
Il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, strumento di repressione politica, fu creato dal fascismo perché, si è sostenuto, non aveva fiducia nella magistratura ordinaria. Ma cosa è stato quest'organo e che ruolo ha avuto nell'assetto istituzionale del regime? In realtà l'obiettivo era una riforma in senso fascista dell'intero sistema della giustizia; il Tribunale speciale voleva essere una specie di prova generale. Alla sua attività contribuirono, insieme ai magistrati militari e ai membri della Milizia, proprio i magistrati ordinari, con le prassi tipiche della magistratura, la loro cultura, ma anche il loro zelo repressivo. Basato su documenti inediti, lo studio indaga il concreto funzionamento del Tribunale e gli esiti, spesso contraddittori, della sua azione, senza trascurare la personalità dei giudici dei quali traccia un penetrante ritratto di gruppo.
Nadia Urbinati esplora il cuore del meccanismo democratico: la scossa conflittuale tra i ‘pochi’ e i ‘molti’, le élites e il popolo.
Il XXI secolo è punteggiato da una serie ininterrotta di manifestazioni popolari che hanno portato in piazza un diffuso scontento: le primavere arabe, Occupy Wall Street, gli indignados, i Vaffa Days, i gilet gialli, le manifestazioni sul clima, le rivolte in Cile, a Hong Kong, in Libano. Quello a cui assistiamo è un conflitto nuovo rispetto a quello rappresentato e organizzato da partiti e sindacati: è contrapposizione tra pochi e molti, tra chi detiene il potere e chi sente di non contare nulla. La frattura sociale profonda che questi antagonismi evidenziano mette in crisi l’idea stessa di democrazia e la espone al rischio di pulsioni autoritarie. Ma questo non è un esito scontato: come scriveva Machiavelli, il conflitto tra pochi e molti può essere anche un lievito di libertà, se il nuovo ordine che ne può risultare riequilibra il potere nella società.
«Secondo una celebre e fortunata espressione omerica, le parole sono alate: non tanto come gli uccelli, ma piuttosto come le frecce, che tagliano l’aria veloci per andare dritte al bersaglio e far breccia nel cuore di chi le ascolta. Da sempre i Greci sanno che la parola serve a convincere, a mostrare che cosa è vero e che cosa è giusto. Ma sanno anche che essa ha in sé una forza magica: può trasformarsi in incantesimo, capace di dominare e di trascinare l’animo di chi ascolta; di ammaliare come la musica e di curare come una medicina; ma, soprattutto, di ingannare e di illudere.»
Per gli antichi le Sirene erano mostri orripilanti, per metà uccelli e per metà donne. Eppure, esse avevano qualcosa che le rendeva irresistibili: la voce, suadente e ammaliatrice. Insieme ad altre figure mitologiche a loro affini come Circe, Calipso ed Elena, le Sirene sono in questo libro le protagoniste della prima tappa di un cammino che, partendo da Omero e a Omero ritornando, si concentra sull’Atene del V secolo, la città della democrazia e della parola. Ripercorrendo storie poco note e celebri passi di prosa e di poesia, Laura Pepe indaga le incredibili potenzialità di peithó, persuasione, la parola che insieme seduce e convince. Sovrano potentissimo, la parola è capace di compiere le imprese più divine: sa convincere del vero e del giusto, ma può anche illudere e ingannare. Scopriremo la sua forza in queste pagine, guardando ai protagonisti della politica che arringano il popolo riunito in assemblea, agli accusatori e agli accusati che si industriano a convincere i giudici del tribunale e, infine, a quei maestri di persuasione che furono i sofisti. E ancora una volta saremo grati alla Grecia antica, che – tra storia, mito, poemi e filosofia – ha dato forma al nostro modo di pensare e di confrontarci con il mondo.
Dall'antichità ai primi decenni del XVIII secolo le epidemie di peste coinvolsero ovunque tutti i possibili aspetti della vita economica, politica e sociale, con analogie impressionanti: la psicosi collettiva, la caccia ai potenziali untori, la negazione delle prime avvisaglie del contagio per timore degli effetti economici che avrebbero innescato; le devastanti conseguenze sul commercio e sull'economia (in primis la "crisi del '300"), dovute alle misure restrittive; i tentativi dei governi di sanare il deficit con prestiti, emissione di titoli del debito pubblico, nuove tasse, e di soccorrere con sussidi i disoccupati; gli assalti ai forni per paura della quarantena. È sconcertante come gli strumenti di prevenzione disponibili ai nostri giorni siano gli stessi elaborati nel '300, a partire dal Nord della Penisola, recepiti tardi dal resto dell'Europa (tardissimo dall'Inghilterra), e adottati con successo fino al 1720, quando l'ultimo cordone sanitario (a Marsiglia) debellò quasi del tutto il morbo dal Vecchio Continente. Il ricorso a forme di vera e propria "dittatura sanitaria" fu dal '300 al '700 il metodo comunemente adottato per cercare di far rispettare le misure restrittive.
Il libro è incentrato sul rapporto iniziale tra la Chiesa cattolica e il fascismo. Ricostruisce il clima sociale e politico dell'Italia tra la Grande Guerra e il dopoguerra, per rintracciare le origini culturali del fascismo, inizialmente molto legato alla cultura combattentistica e al mito della guerra rigeneratrice. Descrive il mutevole atteggiamento di Benito Mussolini verso la religione e la Chiesa cattolica, dalla fase giovanile della polemica ateista e anticristiana, sino alla svolta filocattolica dei primi anni Venti. Analizza le reazioni di parte cattolica di fronte all'avvento del fascismo e descrive i cambiamenti che intercorsero dopo la marcia su Roma e la nascita del governo Mussolini. Una parte del libro è dedicata alle diverse posizioni del cattolicesimo politico e alle vicende del Partito popolare italiano, con particolare attenzione al tema della nazionalizzazione dei cattolici, al loro ingresso nella vita politica nazionale e al binomio "fede e patria". Il libro affronta anche la questione della "religiosità" fascista, soffermandosi sul vasto apparato di riti, credenze, devozioni e simboli che fondava una fede alternativa alla fede cristiana. Descrive inoltre il tentativo mussoliniano di contrapporre cattolicesimo e cristianesimo e d'inglobare il primo, in chiave identitaria, nell'idea fascista di nazione.
La pace di Versailles ha segnato, per giudizio ormai unanime della storiografia, la fine della centralità dell'Europa nella storia mondiale. L'Europa che ne uscì, pur indebolita, continuò a interpretarsi come un «concerto delle potenze». E nell'estremo tentativo di stabilire quali di queste potenze dovessero assumere l'egemonia si giunse al loro collasso: per quanto non fosse allora evidente, si sarebbe trattato di un fenomeno che avrebbe coinvolto tanto i vinti quanto i vincitori della Grande guerra. Il tentativo di non accettare questo dato di fatto costò una nuova guerra mondiale, che lo sanzionò fuor di ogni dubbio. Nacque però una nuova e parzialmente diversa storia d'Europa, non più incentrata sul ripristino impossibile della sua centralità come «potenza» nel senso classico del termine, ma ancora percorsa dall'orgoglio di ricostruirsi almeno come «potenza civile». Questo volume offre una serie di riflessioni sulla complessità della vicenda che si è snodata fra due date simboliche: la conferenza di Versailles e la caduta del muro di Berlino. A cent'anni dal primo e a trent'anni dal secondo, in queste pagine si ragiona su una storia che ha visto mutare la geografia, i sistemi politici e sociali, la cultura, le relazioni internazionali, fino a giungere alle radici della crisi che attualmente coinvolge il nostro continente.
Attraverso cinque saggi che scandiscono il percorso di ricerca di Claudio Pavone, "Gli uomini e la storia" presenta alcuni dei contributi più rilevanti dello storico e propone una visione coerente della fase fondatrice della nostra Repubblica che affonda le sue radici fin dalla «crisi della democrazia risorgimentale». Cuore del volume è rappresentato dal saggio sulla continuità dello Stato tra il fascismo e l'immediato dopoguerra, pubblicato per la prima volta nel 1974, e sempre più attuale. Ogni saggio è legato nella chiara e puntuale prefazione di David Bidussa a una parola chiave (Resistenza tradita, zona grigia, totalitarismo), tracciando così un discorso unitario e coerente della cornice interpretativa dello storico di "Una guerra civile". Mai come oggi la società civile è tenuta a interrogarsi sul senso della storia e su un passato non ancora condiviso. È quindi sempre più opportuno rivolgersi agli studiosi che si sono dedicati con serietà e passione alla riflessione sulle costanti, che sembrano sempre ritornare, della nostra storia nazionale.
La fama di Saladino in Occidente affonda le sue radici nel 1187, quando «il re vincitore» riconquistò Gerusalemme sconfiggendo i cristiani, che la detenevano da quasi novant'anni. Nonostante li avesse sconfitti, il sultano si guadagnò il rispetto e l'ammirazione dei «franchi» perché non si era lasciato andare al massacro efferato dei nemici, in stridente contrasto con le violenze brutali e ingiustificate perpetrate dagli eserciti della Prima crociata. Jonathan Phillips, esperto di storia delle crociate, parte da qui per riscoprire le origini lontane dell'eccezionale popolarità di cui godette Saladino, indagando una vasta quantità di fonti arabe ed europee. In due decenni, il fondatore della dinastia degli Ayyubidi unificò Egitto e Siria, dando vita a un impero compatto e leale che abbracciava tutto il Vicino Oriente. Affrontò la rabbia prorompente dei soldati della Terza crociata, tra le cui file spiccava Riccardo Cuor di Leone, e fu ricordato, nelle cronache coeve e nei resoconti successivi, come un uomo generoso, onesto, devoto e colto. Il suo animo quasi cavalleresco lo rese un condottiero stimato al punto da meritarsi un posto tra gli spiriti di grande valore della "Divina Commedia", impossibilitati a salvarsi soltanto perché non cristiani. Tolleranza, sobrietà e generosità furono le virtù che rinvigorirono il suo prestigio nel XIX secolo, quando la fascinazione europea verso il medioevo fu condivisa da storia, letteratura e teatro. La sapienza militare e politica, che non risparmiò di contrastare gli eretici e gli infedeli con un obiettivo unificatore, fu invece alla base della celebrità del sultano, assurto a simbolo della resistenza e della vittoria sull'Occidente invasore, nella cultura di massa del mondo islamico. Saladino ebbe un ascendente ancora maggiore quando il nazionalismo arabo cominciò la sua ascesa e Nasser, Saddam Hussein, bin Laden cercarono di sfruttarne l'eredità richiamandosi a lui nei modi più disparati. A seconda dei casi, dunque, Saladino fu ricordato come un sovrano mite ed erudito, oppure spregiudicato e senza scrupoli. "Il sultano Saladino" ci consegna un resoconto, spogliato di qualsiasi pregiudizio, di un uomo che dopo otto secoli può ancora contare su un'eredità vibrante che mescola storia e leggenda, e ci aiuta a capire quanto possa essere ambiguo, nella contemporaneità, il travisamento della realtà storica.
Nel 2014, riordinando le cose di famiglia, Anny Romand scopre un quaderno di settanta pagine di cui non sapeva nulla. Scritto da sua nonna nel 1915 in armeno, francese e greco, racconta il viaggio di un gruppo di donne e bambini armeni sulle strade dell’Anatolia, verso il deserto e la morte. Nel libro vengono pubblicati alcuni estratti di quel quaderno, in parallelo con le conversazioni che l’autrice aveva con la nonna che l’ha cresciuta. Confrontando il ricordo di quelle conversazioni con le terribili descrizioni del quaderno, Anny Romand rivive l’infinito dolore degli Armeni, filtrato attraverso gli occhi di una bambina. L’innocenza di fronte all’orrore.
«Quando avevo otto anni mia nonna mi raccontava la sua storia, la storia tragica del massacro degli armeni, avvenuto cinquant’anni prima. Ero la sola ad ascoltarla, affascinata e sconvolta. Mia madre era molto contrariata quando ci trovava in lacrime, una nelle braccia dell’altra: la farai impazzire, questa bambina! …Ma dal racconto di mia nonna emergeva una giovane donna colta, bella, raffinata e libera. Vorrei condividere con voi quel racconto» Anny Romand
Nel leggere le testimonianze di questi contadini friulani, uomini e donne, vissuti tra '500 e '600, si è afferrati, come lo furono gli inquisitori, dallo stupore che si prova di fronte a qualcosa di assolutamente inaspettato. «Di notte, in casa mia, et poteva essere quattro hore di notte sul primo somno» racconta il benandante Paolo Gasparutto «mi apparse un angelo tutto tutto d'oro, come quelli delli altari, et mi chiamò, et lo spirito andò fuori ... Egli mi chiamò per nome dicendo: "Paulo, ti mandarò un benandante, et ti bisogna andare a combattere per le biade" ... Io gli resposi: "Io andarò et son obediente"». Spinti dal destino perché nati con la camicia - cioè involti nel cencio amniotico - i benandanti combattevano in spirito, tre o quattro volte all'anno, armati di mazze di finocchio, contro gli stregoni armati di canne di sorgo, per assicurare l'abbondanza dei raccolti. Gli inquisitori si convinsero che dietro questi racconti si nascondeva il sabba diabolico: i benandanti non erano nemici di streghe e stregoni, come affermavano, bensì streghe e stregoni essi stessi. Dalle voci di Anna la Rossa, di Olivo Caldo, di Michele Soppe e di tanti altri, pur filtrate dai notai dell'Inquisizione, emerge uno strato profondo di credenze contadine, altrove cancellate. Oggi i benandanti, per tanto tempo dimenticati, viaggiano in spirito per il mondo: dall'Europa, alle Americhe, alla Cina.
In tutti i tempi è stato comune destino dei grandi leader essere al tempo stesso osannati e violentemente denigrati. Si pensi a Giulio Cesare, Cromwell, Robespierre, Napoleone, Bismarck, Lenin, Stalin, Hit ler; per l'Italia, a Cavour, Crispi, Mussolini e De Gasperi. E, nel nostro caso, a Giovanni Giolitti, uno dei maggiori statisti della storia dello Stato unitario. Ripetutamente presidente del Consiglio tra il 1892 e il 1921, egli ha lasciato un'orma profonda nel nostro paese. Ebbe la soddisfazione di vedere l'Italia conoscere uno sviluppo che è stato definito «una primavera economica». Eppure, la sua figura ha suscitato polemiche accesissime, generando immagini estremamente controverse, tanto da indurre Massimo L. Salvadori a parlare di una delle grandi «polemiche» del Novecento italiano.Giolitti ha diviso i suoi contemporanei e gli storici in correnti opposte: da un lato i suoi intransigenti detrattori, fra i quali spiccano Salvemini, Sturzo, Einaudi, Gramsci, che lo definirono cinico, corruttore, dittatore, un inveterato nemico del Mezzogiorno, il «ministro della mala vita», il «Giovanni Battista del fascismo», i nazionalisti che lo accusarono di essere un «criptosocialista».
All'inizio del Novecento l'Europa comandava il mondo. Il suo impero coloniale era vastissimo, in Asia, Africa, Oceania. La popolazione cresceva a ritmo sostenuto e la guerra aveva cessato da tempo di decimare le giovani generazioni.Scoperte e innovazioni producevano il miglioramento delle condizioni di vita anche delle masse rimaste in povertà. La natura, che nei secoli aveva disseminato epidemie e carestie, sembrava sotto controllo. Ma nel volgere di trent'anni si succedono due catastrofi immani. La forza distruttrice delle decisioni e delle azioni determinate dalla politica sovrasta la potenza rovinosa degli eventi naturali. I due conflitti mondiali con decine di milioni di morti, le guerre civili, le carestie, le migrazioni forzate, la pulizia etnica e il genocidio sono il frutto avvelenato di azioni politiche e mietono vittime assai più numerose di quelle provocate dai microbi, dal clima o da altri eventi naturali.