Buzzati. Il clima culturale era ancora così palesemente influenzato dalle mode neorealistiche, che lo stesso direttore della collana, poco amante delle atmosfere e dello stile buzzatiani, tentò di modificare il mio testo in senso molto negativo verso l'autore, direi addirittura sprezzante. Non ci riuscì. Buzzati è un grande, ed è ormai un classico. Il deserto dei tartari continua ad affascinare i lettori ed è diventato proverbiale; le novelle dei primi libri hanno spesso una perfezione incantata, sembrano scolpite nel cristallo. E il mio piccolo libro mi pare ancora la chiave giusta per entrare nel suo mondo".