
La pace di Versailles ha segnato, per giudizio ormai unanime della storiografia, la fine della centralità dell'Europa nella storia mondiale. L'Europa che ne uscì, pur indebolita, continuò a interpretarsi come un «concerto delle potenze». E nell'estremo tentativo di stabilire quali di queste potenze dovessero assumere l'egemonia si giunse al loro collasso: per quanto non fosse allora evidente, si sarebbe trattato di un fenomeno che avrebbe coinvolto tanto i vinti quanto i vincitori della Grande guerra. Il tentativo di non accettare questo dato di fatto costò una nuova guerra mondiale, che lo sanzionò fuor di ogni dubbio. Nacque però una nuova e parzialmente diversa storia d'Europa, non più incentrata sul ripristino impossibile della sua centralità come «potenza» nel senso classico del termine, ma ancora percorsa dall'orgoglio di ricostruirsi almeno come «potenza civile». Questo volume offre una serie di riflessioni sulla complessità della vicenda che si è snodata fra due date simboliche: la conferenza di Versailles e la caduta del muro di Berlino. A cent'anni dal primo e a trent'anni dal secondo, in queste pagine si ragiona su una storia che ha visto mutare la geografia, i sistemi politici e sociali, la cultura, le relazioni internazionali, fino a giungere alle radici della crisi che attualmente coinvolge il nostro continente.
Attraverso cinque saggi che scandiscono il percorso di ricerca di Claudio Pavone, "Gli uomini e la storia" presenta alcuni dei contributi più rilevanti dello storico e propone una visione coerente della fase fondatrice della nostra Repubblica che affonda le sue radici fin dalla «crisi della democrazia risorgimentale». Cuore del volume è rappresentato dal saggio sulla continuità dello Stato tra il fascismo e l'immediato dopoguerra, pubblicato per la prima volta nel 1974, e sempre più attuale. Ogni saggio è legato nella chiara e puntuale prefazione di David Bidussa a una parola chiave (Resistenza tradita, zona grigia, totalitarismo), tracciando così un discorso unitario e coerente della cornice interpretativa dello storico di "Una guerra civile". Mai come oggi la società civile è tenuta a interrogarsi sul senso della storia e su un passato non ancora condiviso. È quindi sempre più opportuno rivolgersi agli studiosi che si sono dedicati con serietà e passione alla riflessione sulle costanti, che sembrano sempre ritornare, della nostra storia nazionale.
La fama di Saladino in Occidente affonda le sue radici nel 1187, quando «il re vincitore» riconquistò Gerusalemme sconfiggendo i cristiani, che la detenevano da quasi novant'anni. Nonostante li avesse sconfitti, il sultano si guadagnò il rispetto e l'ammirazione dei «franchi» perché non si era lasciato andare al massacro efferato dei nemici, in stridente contrasto con le violenze brutali e ingiustificate perpetrate dagli eserciti della Prima crociata. Jonathan Phillips, esperto di storia delle crociate, parte da qui per riscoprire le origini lontane dell'eccezionale popolarità di cui godette Saladino, indagando una vasta quantità di fonti arabe ed europee. In due decenni, il fondatore della dinastia degli Ayyubidi unificò Egitto e Siria, dando vita a un impero compatto e leale che abbracciava tutto il Vicino Oriente. Affrontò la rabbia prorompente dei soldati della Terza crociata, tra le cui file spiccava Riccardo Cuor di Leone, e fu ricordato, nelle cronache coeve e nei resoconti successivi, come un uomo generoso, onesto, devoto e colto. Il suo animo quasi cavalleresco lo rese un condottiero stimato al punto da meritarsi un posto tra gli spiriti di grande valore della "Divina Commedia", impossibilitati a salvarsi soltanto perché non cristiani. Tolleranza, sobrietà e generosità furono le virtù che rinvigorirono il suo prestigio nel XIX secolo, quando la fascinazione europea verso il medioevo fu condivisa da storia, letteratura e teatro. La sapienza militare e politica, che non risparmiò di contrastare gli eretici e gli infedeli con un obiettivo unificatore, fu invece alla base della celebrità del sultano, assurto a simbolo della resistenza e della vittoria sull'Occidente invasore, nella cultura di massa del mondo islamico. Saladino ebbe un ascendente ancora maggiore quando il nazionalismo arabo cominciò la sua ascesa e Nasser, Saddam Hussein, bin Laden cercarono di sfruttarne l'eredità richiamandosi a lui nei modi più disparati. A seconda dei casi, dunque, Saladino fu ricordato come un sovrano mite ed erudito, oppure spregiudicato e senza scrupoli. "Il sultano Saladino" ci consegna un resoconto, spogliato di qualsiasi pregiudizio, di un uomo che dopo otto secoli può ancora contare su un'eredità vibrante che mescola storia e leggenda, e ci aiuta a capire quanto possa essere ambiguo, nella contemporaneità, il travisamento della realtà storica.
Nel 2014, riordinando le cose di famiglia, Anny Romand scopre un quaderno di settanta pagine di cui non sapeva nulla. Scritto da sua nonna nel 1915 in armeno, francese e greco, racconta il viaggio di un gruppo di donne e bambini armeni sulle strade dell’Anatolia, verso il deserto e la morte. Nel libro vengono pubblicati alcuni estratti di quel quaderno, in parallelo con le conversazioni che l’autrice aveva con la nonna che l’ha cresciuta. Confrontando il ricordo di quelle conversazioni con le terribili descrizioni del quaderno, Anny Romand rivive l’infinito dolore degli Armeni, filtrato attraverso gli occhi di una bambina. L’innocenza di fronte all’orrore.
«Quando avevo otto anni mia nonna mi raccontava la sua storia, la storia tragica del massacro degli armeni, avvenuto cinquant’anni prima. Ero la sola ad ascoltarla, affascinata e sconvolta. Mia madre era molto contrariata quando ci trovava in lacrime, una nelle braccia dell’altra: la farai impazzire, questa bambina! …Ma dal racconto di mia nonna emergeva una giovane donna colta, bella, raffinata e libera. Vorrei condividere con voi quel racconto» Anny Romand
Nel leggere le testimonianze di questi contadini friulani, uomini e donne, vissuti tra '500 e '600, si è afferrati, come lo furono gli inquisitori, dallo stupore che si prova di fronte a qualcosa di assolutamente inaspettato. «Di notte, in casa mia, et poteva essere quattro hore di notte sul primo somno» racconta il benandante Paolo Gasparutto «mi apparse un angelo tutto tutto d'oro, come quelli delli altari, et mi chiamò, et lo spirito andò fuori ... Egli mi chiamò per nome dicendo: "Paulo, ti mandarò un benandante, et ti bisogna andare a combattere per le biade" ... Io gli resposi: "Io andarò et son obediente"». Spinti dal destino perché nati con la camicia - cioè involti nel cencio amniotico - i benandanti combattevano in spirito, tre o quattro volte all'anno, armati di mazze di finocchio, contro gli stregoni armati di canne di sorgo, per assicurare l'abbondanza dei raccolti. Gli inquisitori si convinsero che dietro questi racconti si nascondeva il sabba diabolico: i benandanti non erano nemici di streghe e stregoni, come affermavano, bensì streghe e stregoni essi stessi. Dalle voci di Anna la Rossa, di Olivo Caldo, di Michele Soppe e di tanti altri, pur filtrate dai notai dell'Inquisizione, emerge uno strato profondo di credenze contadine, altrove cancellate. Oggi i benandanti, per tanto tempo dimenticati, viaggiano in spirito per il mondo: dall'Europa, alle Americhe, alla Cina.
In tutti i tempi è stato comune destino dei grandi leader essere al tempo stesso osannati e violentemente denigrati. Si pensi a Giulio Cesare, Cromwell, Robespierre, Napoleone, Bismarck, Lenin, Stalin, Hit ler; per l'Italia, a Cavour, Crispi, Mussolini e De Gasperi. E, nel nostro caso, a Giovanni Giolitti, uno dei maggiori statisti della storia dello Stato unitario. Ripetutamente presidente del Consiglio tra il 1892 e il 1921, egli ha lasciato un'orma profonda nel nostro paese. Ebbe la soddisfazione di vedere l'Italia conoscere uno sviluppo che è stato definito «una primavera economica». Eppure, la sua figura ha suscitato polemiche accesissime, generando immagini estremamente controverse, tanto da indurre Massimo L. Salvadori a parlare di una delle grandi «polemiche» del Novecento italiano.Giolitti ha diviso i suoi contemporanei e gli storici in correnti opposte: da un lato i suoi intransigenti detrattori, fra i quali spiccano Salvemini, Sturzo, Einaudi, Gramsci, che lo definirono cinico, corruttore, dittatore, un inveterato nemico del Mezzogiorno, il «ministro della mala vita», il «Giovanni Battista del fascismo», i nazionalisti che lo accusarono di essere un «criptosocialista».
All'inizio del Novecento l'Europa comandava il mondo. Il suo impero coloniale era vastissimo, in Asia, Africa, Oceania. La popolazione cresceva a ritmo sostenuto e la guerra aveva cessato da tempo di decimare le giovani generazioni.Scoperte e innovazioni producevano il miglioramento delle condizioni di vita anche delle masse rimaste in povertà. La natura, che nei secoli aveva disseminato epidemie e carestie, sembrava sotto controllo. Ma nel volgere di trent'anni si succedono due catastrofi immani. La forza distruttrice delle decisioni e delle azioni determinate dalla politica sovrasta la potenza rovinosa degli eventi naturali. I due conflitti mondiali con decine di milioni di morti, le guerre civili, le carestie, le migrazioni forzate, la pulizia etnica e il genocidio sono il frutto avvelenato di azioni politiche e mietono vittime assai più numerose di quelle provocate dai microbi, dal clima o da altri eventi naturali.
Alighiero Tondi, professore gesuita della prestigiosa Università Pontificia Gregoriana, nell'aprile del 1952 abbandona improvvisamente la Chiesa per entrare nel Partito Comunista Italiano. La sua clamorosa abiura, che tanto scalpore suscitò nell'opinione pubblica, è da sempre rimasta avvolta da un alone di mistero. Chi era realmente Tondi? Quali ragioni stavano dietro la decisione di aderire al marxismo, di predicare l'infondatezza della religione, di scrivere libri controversi che denunciavano le infiltrazioni in Vaticano da parte dell'estrema destra portandolo a diventare un acclamato tribuno che infiammava le piazze italiane? Ma i misteri su Tondi non finiscono qui. Negli anni Sessanta il Partito Comunista lo emargina completamente, abbandonandolo a se stesso, senza fornire alcuna spiegazione. Una situazione inaspettata che lo conduce ad un lungo periodo di riflessione che si conclude con un nuovo colpo di scena: il ritorno al sacerdozio. L'autore ricostruisce l'enigmatico ingresso nel Pci del 1952 e le successive rocambolesche vicende.
In questo volume vengono raccontate le figure femminili che hanno occupato un ruolo di primo piano nella storia dinastica di Roma. Sono esistenze attraversate da complotti, guerre, contrasti familiari, apici di fama e abissi di dolore, lungo un arco di tempo - dal I sec. a. C. al III d. C. - in cui è l'Oriente a caratterizzare l'inizio e la fine di queste storie: l'Egitto di Cleopatra e la Siria di Giulia Domna. I loro profili biografici, accanto a quelli di Livia, Agrippina Minore, Giulia Soemia e Mamea, descrivono le trasformazioni di Roma, i cambiamenti nella politica, nella società, nell'arte, nelle mode. Insieme, compaiono altre donne, vittime di condanne ingiuste o coinvolte in cospirazioni: Ottavia, sorella di Augusto e moglie di Marco Antonio; Agrippina Maggiore, sposa prolifica e ribelle del valoroso generale Germanico; Messalina, scandalosa consorte di Claudio. Gli uomini del loro tempo hanno nomi altisonanti: da Giulio Cesare a Caracalla e Severo Alessandro, sfilano in queste pagine tutti i detentori del massimo potere politico fino all'avvento dell'anarchia militare. Li potremo conoscere meglio attraverso le donne che gli furono accanto, come interpreti di ruoli pubblici, come pedine indispensabili per la successione e la propaganda.
La vicenda di Marco Antonio appartiene alla storia dei vinti. La sua condotta fu diffamata con accanimento dagli antagonisti politici, Cicerone prima e Ottaviano poi; la sua memoria, dopo la morte, fu oggetto di sistematica rimozione in attuazione di un provvedimento del senato; la sua figura fu consegnata ai posteri inquinata dalla manipolazione del vincitore, il futuro Augusto: ne emerse l'immagine di un abile generale romano, soggiogato però dall'amore per la regina d'Egitto Cleopatra, corrotto dalla depravazione dell'Oriente, caduto preda degli eccessi di vino, cibo, lusso, sesso. A dispetto di tale deformazione, la documentazione superstite ci restituisce il profilo di una personalità politica animata da una progettualità innovativa. Nel contesto pubblico l'adesione al progetto cesariano e l'empatia nei confronti dei ceti popolari maturarono in una visione politica che intendeva conciliare le istituzioni della repubblica romana praticabili in Occidente con gli assetti delle monarchie ellenistiche a conduzione dinastica, proprie delle province orientali; a tale impostazione, ispirata a flessibilità e diversificazione, si coniugarono il rispetto, la valorizzazione e l'accoglienza degli usi e costumi del mosaico di popoli che componevano l'impero. Nell'ambito privato egli oppose un consapevole rifiuto delle convenzioni. Ad una esistenza consacrata, secondo le tradizioni, alla morigeratezza, alla sobrietà, allo spirito di sacrificio, all'impegno per l'interesse collettivo, egli contrappose un modello di vita che riservasse spazio ai piaceri individuali: le gioie dell'amore, l'ebrezza del vino, le raffinate prelibatezze della tavola, l'apprezzamento per ogni forma d'arte, la propensione per il lusso, la complicità cameratesca, la solidarietà con l'elemento femminile.
Dopo la caduta del Muro di Berlino, il 9 novembre 1989, la Germania ha realizzato a tappe forzate il sogno della riunificazione ed è diventata nei decenni successivi il Paese più potente e decisivo delle sorti economiche e politiche dell'Europa, fino a esercitare una sostanziale egemonia. Massimo Nava, inviato in Germania negli anni del crollo del regime comunista e attento osservatore dei successivi sviluppi, racconta i profondi cambiamenti della società tedesca e accompagna il lettore nella genesi della nuova Germania attraverso le vicende dei principali protagonisti e testimoni, da Helmut Kohl a Gerhard Schröder, fino all'ascesa di Angela Merkel, amata in patria e leader indiscussa in Europa. Ma l'egemonia sul Vecchio Continente, al di là di ragionevoli prudenze e riserve sulla storia del Paese, non deve spaventare, è una forza tranquilla e indispensabile, risultato di una sorta di mutamento culturale e identitario, di una rivoluzione di valori e sensibilità in sintonia con il monito di Thomas Mann: non è nata un'Europa tedesca, ma una Germania europea che si è fatta carico dei destini del Vecchio Continente e di cui possiamo finalmente fidarci.
Balzac scriveva che "i ricordi rendono la vita più bella, dimenticare la rende più sopportabile"; Borges nel racconto La biblioteca di Babele lascia che i suoi personaggi individuino nell'oblio "una forma di memoria"; già Dante alla fine del Purgatorio vuole che il fiume Lete permetta alle anime dirette al Paradiso di lavarsi dei propri peccati, rimuovendo così la memoria delle cose cattive del passato. La letteratura ha sfiorato o trattato con cura il tema dell'oblio, e oggi è necessaria una somministrazione sapiente di dimenticanza anche in ambito storico e politico. Per mettere in luce i danni da "eccesso di memoria", Paolo Mieli, con la chiarezza del grande divulgatore e l'accuratezza dello storico, prende in esame decine di eventi ed episodi del nostro passato, dalla storia antica al Medioevo fino ai nostri giorni: dal ruolo - mal compreso e peggio ricordato - di Caracalla imperatore di Roma a Carlo Magno, da Bisanzio "oscurata" da Costantinopoli alla Napoli rivoluzionaria di fine Settecento. Tra amnesie sospette e memorie riluttanti, queste pagine restituiscono peso anche a temi a noi più cari e vicini, quasi quotidiani, come le origini della mafia, l'eredità del fascismo italiano e del nazismo tedesco, indagando il non detto che segna il racconto della Resistenza e spingendosi a commentare il discorso pubblico del nostro presente, tra virus, pandemie, ipotesi cospirazioniste. Una terapia, quella a base di oblio, che Mieli identifica come necessaria, dato che "gli storici avrebbero dovuto far argine in qualche modo al dilagare della memoria". Perché "quando si hanno idee forti sul presente, è pressoché inevitabile che quelle idee si impongano sulle interpretazioni del passato." Eppure, dobbiamo fare di tutto per evitarlo.