
Le nozioni di bene e male sono indispensabili per vivere e, al tempo stesso, sempre insidiate da fraintendimenti e pregiudizi. Orlando Franceschelli - filosofo, impegnato da anni nella definizione di un'etica laica fondata sul radicamento dell'uomo nella natura - non si sottrae alla sfida di trovare risposta a una domanda radicale: in nome di quale bene e di quale male sarebbe auspicabile agire come singole persone e come gruppi sociali? In società come le nostre, investite da trasformazioni epocali, dal fanatismo terrorista, da nuove sfide poste dai dilemmi bioetici e dai progressi della ricerca scientifica, eludere questo interrogativo equivale a incamminarsi sul sentiero pericoloso dell'indifferenza e della deresponsabilizzazione. L'autore sceglie la via opposta a ogni disimpegno e chiarisce fin da subito la propria visione: l'identificazione del bene con la tensione verso la possibile felicità terrena - la propria e quella degli altri esseri senzienti umani e non umani - e del male morale con l'indifferenza egoistica verso la sofferenza. Una visione non condizionata da prospettive soprannaturali, in sintonia con una tradizione di pensiero che da Democrito arriva fino a Spinoza, Hume, Darwin, Leopardi, e si scontra con l'esaltazione della volontà di potenza proposta da Nietzsche. Nel ripercorrere il cammino dei grandi teorici del pensiero naturalista, Franceschelli mostra come dalla definizione di nozioni quali natura, male fisico o morale, bene individuale e beni comuni (inclusa la bellezza), felicità e sofferenza, si possa approdare a una concezione di bene e male condivisibile e compatibile con il rispetto del mondo naturale, sempre più minacciato, con la convivenza civile nelle società multiculturali e con i principi delle nostre Costituzioni liberali e solidali. La conclusione dell'autore è che la virtù della laicità - la sola che può garantire un dialogo alto tra credenti e non credenti - ci educa a praticare anche la più efficace solidarietà samaritana, ossia a soccorrere chi ne ha bisogno non solo per umana pietà, ma perché anch'egli aspira alla propria felicità e ha diritto a cercarla.
«La sconfitta non è uno scalino sceso male. Né si risolve con la semplice scelta di un nuovo capo. Bisogna decidere cosa saremo e quale lingua ci distinguerà. Bisogna farlo adesso, perchè nei vent’anni passati siamo usciti troppe volte con l’abito sbagliato. Per riuscirci avremo sete di nuovi termini e azioni. Per me, per tanti, questa è la battaglia di una vita».
4 marzo 2018. Per la sinistra italiana la sconfitta più bruciante della storia repubblicana. Prima però, il 24 settembre dell’anno passato, c’era stato il deludente voto tedesco. E ancora prima la débâcle socialista in Francia. Col caso unico nella Quinta Repubblica di un presidente in carica neppure ricandidato e una percentuale umiliante nelle urne. Se il millennio compie diciott’anni e diventa maggiorenne, la sinistra sembra immersa nella sua quarta età, dirottata verso un binario morto. Ma è davvero così? Quella dei riformisti e del Pd è una parabola definitivamente segnata? Oppure è proprio quando il vento soffia contrario che l’alternativa di pensiero, presenza e senso di una comunità riscopre la sua matrice? In un pamphlet leale e al tempo stesso impietoso, scritto a ritmo serrato e non privo di provocazioni, la famosa traversata da compiere viene raccontata dall’interno, come un percorso faticoso, duro. Forse carico di nuova passione. Con la coscienza che questa volta serviranno idee radicali e qualche appiglio nell’utopia. Ma è quando tutto pare irrimediabilmente compromesso che la sinistra trova motivo per rinascere. A patto di...
Il crollo del Muro di Berlino nel novembre del 1989 fu al tempo percepito da alcuni come tragica fine di un'illusione, da altri come avvio di un processo di liberazione dei paesi dell'Est dal comunismo, che si sarebbe concluso nel dicembre 1991 con la dissoluzione dell'Unione Sovietica. A distanza di trent'anni è giunto il tempo di guardare a quanto accadde nell'89 nell'Europa dell'Est, considerandolo non come un evento epocale conchiuso ma come un processo, i cui antecedenti rimontano al 1956 polacco e ungherese e le cui conseguenze si prolungano fino a oggi negli equilibri politici di quei paesi e non solo. Il crollo del Muro ha assunto negli anni molteplici valenze simboliche: rivoluzione anti-utopica, emblema di una transizione non violenta alla democrazia, ma anche momento fondativo del mondo globalizzato. Jacques Rupnik esplora queste possibili letture e solleva la domanda sugli esiti di quel processo, che sembrava aprire a un mondo democratico senza confini, incarnato dall'Europa unita, e invece ha avuto quale esito nuovi confini, nuovi muri e diffuse chiusure nazionalistiche. Dai saggi raccolti in questo volume emerge la parabola dei tre processi che da quel fatidico '89 si sono innescati: dalla transizione democratica a sintomi evidenti di «stanchezza» della democrazia, con classi dirigenti logorate e cittadini disillusi; dalla trasformazione economica alla crisi del modello del libero mercato; dall'idea di una «democratizzazione attraverso l'europeizzazione» alla scoperta drammatica dei limiti geopolitici del potenziale di trasformazione della governance europea. L'Europa dell'Est, dopo l'89, imitò un modello entrato poi in una profonda crisi. E ora, come il resto del mondo, è anch'essa alle prese con la ricerca di un nuovo paradigma democratico. Ricordare il crollo del Muro a distanza di trent'anni impone di fare i conti con le difficoltà e il futuro dell'Europa.
La storia degli ebrei (diceva un illustre studioso di origini ebraiche) è come la gabbia del canarino in un appartamento signorile: se c'è, aggiunge qualcosa; se non c'è, non se ne avverte la mancanza. In effetti, più che fare storia degli ebrei, si ha l'abitudine di fare storia dell'antisemitismo: cioè la storia delle discriminazioni, delle persecuzioni, delle distruzioni che il Popolo eletto ha subito nei duemila anni della sua diaspora. Più che fare storia di un popolo in carne e ossa, singolare e plurale, coeso e diviso, riconoscibile e inafferrabile come tutti i popoli della terra, si tende a fare storia di un popolo monolitico, granitico nello spazio quanto identico nel tempo: perennemente uguale a se stesso, e immancabilmente bersagliato. Ma rappresentato così, il popolo ebraico corrisponde fin troppo - in una forma rovesciata - allo stereotipo antisemita: il Popolo eletto come sublimazione edificante del Popolo maledetto. Dalla Roma di Tito all'Europa dei pogrom, dal ghetto di Venezia alle leggi razziali, dalla Soluzione finale al complotto contro Israele, il popolo ebraico diventa un metafisico tutt'uno di ashkenaziti e sefarditi, uomini e donne, poveri e ricchi, rabbini e laici, marrani e coloni, contadini e commercianti, banchieri e intellettuali, miracolosamente tenuto insieme dagli altrui vizi, e dalle proprie virtù. Sergio Luzzatto coltiva un'idea diversa degli ebrei nella storia. Più che riconoscerli sempre e comunque buoni, sempre e comunque innocenti, sempre e comunque vittime, si appassiona della varietà di vicende storiche e della molteplicità di profili umani che hanno reso (e che rendono) il Popolo eletto, nel bene o nel male, un popolo come gli altri. In questo libro il lettore incontra non già figurine in panpepato, caricature di storia, ma personaggi naturalmente vivi e vitali, complessi e controversi: siano rabbini taumaturghi del medioevo o soldati israeliani nei Territori occupati, siano cappellai del ghetto o straccivendoli della Rivoluzione.
Quando si parla di Roma - come esempio per antonomasia di una realtà urbana complessa e stratificata, sintesi del difficile cammino delle metropoli in Europa e nel mondo - spesso si cade nella trappola dei luoghi comuni, della visione stantia di una città che non c'è più, dell'inconsapevolezza di come cambiano i cittadini e dove si spostano. Oggi, nell'era della connettività universale, una volta che ci si è allontanati dai percorsi più battuti, a Roma si può avere la sensazione di fare un salto nel buio e, un po' come accadeva ai navigatori del XV secolo (loro sì, per colpa di mappe inesatte), di imbattersi in nuove terre, piene di problemi ma anche di potenzialità. Il volume - costruito come un percorso che si snoda attraverso una dettagliata serie di mappe a colori - traccia una geografia delle disuguaglianze tra i quartieri della capitale in un confronto inedito e prezioso con le altre tre principali città metropolitane italiane: Milano, Napoli e Torino. Gli autori, mossi da un grande rigore scientifico e da una forte passione civile, ci restituiscono la complessità sociale e spaziale della capitale, mostrandone le tante sfaccettature e le disuguaglianze che la attraversano. Postfazione di Walter Tocci.
L'uso intensivo delle conoscenze nella produzione e l'aumento delle interdipendenze tra mercati locali e globali stanno radicalmente trasformando il panorama economico mondiale. Si tratta di tendenze epocali che sono oggi descritte da due termini chiave: globalizzazione e innovazione. I due fenomeni si rafforzano a vicenda, in un circolo, spesso virtuoso, altre volte vizioso, che modifica perennemente la struttura industriale. Il volume mostra come la globalizzazione e i processi innovativi contemporanei non abbiano ridotto il ruolo delle politiche economiche nazionali che, al contrario, sono quanto mai necessarie per garantire lo sviluppo di lungo periodo.
Strappato al suo ambiente naturale, ai suoi affetti, l'uomo esiliato, allontanato per forza dal suo paese, vive una condizione di indicibile sofferenza. Ma lo spaesamento può fondare un'esperienza positiva. Permette di non confondere l'ideale con il reale, la natura con la cultura. L'uomo spaesato, per poco che riesca a superare il risentimento che nasce dal rispetto e dall'ostilità di cui è fatto oggetto, scoprirà la curiosità e praticherà la tolleranza. La sua presenza tra gli "autoctoni" eserciterà a sua volta un benefico effetto spiazzante.
Il libro raccoglie i saggi di Gioacchino Volpe pubblicati tra il 1907 e il 1912, e poi raccolti dall'autore in volume nel 1922. Attraverso l'analisi dell'eresia dei Patari, delle esperienze dei Valdesi, del grande movimento francescano e di altri fenomeni religiosi presenti in Italia tra l'inizio del secondo millennio e il Trecento, l'autore mette sotto osservazione quello che a suo modo di vedere fu soprattutto un cambiamento radicale di indirizzi sociali e politici, uno straordinario scontro di poteri tra coloro che attraverso l'innovazione religiosa forzarono i termini dei vecchi assetti e dei vecchi rapporti di forza, e coloro che rappresentarono, attorno all'istituzione cattolica e al potere papale, le istanze di ordine di quella società.

