
Oggi si sta sempre più prendendo coscienza dei molteplici lati oscuri della globalizzazione. Per la diffusione che questo processo ha conosciuto negli ultimi decenni, i Paesi industrializzati hanno infranto norme etiche basilari, puntando esclusivamente sul soddisfacimento dei propri interessi: a farne le spese sono stati i Paesi in via di sviluppo, e soprattutto i poveri che li abitano. Ma è possibile conciliare il perseguimento dei propri interessi con l'etica? E fino a che punto possono spingersi le logiche del mercato? Secondo Stiglitz è possibile, sollecitando interventi e politiche di riforma delle istituzioni. L'etica, alla fine del suo percorso, resta una bussola imprecisa, ma è l'unica a offrire un orientamento, seppur minimo, in un mondo in cui l'unico faro troppo spesso indica la direzione sbagliata.
Quattro saggi inediti si affiancano in questo volume a uno studio sull'eredità dell'etica marxiana e al testo, ormai classico, sulla teoria dei bisogni. Una lettura del pensiero di Marx decisamente controcorrente che - analizzando il rapporto con la modernità, la giustizia, la liberazione dell'uomo, l'ebraismo, la cultura tedesca - sottolinea l'importanza filosofica del lavoro di Marx, la cui attualità non è scalfita dal superamento delle sue teorie economiche o sociologiche ed è ancora oggi indispensabile per comprendere i caratteri fondamentali della nostra modernità e molti problemi cruciali del nostro tempo. «Karl Marx non si è mai identificato con il suo essere un tedesco o un ebreo, né con il suo essere un membro del proletariato internazionale o un marxista. È ben nota la sua affermazione: 'lo non sono un marxista, sono Karl Marx'. Quindi quando parlo di Marx come filosofo ebreo-tedesco ho in mente l'identità delle sue creazioni, della sua opera, della sua filosofia, non la sua identità personale».
Sangue infetto, smaltimento illegale dei rifiuti, speculazioni edilizie, depredazione del territorio, corpi femminili usati come merce di scambio. Sono molte le forme che assume la corruzione, senza contare quello che accade all'interno dei partiti. Fiumi di denaro mangiati a scapito dei cittadini e della loro vita. Ma non tutti osservano immobili l'assalto alle risorse pubbliche e l'ingordigia di chi ha come unico scopo l'arricchimento personale. Esiste una nazione che non si vede, che si oppone e che per questo ha pagato e continua a pagare per la propria onestà. Ma che non è arresa al dilagare dell'illegalità.
Italia, terra di assurdi e paradossi, è raccontata qui attraverso i ricordi e l'esperienza di Antonio Lubrano, famoso giornalista e conduttore televisivo. Il primo difensore civico del piccolo schermo dà voce ancora una volta alle malcapitate vittime delle stranezze italiche attraverso una carrellata di aneddoti, controsensi e stravaganze. Uomo di cultura e arte, capace di intrattenere il pubblico con la sua ironia e la coinvolgente napoletanità, Lubrano ci guida alla scoperta di vicende ai limiti del possibile (e del credibile), in un viaggio allucinante dentro la quotidianità italiana. Un manuale di sopravvivenza per uscire sani e salvi dalla nostra giungla di truffe, ruberie e insidie.
A partire dalla lettura della «Divina Commedia», l'attore Giorgio Colangeli - fra i pochi in Italia ad aver imparato l'intera opera dantesca a memoria - e lo scrittore Lucilio Santoni mettono in discussione alcuni luoghi consolidati della nostra cultura. Una critica al nostro tempo, un invito a lasciarci condurre da un pensiero poetico che possa illuminare altre prospettive da cui guardare il mondo. «Il folle volo» segue una vocazione spontanea a camminare seguendo la traiettoria della ragion poetica, cercando di salvare le parole dalla loro esistenza transitoria, per condurle verso ciò che dura nel tempo. Affrontando i temi sensibili del nostro presente (la nascita, la morte, l'etica, la felicità), questo libro ci aiuta ad abitare poeticamente lo spazio e il mondo in cui viviamo.
L'impetuosa crescita economica della Cina, l'eredità dei neocon, le guerre in Afghanistan, in Iraq, in Libia e in Siria, le tensioni costanti in Africa e nel continente eurasiatico, le crescenti conflittualità religiose, i poderosi flussi migratori, il collasso delle istituzioni e delle pratiche multilaterali, le trasformazioni tecnologiche, l'internazionalizzazione dei mercati e le tempeste finanziarie. Questo libro cerca non tanto di definire cosa sia la Globalizzazione, quanto di dar conto dei diversi tentativi di farlo, tratteggiando una mappa di questo mondo nuovo. Un disegno in cui è possibile riconoscere alcune tendenze di fondo. L'impulso alla frammentazione, innanzitutto: la riscoperta delle identità particolari che si scontra con un orizzonte imperiale. Come sarà il nuovo nomos della Terra? Potrà assumere la forma di un vasto mercato planetario, di un'immensa zona di libero scambio, oppure di un mondo in cui i grandi blocchi continentali svolgono un ruolo regolatore nei confronti della Globalizzazione stessa, preservando la diversità degli stili di vita e delle culture, unica vera ricchezza dell'umanità. Sullo sfondo quella che Norman Podhoretz ha definito la «quarta guerra mondiale», iniziata l'11 settembre e tuttora in corso: una guerra multiforme, tanto militare quanto economica, finanziaria, tecnologica e culturale.
Il libro raccoglie due testi sui limiti e le ragioni dell'impegno politico di fronte a quello assoluto e trascendente rappresentato dalla fede. Il cristiano può - e in determinate circostanze, deve - accettare lo Stato, ma mai incondizionatamente, in quanto egli appartiene a uno Stato superiore e la sua libertà si fonda sull'indipendenza da qualsiasi ideologia o peculiare forma di governo. Prendendo le distanze dalla tentazione di ogni "Cristianesimo sociale", Barth ribadisce la necessità di una formazione politica della coscienza, unita al dovere del credente di lottare per la salvezza dell'umanità, interrogando sempre il rapporto perennemente in tensione tra fede e potere politico. La riflessione su questi temi trova forma nel commento al capitolo 13 della «Lettera ai Romani» di san Paolo (1919, poi rielaborato nel 1922) e nella conferenza del 1933, in cui l'autore si oppone radicalmente alla nascita in Germania di una Chiesa di regime sottomessa al culto del Führer, e afferma che è venuto il tempo di una "decisione politica" fondata sulla libertà del Vangelo.
Marzo 1968: in appena tre settimane si svolge l'intera parabola delle agitazioni studentesche nella Polonia comunista. Varsavia, Cracovia, Gda?sk, ?ód? e Wroc?aw: tutte le Università del paese sono in fermento. È un'intera generazione a risvegliarsi, quella dei primi allievi del socialismo polacco, ormai definitivamente disillusa davanti allo scarto fra la propaganda del regime e una realtà sempre più lontana dagli ideali fondanti del Socialismo. In un saggio di incredibile lucidità e spessore critico, il sociologo polacco Zygmunt Bauman descrive la crescente delusione degli studenti, le loro aspettative, le speranze di salvare il Socialismo e la Polonia. Bauman riflette anche sugli elementi che accomunano i moti polacchi a quelli occidentali: la propensione globale degli studenti alla rivolta come forma di opposizione violenta alle pressioni esercitate dal mondo professionale.
Crisi economica e crisi della democrazia: processi dei quali non si intravede la fine, ulteriormente complicati dalla diffusione di internet e dei social, che rende sempre più urgente un ripensamento dei fondamenti della partecipazione democratica. Eppure già nel 1939, in un discorso tenuto per i suoi ottant’anni, Dewey aveva tratto spunto dagli strascichi del ’29 e dal successo dei totalitarismi nella vecchia Europa per avanzare una nuova idea: la democrazia “creativa”, che non si limita alla semplice partecipazione del cittadino, ma che si radica negli atteggiamenti e nelle esperienze quotidiane dell’individuo; una democrazia fatta di fiducia nell’uomo, nella sua capacità di confronto aritario con gli altri, dove la differenza – e la sua libera espressione – diventa occasione di arricchimento per tutti. Una proposta, quella del filosofo americano, che si rivela ancora attuale.
JOHN DEWEY (Burlington, 1859 – New York, 1952)
Pedagogista e filosofo statunitense, si è formato tra l’Università del Vermont e la Johns Hopkins di Baltimora. Ha quindi insegnato nelle università del Middle West, a Chicago e, dal 1904 al 1929, alla Columbia University di New York. Il suo pensiero in ambito sociale e politico ha avuto grande fortuna tra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, al punto da renderlo il leader dei liberal americani. Le sue scoperte in ambito pedagogico e gli studi sul rapporto tra democrazia e processi educativi hanno esercitato un forte influsso in tutto il mondo.
Senza una vera uguaglianza la democrazia si riduce a forma di regime, e non può diventare società, comunità di singoli che condividono un terreno comune. Pierre Rosanvallon prosegue con questo libro la sua analisi della crisi del sistema democratico e ne individua la ragione profonda proprio nell'arretramento del concetto di uguaglianza e nello svilimento del suo significato. La società prodotta dal trionfo del neoliberismo - un'ideologia pervasiva che è riuscita a trasformare la propria parziale interpretazione della realtà in un insieme di verità non più discutibili - è il mondo della disuguaglianza, che non è solo ingiusto, ma anche minaccioso, violento e aperto all'irruzione di un populismo basato sull'esclusione. La sinistra ha progressivamente accettato questa visione. Può arrivare a governare, ma di fatto non rappresenta più "l'immagine positiva di un mondo desiderabile", qualcosa per cui valga la pena combattere e sulla quale progettare un futuro migliore. A un'analisi della situazione attuale, Rosanvallon risponde con la necessità di rifondare una vera e propria filosofia dell'uguaglianza che sia basata sulla partecipazione e sulla reciprocità. Una "società di eguali" che non può più fare ricorso alla spesa pubblica ma nemmeno consegnarsi al mito della meritocrazia, che pensi contemporaneamente i concetti di comunità e differenza e ponga il principio di un'"uguaglianza-relazione", capace di produrre un vero legame sociale. Prefazione di Corrado Ocone.
Traduzione di Federico Lopiparo
«Se l’evoluzione è vera, c’è ancora spazio per Dio?». Questa è la domanda, complessa, da cui muove il testo di Francis Collins, genetista di fama internazionale e scienziato tra i maggiori degli ultimi decenni. Accennando al proprio personale percorso di vita, che lo ha condotto dall’agnosticismo alla scoperta di Dio, Collins afferma che tra scienza e fede – pur così diverse tra loro – può esistere una profonda armonia, ed esprime con il termine “BioLogos” (da Bios, ‘vita’, e Logos, ‘Parola’) la convergenza tra la comprensione offerta dalla scienza contemporanea del mondo della vita e l’idea di un Logos, di una Parola creatrice che la fondi.
FRANCIS COLLINS (Staunton, 14 aprile 1950)
Genetista statunitense. È celebre per essere stato direttore dello Human Genome Research Institute, che ha elaborato l’ambizioso Progetto Genoma Umano. Nel 2009 è stato nominato da Papa Benedetto XVI membro della Pontificia Accademia delle Scienze. Dallo stesso anno è direttore dei National Institutes of Health negli Usa. In italiano è tradotto Il linguaggio di Dio, in cui Collins ha proposto il concetto di BioLogos.
La vita postmoderna è, dal punto di vista morale, una vita in frammenti, governata da una profonda ambivalenza etica difficile da tollerare. Una forte crisi d’identità affligge l’Occidente contemporaneo, che brancola nel buio rispetto alle più urgenti questioni etiche. Oggi le persone credono ben poco nella possibilità di fondare una morale che possa funzionare da stella polare nell’orientamento delle nostre vite. Come riattivare, dunque, la responsabilità individuale in un mondo che ha perduto ogni riferimento? Per rispondere a questa domanda Bauman si rivolge alla filosofia di Emmanuel Lévinas, che ha messo al centro del proprio pensiero un’urgenza etica infinita destinata ad essere oggi di grandissima attualità. L’essere-per-l’Altro, il faccia a faccia con il volto dell’Altro, che assume varie forme (l’indigente, lo straniero, il migrante), sono concetti oggi più che mai necessari per offrire alla cultura occidentale nuovi strumenti per rispondere alla sofferenza umana, alla fragilità e alla vulnerabilità del nostro tempo.