
"La nuova frontiera di Kennedy introduce un elemento nuovo di sfida e di orgoglio: il primato americano è minacciato, bisogna riscoprire il coraggio dei pionieri che si aprirono la strada verso ovest, bisogna sacrificare il presente a vantaggio del futuro. I campi di azione della nuova frontiera disegnano non promesse, ma sfide: le aree inesplorate della scienza e dello spazio, i problemi irrisolti della pace e della guerra, le sacche di ignoranza e pregiudizio non ancora conquistate, le disugualianze, la povertà". (dall'introduzione di Giancarlo Bosetti)
Dove affonda le sue radici l'Italia di oggi? Guido Crainz cerca le risposte a questa e a altre domande non in vizi plurisecolari del paese ma nella storia concreta della Repubblica, muovendo dall'eredità del fascismo, dalla nascita della "repubblica dei partiti" e dagli anni della guerra fredda. L'analisi si sofferma soprattutto sulla "grande trasformazione" che ha inizio negli anni del "miracolo" e prosegue poi nei decenni successivi: con la sua forza dirompente, con le sue contraddizioni profonde, con le tensioni che innesca. In assenza di un governo reale di quella trasformazione, e nel fallimento dei progetti che tentavano di dare ad essa orientamento e regole, si delinea una "mutazione antropologica" destinata a durare. Essa non è scalfita dalle controtendenze pur presenti - di cui il '68 è fragile e contraddittoria espressione - e prende nuovo vigore negli anni ottanta, dopo il tunnel degli anni di piombo e il primo annuncio di una degenerazione profonda. "Mutazione antropologica" e crisi del "Palazzo" - per dirla con Pier Paolo Pasolini vengono così a fondersi: in questo quadro esplode la crisi radicale dei primi anni novanta, di cui il tumultuoso affermarsi della Lega e l'esplosione di Tangentopoli sono solo un sintomo. Iniziò in quella fase un radicale interrogarsi sulle origini e la natura della crisi, presto interrotto dalle speranze in una salvifica "Seconda Repubblica": speranze destinate a lasciare presto un retrogusto amaro.
"Esprimo un disagio - scrive Vannino Chiti - che credo non sia soltanto mio: nella politica italiana, da troppo tempo, c'è un di più di conflittualità, a volte di vera e propria contrapposizione, tra gli schieramenti, e al tempo stesso di scontri prevalentemente personalistici all'interno di essi". Si tende a ricondurre questo stato di cose alla caduta delle appartenenze, alla modernità della politica. È una spiegazione che non convince, specie se si guarda ad altre democrazie dell'Occidente (basti pensare agli Stati Uniti), nelle quali il confronto, anche duro, si lega in modo esplicito a proposte programmatiche e a sistemi di valori alternativi. Una simile, schietta, aperta battaglia delle idee non sembra oggi prevalere, nella politica italiana, che elude, più che affrontare, le questioni essenziali. È la debolezza delle proposte, la non chiarezza e coerenza dei comportamenti, a produrre quell'eccesso di conflittualità che allontana le persone dalla politica, rendendo sempre più esile la partecipazione alla vita delle istituzioni democratiche. È da qui che è necessario ripartire per una nuova, forte proposta del riformismo italiano.
"L'idea poetica, per me, non si ferma alle frontiere. Ogni poesia mediterranea è mia. Ogni poesia che annuncia il viaggio, che dà ospitalità, che semina generosità. In ogni angolo del mondo. E lì che comincia il Mediterraneo. Non un luogo recintato da principi geografici o da un'idea che rinnega l'Altro che viene da Sud, da Oriente o da Occidente". Una dichiarazione di principi e d'intenti, quella di Bennis, che colpisce per la sua bruciante attualità. Mohammed Bennis, uno dei poeti marocchini più conosciuti e stimati nel mondo arabo, ha dimostrato negli anni un forte impegno intellettuale e civile. Non a caso è stato l'ideatore della Giornata della poesia dell'Unesco, che si celebra ogni anno il 21 marzo, con lo scopo di stimolare il dialogo attraverso la poesia, ed è da sempre un convinto assertore dell'importanza della traduzione per la promozione della conoscenza tra le culture. Una poetica che sfocia in una pratica di vita sul rapporto tra Mediterraneo e poesia. "Spazio libero e ospitalità come pratica quotidiana: è stata questa lezione che mi ha permesso di comprendere la poesia. La poesia non ammette frontiere chiuse e non obbedisce alla logica degli interessi. Ogni volta che mi trovo nella poesia sento il Mediterraneo divenire la mia casa aperta, senza soffitto né muri né porte. Aperta su uno spazio infinito".
Arthur Rimbaud, il poeta che ha rivoluzionato la poesia, finalmente liberato dai facili schematismi di molta critica presente e passata: è qui non solo il poeta maledetto per eccellenza,ma il protagonista di un viaggio nella parola che ha costituito una frattura radicale, una svolta decisiva capace di ridefinire la poesia stessa.
Yves Bonnefoy, il maggiore poeta francese vivente e una delle più illustri personalità della cultura mondiale, ripercorre in questo libro – appena uscito in Francia e frutto del lavoro di un cinquantennio – le tracce di una passione e di un dialogo con l’opera del grande poeta di Charleville: dallo storico e fortunatissimo Arthur Rimbaud (1961) al recente e inedito Notre besoin de Rimbaud (2008), i saggi di Bonnefoy appaiono in una nuova versione, che rappresenta un’estrema messa a punto della sua visione. Pagine da leggere come un diario, come il racconto di un lunghissimo amore mai sopito: l’amore per i versi di Rimbaud che, in ultima analisi, sembra coincidere con quello per la poesia. Dalla ricostruzione minuziosa dell’ambiente provinciale d’origine, che attinge alla corrispondenza familiare, al rapporto controverso con la madre e i fratelli, fino alla relazione con Verlaine e all’attraversamento della Stagione in inferno, il saggio di Bonnefoy ricolloca Rimbaud al centro del dibattito poetico, riscoprendo la grandezza di una poesia che nella sua immediatezza e intensità non ha mai smesso di essere necessaria per il nostro presente. La voce di Rimbaud, scrive Bonnefoy, è capace di sintetizzare nel suo errare le due grandi forze che ci permettono di essere al mondo: «Da una parte la speranza, che ci consente di credere che la vita abbia un senso, dall’altra la lucidità, che decostruisce le illusioni in cui la speranza si incaglia. Leggere un grande poeta non è aver deciso che è un grande poeta, è chiedergli di aiutarci. È attendersi dalla sua radicalità una guida».
Yves Bonnefoy è uno dei maggiori poeti contemporanei. Nato a Tours nel 1923, ha pubblicato nel corso di cinquant’anni numerose raccolte dei suoi versi. Eletto nel 1981 al Collège de France, vi ha tenuto per dodici anni l’insegnamento di Etudes comparées de la fonction poetique, oggi è professore emerito. Il 31 maggio 2004 ha ricevuto la Laurea Honoris causa dall’Università degli Studi di Siena, su proposta della Facoltà di Lettere e Filosofia di Arezzo. Nel 2005 gli è stato conferito il Premio Internazionale di Poesia «Pier Paolo Pasolini». Per i tipi della Donzelli ricordiamo: Osservazioni sullo sguardo (2003), L’Entroterra (2004), La civiltà delle immagini (2005), Goya. Le pitture nere (2006)
"I centocinquanta anni di Unità d'Italia sono anche centocinquanta anni di 'questione meridionale'. Ci rassegneremo a tenercela per sempre, questa questione, considerandola una specie di caratteristica nazionale ineliminabile? Oppure vogliamo provare finalmente a invertire la rotta?". Renato Brunetta - economista e ministro - analizza i motivi delle difficoltà e dei fallimenti antichi e recenti, e prova a stilare un'agenda per il Sud: alzare il tasso di certezze ed efficienze, di legalità e fiducia; far funzionare finalmente lo Stato, per i compiti che gli sono davvero propri, in modo da garantire la competizione e il mercato; coniugare il federalismo con una vera ed efficace regia nazionale; aprire il Mezzogiorno agli scenari di una nuova prospettiva europea. L'Europa, soprattutto nell'attuale situazione di crisi mondiale, è interessata a un processo strategico di integrazione di un'area mediterranea "allargata" che abbracci i paesi mediterranei in senso stretto, quelli del Mar Nero, fino al Golfo Persico. In un quadro di equilibri europei riassestati a favore dell'area economica in espansione del Mediterraneo e non sbilanciati verso il Baltico, il Mezzogiorno assumerebbe un ruolo cruciale di cerniera, calamitando interessi, risorse e investimenti. È in questo quadro che la questione meridionale si presenta in una nuova luce, per la prima volta come un'opportunità non solo per se stessa ma anche e soprattutto per il Nord e per l'Europa.
L'intervista è roba da artigiani... Artigiani che con i loro attrezzi microfoni, cuffie, registratori, videocamere - creano racconti e storie. Artigiani di storia orale, di giornalismo, di antropologia, di sociologia, che hanno riconosciuto nell'intervista una fonte di documentazione da privilegiare per la propria attività professionale e le proprie ricerche. Fonti orali che ancora faticano a essere accreditate pienamente al pari di quelle "classiche" presenti negli archivi e nelle biblioteche. Ma questo pregiudizio per fortuna sta scomparendo, grazie anche alla consapevolezza da parte di quegli stessi artigiani che le fonti da loro prodotte debbano poi essere rese in qualche modo fruibili da altri. Per consultarle, riutilizzarle, o anche confutarle. Si tratta di una documentazione "parlante" la cui consultazione richiede alcune accortezze: prima fra tutte, il rispetto della sfera privata delle persone che l'hanno resa possibile. Da questo punto di vista è cruciale la funzione degli archivi: custodi di quelle arti che sono in gioco nel mestiere di chi intervista, ovvero l'ascolto e la conservazione. Questo volume, che prende spunto da un convegno promosso dall'Istituto centrale per i beni sonori e audiovisivi, cui hanno partecipato importanti studiosi e giornalisti, mostra come l'intervista sia diventata ormai uno strumento imprescindibile per alcune discipline - storia, antropologia, sociologia - e come essa sia il cardine di una ricerca dialogica.
Nel 1985, pochi mesi prima dell’approvazione della famosa legge Galasso sulla tutela del paesaggio italiano, il Parlamento approva la prima legge di condono edilizio proposta da uno degli ultimi governi di centrosinistra. Si disse che sarebbe stato il primo e l’ultimo. Dopo nove anni, nel 1994, il primo governo Berlusconi porta in approvazione il secondo condono edilizio. Anche allora si disse che sarebbe stato l’ultimo. Nel 2003 un altro condono proposto dalla stessa maggioranza. Finora sono tre le leggi di condono edilizio approvate dal Parlamento, e per quanto possa sembrare strano non è stato fornito all’opinione pubblica nessun rendiconto su quante domande siano state presentate, quanti edifici siano stati condonati, quanti ettari di terreno agricolo siano stati divorati dalle costruzioni, quale sia il bilancio economico delle tre leggi. Siamo un paese in cui lo Stato non ha la forza e l’autorità per far rispettare le leggi, a partire dai piani urbanistici, e cioè le regole che disegnano il futuro delle città. E la china rovinosa dell’Italia pare non arrestarsi: sembra che la cultura dell’abusivismo stia permeando le amministrazioni pubbliche. Dal primitivo abusivismo di «necessità», quello cioè di un paese povero che faticava a diventare moderno, siamo infatti passati all’iniziativa dello Stato stesso per cancellare ogni regola. Nel 2009 il governo Berlusconi annuncia il «piano casa» con cui si possono aumentare i volumi degli edifici a prescindere da qualsiasi regola urbanistica. Nello stesso periodo, per la preparazione Dei mondiali di nuoto e delG8 alla Maddalena, si sperimenta il modello di deroga persino rispetto alle regole paesaggistiche e di tutela dei corsi d’acqua. Fenomeni di questo tipo sono impensabili e sconosciuti in tutti gli altri paesi europei. Ed è urgente chiedersi quale sia il male oscuro che non permette all’Italia di divenire un paese in cui le regole sono rispettate.
Walden, è famoso per l’eccellenza letteraria dei suoi scritti sociali e naturalistici. Ma nel 1848 un suo nuovo conoscente,Harrison Blake, capì che il «vero significato» della vita di Thoreau era di fatto spirituale e, con audace prescienza, si rivolse all’allora sconosciuto scrittore per chiedere lumi su come trovare la propria via. Blake, infatti, confessava di trovarsi a «tremare sull’orlo» di un cammino spirituale e, incapace di intraprenderlo da solo, cercava un maestro, una guida. Thoreau rispose all’appello. Il risultato fu una corrispondenza che durò tredici anni, tanti quanti gliene restavano da vivere. All’inizio le sue risposte erano rivolte solo a Blake, ma quando Thoreau seppe di avere un uditorio più vasto – gli amici di Blake – le sue lettere assunsero una dimensione più impersonale e di maggiore respiro esistenziale. Attraverso una scrittura di volta in volta austera, oracolare, arguta, giocosa, pragmatica, ma sempre profondamente ispirata e penetrante, Thoreau riflette – e ci fa riflettere – sulle possibilità e i limiti dello sviluppo spirituale dell’individuo, prendendo spunto dagli argomenti più vari: dal lavoro quotidiano alla natura selvaggia, dalla società alla solitudine, dall’amore al sesso. Per la prima volta tradotte in italiano e riccamente annotate, queste 27 lettere sono come altrettanti passi che ognuno di noi è invitato a compiere, o a ripercorrere, per meglio affrontare il cammino della vita.
Il 2010 non è stato per l'Italia un anno qualsiasi, perché ha visto incrinarsi il regime berlusconiano. Anche se a questi segnali di cedimento non è sinora corrisposto un risveglio della sinistra, soprattutto di quella ufficiale, che si è fatta complice volontaria o "innocente" del disastro antropologico e morale del paese. Ad agire da detonatore è stata la crisi internazionale della finanza e dell'economia "globalizzate", che ha indotto il riaprirsi di situazioni di conflitto più radicali delle quali si andava perdendo il ricordo. Poche sono state le voci che, a sinistra, hanno saputo interpretare questo passaggio e in qualche modo annunciarlo. Attraverso i suoi arguti e puntuali interventi sulla carta stampata, nonché in occasione di convegni e incontri pubblici, Goffredo Fofi ha cercato di dar conto, momento per momento, di ciò che si agitava sul fondo, guardando oltre le superfici e incurante di ogni appartenenza e di ogni "opportunismo". Bersaglio principale i politici, non meno dei giornalisti - che Fofi considera forse più responsabili del nostro disastro - e degli intellettuali, sia quelli che hanno taciuto che quelli che hanno parlato troppo e pensato poco. Ne viene fuori il quadro di una realtà in cui dominano, per la loro assenza, una verità e una giustizia cui in fondo si è finito per rinunciare. Da dove ricominciare?
"Essere una psicoanalista significa sapere che tutte le storie finiscono per parlare d'amore". Julia Kristeva spiega così l'origine di questo libro, ormai divenuto un classico. Il dolore che i pazienti confessano è sempre generato da una mancanza d'amore, sia essa presente o passata, reale oppure immaginaria. E se una possibilità c'è, per chi si pone all'ascolto, di intercettare e intendere questa sofferenza, essa è legata solo alla scelta di condividere quel senso di smarrimento che l'amore sempre mette in scena, dando così all'altro la possibilità di comporre il senso della propria avventura. "Storie d'amore" si confronta così con tutte le forme dell'amore: dall'agape cristiana all'amore sessuale, dall'amore fraterno a quello dei genitori verso i propri figli. Kristeva analizza quale sia la natura di questo sentimento, tanto vasto e universale, attraverso le sue molte manifestazioni: da Platone a san Tommaso, da Romeo e Giulietta a Don Giovanni, dai trovatori a Stendhal, dalla Madonna a Baudelaire o a Bataille. L'amore come figura delle contraddizioni insolubili, laboratorio del nostro destino: come se tutta la storia umana non fosse che un immenso e permanente transfert. Un'appassionata difesa dei sentimenti in un discorso che a partire dal metodo della psicoanalisi attraversa il pensiero, la letteratura, l'arte dell'Occidente, arrivando al cuore di tutti noi.
Il lavoro: condanna biblica o strumento di realizzazione personale? Partendo dal famoso aneddoto della fabbrica di spilli di Adam Smith, e attraverso le parole di alcuni grandi pensatori del Novecento e non solo, gli autori si interrogano sull'evoluzione del rapporto tra il sistema di produzione capitalistico e il più importante dei fattori produttivi, l'uomo. Negli ultimi due secoli il progresso tecnologico e la crescente globalizzazione dei mercati hanno infatti provocato enormi aumenti di efficienza produttiva, molto superiori all'incremento demografico. Questi ultimi tuttavia non sempre hanno determinato un aumento del benessere degli individui. La "mano invisibile" del mercato tende, paradossalmente, a trasformare lo sviluppo tecnologico in incrementi nell'offerta da una parte, e in disoccupazione dall'altra, piuttosto che in tempo libero e qualità della vita dei lavoratori. A livello macroeconomico, questo si traduce nella rincorsa sfrenata al Pil e al profitto, a discapito della sostenibilità sociale, ambientale e perfino economica del sistema: la sovrapproduzione richiede infatti un sostegno alla domanda che passa attraverso l'indebitamento e la finanziarizzazione dell'economia, preludio delle sempre più gravi crisi che hanno sconvolto l'economia globale negli ultimi anni. La soluzione, secondo gli autori, passa attraverso un sistema economico più etico e sobrio