
Yves Klein ha tutte le qualità che ci si aspetta da un personaggio di un romanzo. Costruito su base di eventi reali e testimonianze incrociate, questo romanzo inizia nel 1952 in Giappone, quando Yves Klein impara judo presso il Kodokan di Tokyo, per finire con il Monocromo blu esposto al Centre Georges Pompidou di Parigi. Il ritratto dell'artista che emerge in questo libro è fatto di finzione e realtà, che Teodoro Gilabert reinventa per il nostro piacere, coinvolgendo studenti dell'Istituto franco-giapponese, la zia Rosa, la madre dell'artista, belle amanti vere o presunte, la moglie di Klein, i suoi amici, una guardia di museo, gli artisti, i galleristi... Il tutto negli anni 1950 e 1960 a Parigi, quando la vita artistica sembrava tenere l'impossibile e audace.
Centosessant'anni di storia del capitalismo vengono squadernati in un continuo saltare fra terzietà saggistiche, flussi romanzeschi, narrazioni di incubi e vaneggiamenti, il tutto punteggiato da isole realistiche in cui l'improvviso andamento da sceneggiatura filmica è inframmezzato di continuo dal commento in contrappunto di un ignoto narratore onnisciente [...] È questo congegno, ambizioso e riuscito, di continua osmosi fra dentro e fuori, a farmi avvicinare 'Lehman Trilogy' ai fluviali atti di 'Strano interludio' di Eugene O'Neill, ed è notevole che questa ardita soluzione drammaturgica mantenga la sua vigorosa efficacia nel corso di un trittico quasi wagneriano, dove l'Oro del Reno di un'Alabama negriera giungerà, inevitabile, al Crepuscolo dei divini indici di Wall Street." (Dalla prefazione di Luca Ronconi)
Il volume presenta una riflessione teologica sul pensiero e sugli insegnamenti di Paolo VI sull'arte in stretto rapporto con la fede.
"Prima del disastro dell'11 marzo 2011 alla centrale atomica Fukushima Daiichi, in Giappone un mito veniva propinato ai cittadini come verità. Il mito diceva che un incidente in una centrale nucleare non sarebbe mai potuto accadere, era impossibile. Dopo l'incidente è stato chiamato il "mito della sicurezza". Poi però il disastro nucleare è diventato una realtà e ha diffuso particelle radioattive in tutto il mondo. Ora, nel mezzo di una situazione irreparabile, in Giappone le forze filonucleari, quelle che hanno continuato a vendere il mito, cercano di diffonderne una nuova variante. Il mito della sicurezza è diventato il "mito della rassicurazione": "Non vi preoccupate, gli effetti delle radiazioni non sono gravi!". Così, per favore, non volgete altrove lo sguardo di fronte alle foto di questo libro. Restate all'ascolto delle voci delle vittime, compresse nel loro dolore: perché non possiamo permettere un nuovo incidente nucleare, non solo in Giappone ma ovunque al mondo."
Il libro vuole ripercorrere l'opera di Fabrizio De André facendo affiorare le radici della sua sensibilità certamente laica, ma unita a dimensioni proprie del sentire religioso e cristiano, in particolare. Non per "battezzare" Fabrizio - che rimane estraneo ad ogni appartenenza - ma per raccogliere motivi senza i quali riteniamo non si può adeguatamente comprenderlo. Una religiosità, in fondo, mai negata, sviluppata in quella forma liminare al religioso e all'etico che appartiene ad una visione complessiva e profonda della realtà vicina alla mistica. Una laicità mistica, dove l'ultimo termine è aggettivo, modalità di esercizio della laicità. Al di là del bene e del male, sulla cattiva strada. Questa dimensione - che crediamo ultimamente propria di ciascuno - lo fa trasversale ad ogni appartenenza religiosa, morale, politica, rendendolo affine e connaturale a tanti, credenti e non credenti, a uomini di diversa convinzione morale e politica. A generazioni diverse. Il nostro sforzo è, dunque, quello di motivare questa lettura, certi che costituisca almeno l'indicazione di un percorso finora quasi del tutto trascurato. Dobbiamo a Fabrizio un grazie particolare, non solo per aver accompagnato - e non smetterà mai di esserci - l'intera nostra esistenza, ma soprattutto per averci permesso di crescere insieme a tutti quegli uomini e donne che si sono ritrovati attorno alla sua chitarra, che hanno sussultato appena la sua voce irrompeva magicamente tra le mura delle case...
Anche per chi abbia familiarità col suo universo visivo - disseminato di figure, paesaggi, oggetti, e disegni dentro disegni dentro disegni - lo sguardo di Tullio Pericoli non è facile da ricostruire. Almeno fino a quando non si coglie un dato essenziale e singolarissimo, e cioè che a guidare quello sguardo non è soltanto l'occhio, ma un organo più irrequieto e nervoso, che si lascia dirigere solo fino a un certo punto, e da lì in poi asseconda, prima di tutto, i propri imprevedibili talenti: la mano. In questa conversazione con Domenico Rosa, Pericoli ne parla per la prima volta apertamente, con il gusto e spesso la sorpresa di scoprire via via, insieme a chi ascolta e poi a chi legge, i meccanismi e gli incantesimi del proprio lavoro: sciogliendone vari enigmi, e avvicinandoci, nel modo più attraente, a quella singolare "sapienza" che è nella mano.
Paul Gauguin, Claude Monet, Edgar Degas, Alfred Sisley, Camille Pissarro, Vincent van Gogh, Édouard Manet, Camille Corot, Georges Seurat, Paul Cézanne, Pierre-Auguste Renoir... Attraverso una selezione di straordinarie opere realizzate tra il 1848 e il 1914 dai grandi maestri francesi e appartenenti alle collezioni del Musée d'Orsay, il volume propone un percorso artistico che parte dalla pittura accademica dei Salon e attraversa la rivoluzione dello sguardo impressionista fino ad arrivare alle soluzioni formali dei nabis e dei simbolisti. Pubblicato in occasione dell'esposizione romana, il catalogo ripercorre, nella parte introduttiva, la storia del Museo, i progetti architettonici e allestitivi e le scelte museografiche e curatoriali che hanno guidato il suo allestimento attraverso i saggi di Guy Cogeval, Alice Thomine-Berrada e Xavier Rey (Capire la storia dell'arte raccontata al Musée d'Orsay).
Lungo la sua carriera di storico dell'arte l'autore ha incontrato la maggior parte dei collezionisti, degli antiquari e degli studiosi del secondo Novecento. Questo libro non è una biografia né una storia vera e propria quanto, piuttosto, una serie di incontri e di scelte. Alcuni individui che hanno comunque segnato la sua esistenza non vi compaiono per diversi motivi: taluni non gli erano congeniali, altri li ha amati al punto di rendergli difficile parlarne ora. Per i suoi stessi limiti biografici in questa raccolta si parla molto dell'Italia ma non solo di italiani. Il narratore è nato a Cuba e ha vissuto in diversi paesi, soprattutto in Francia, in Spagna e in Inghilterra. Scrive in italiano, una lingua inventata che non è la sua, come non lo sono più il materno spagnolo o il francese o l'inglese. Questo non lo fa essere comunque super partes: leggendo questi ritratti si ha l'impressione che il giudizio non manchi mai e che l'occhio non sia sempre indulgente. La teoria dei personaggi si apre con Bernard Berenson, si chiude con Alfonso Perez Sànchez e include figure molto diverse come Anthony Blunt, Liliane de Rothschild, Francis Haskell, J.P. Getty, Costantino Bulgari e Daniel Wildenstein.
Johann Sebastian Bach trova nella tradizione luterana un'intelligenza teologica e spirituale che orienta in modo profondo il suo lavoro di musicista: accompagnare i fedeli dalla lettura delle Scritture all'ascolto della Parola rafforzando il legame tra ascoltare e credere e valorizzando l'udito rispetto alla vista, poiché Dio si è nascosto allo sguardo e si è sottratto allo "spettacolo" e all'artificio. Mentre la composizione di cantate, passioni e oratori faceva parte degli obblighi di Bach in quanto cantore della chiesa di San Tommaso a Lipsia, i mottetti - come Gesù, mia gioia (1723), analizzato nel volume - erano frutto di commissioni per occasioni specifiche, in particolare i servizi liturgici per i defunti (in questo caso per la sposa di un alto funzionario delle poste). La gioia alla quale il brano fa riferimento è segnata contemporaneamente dalla presenza e dall'assenza dell'amata, fenditura in cui si forma il desiderio mentre il cuore si angoscia e sospira. In questo spazio si genera un autentico combattimento spirituale, che cerca il faticoso equilibrio tra l'intelligenza e il cuore e che consente a Bach di superare la contrapposizione tra pietismo e ortodossia.
Luciano Ligabue ha sempre sostenuto - e lo ribadisce nel testo scritto appositamente per questo volume - di avere un pubblico particolare. Non solo "bello", né semplicemente "diverso" da tutti gli altri, ma proprio "speciale", e che dunque meritava di essere raccontato in presa diretta. Emanuela Papini raccoglie la sfida con un libro che nasce come testimonianza di amore reciproco e di reciproca gratitudine tra un cantautore e il suo pubblico, ma che è diventato molto di più. Perché Ligabue ha ragione: nelle storie della "sua gente" c'è il ritratto emotivo di un pezzo d'Italia meravigliosa e vera, in equilibrio precario ma forse mai così viva. Un'Italia fatta di persone che lottano, amano, credono, sognano, soffrono, rischiano, imparano, qualche volta perdono ma continuano a provare, e infine vincono. La loro quotidianità è il tessuto di un romanzo cantato in coro in cui è facile riconoscersi, perché è un po' la nostra quotidianità. E sullo sfondo, in ogni pagina, ci sono le canzoni di Ligabue: la colonna sonora che accompagna le nostre vite e qualche volta - e allora è una piccola magia - le cambia.
"Mistero buffo" è certamente il più noto, in Italia e all'estero, tra gli spettacoli di Dario Fo e anche quello che ha destato più polemiche. Prima del gesto, la parola: la forza di quest'opera, che segna un momento di profondo rinnovamento del teatro italiano, sta soprattutto nel linguaggio, qui reinventato attingendo ai dialetti padani (e non solo) dei secoli XIII-XV con effetti esilaranti. Il testo è proposto in una nuova edizione integrale, cioè proponendo anche i cambiamenti avvenuti nel corso degli anni e degli oltre cinquemila allestimenti in Italia e all'estero, tra il 1969 e il 2003.
"L'energia è la sostanza della musica beethoveniana, e i suoi modi di essere ne costituiscono i connotati. Nel catalogo di Beethoven, i quartetti per archi sono la zona in cui quei modi di essere sono concentrati nel più straordinario contesto di varianti e di arte inventiva. Comincia qui il nostro lavoro di identificazione". Un saggio che analizza i modelli filosofici, poetici, visivi dei quartetti per archi di Beethoven e ne esplora il territorio musicale e i suoi confini.