
Queste pagine offrono una efficace sintesi dell’esperienza formativa e culturale di Aldo Moro nel periodo in cui partecipò alle attività della Fuci. Renato Moro descrive i sentimenti, le attese e il pensiero del giovane studente pugliese dall’entrata nel circolo fucino di Bari nel 1935 sino alla nomina a presidente nazionale degli universitari cattolici nel 1939, alla vigilia della seconda guerra mondiale.
L’itinerario ripercorre la storia della Fuci, erede della tradizione di Giovanni Battista Montini e di Igino Righetti, negli anni travagliati del consenso e della progressiva stretta totalitaria del regime, con particolare riferimento alla collocazione della sua proposta intellettuale nel contesto ecclesiale del tempo.
Un accentuato richiamo alla vita interiore ed ai suoi valori e il primato attribuito alla dimensione dell’impegno in chiave religiosa furono i tratti salienti della personalità del nuovo presidente Moro, all’inizio sconosciuto a gran parte della Federazione ma sin da subito cosciente del ruolo della Fuci in un’ora buia della storia italiana.
Nel pensiero e nell’opera giovanile di Aldo Moro, tesi ad un serio lavoro di formazione delle coscienze e nello sforzo di vivere pienamente la vita di studenti cristiani, si rintracciano le radici di molti sviluppi futuri della sua biografia politica.
Gli interrogativi su cosa significa essere “padre” e su quale possa essere la funzione genitoriale sono sorprendentemente presenti in numerose testimonianze già a partire dall’età antica: tali interrogativi costituiscono, da un lato, lo specchio di pratiche o comunque di una situazione sociale, culturale, economica, dall’altro, le rappresentazioni realizzate e diffuse dalle riflessioni di poeti, pensatori, filosofi, artisti.
Il presente lavoro tenta di proporre alcune riflessioni sulle relazioni familiari e in particolare sull’immagine del padre e della paternità così come compare nelle testimonianze artistiche, letterarie, storiche dell’antica Grecia. Nel caso della figura paterna, è interessante notare come essa si presenti molto più ricca e articolata di quanto a prima vista possa apparire; la diffusione e la frequenza con cui tale tematica compare, inoltre, testimonia la presenza di un’iconografia collettiva della funzione paterna, che ha permeato l’immaginario greco e che, per molti aspetti, si è rivelata una trama complessa e significativa che ha in seguito attraversato la nostra storia culturale.
Gabriella Seveso insegna Storia della Pedagogia presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Milano Bicocca. Si occupa di modelli e rappresentazioni della differenza nella storia della cultura, in particolare di relazioni fra generi e generazioni nella cultura greca antica. Oltre a numerosi articoli su riviste e saggi, ha pubblicato, fra l’altro, Per una storia dei saperi femminili (Milano 2000); Armati, mio cuore. Modelli educativi femminili nel teatro di Euripide (Milano 2003); con Raffaele Mantegazza Pensare la scuola. Aporie e interrogativi fra storia e quotidianità (Milano 2006); Ti ho dato ali per volare. Maestri, allievi, maestre e allieve nei testi del Grecia antica (Pisa 2007). Ha svolto e svolge attività di formazione, di aggiornamento e di consulenza pedagogica rivolta a genitori e insegnanti e presso alcuni servizi educativi e scolastici.
Il volume raccoglie una riflessione a più voci di docenti di università italiane e straniere sulle relazioni tra le due sponde dell'Atlantico. Individuando nello sviluppo integrale e solidale della società la sfida fondamentale del dialogo euro-atlantico, il testo affronta alcuni aspetti peculiari di tale collaborazione in ambito accademico: le migrazioni degli studenti, la promozione del diritto allo studio e, più in generale, dei diritti umani, il dialogo tra la scienza e la fede, le conseguenze della globalizzazione sull'educazione. Emerge un'ampia riflessione sulla società internazionale e sulla capacità dei due continenti di perseguire una vocazione comune che accompagni il loro cammino storico e arricchisca l'identità culturale e spirituale dei loro popoli.
Bernard Mandeville è stato a lungo interpretato come un mero provocatore, un irriverente osservatore dell'essere umano e della società, che con la sua satira pungente colpiva coloro che si ostinavano a vedere nell'uomo una creatura benevola e altruista. Generazioni di filosofi e di studiosi non hanno visto in lui altro che questo. Lo scopo di questo volume è quello di proporre una diversa chiave di lettura del pensiero del filosofo olandese, mostrandone gli aspetti più seri e meno votati alla satira. Nello specifico, l'interpretazione che viene qui presentata ruota attorno al rapporto tra ragione e passioni, cardine delle riflessioni non solo antropologiche e morali, ma anche economiche e politiche di Mandeville. L'uomo agisce guidato dalle inclinazioni, tra le quali dominano in assoluto quelle egoistiche. E la razionalità ne esce doppiamente sconfitta: da un lato incapace di governare e dirigere le azioni umane, dall'altro incapace di prevedere l'esito delle azioni presenti o di comprendere fenomeni complessi e a lungo termine, come la nascita, la costituzione e il funzionamento della società civile. Ed ecco che Mandeville rompe lo schema che pareva legare la concezione "negativa" dell'essere umano a una forma di governo e di gestione delle attività dello stato dispotica e repressiva, per consentire solo ai teorici delle virtù morali innate di sostenere idee più orientate verso il liberalismo. Perché non è teorizzando qualità morali o intellettuali innate nell'uomo che si apre la via verso una teoria politica o economica fondata sulla libertà, tutt'altro: dal pensare che l'uomo sia in grado di tracciare una linea tra bene e male, giusto e ingiusto, e dall'attribuire a chi governa questa capacità all'imporre questa visione in modo dittatoriale il passo è fin troppo breve. Mandeville adotta una prospettiva che ha ancora oggi da insegnare qualcosa: non solo non si arreca un danno sostenendo che l'uomo sia schiavo delle passioni e dotato di razionalità limitata, ma anzi, è su questa idea che si fondano le premesse teoriche per sconfiggere le visioni assolutiste.
«Tardi ho conosciuto Arturo Carlo Jemolo; l’ho incontrato al tramonto della sua lunga esistenza terrena.
Non che la sua persona mi fosse sconosciuta prima di quegli anni Settanta del Novecento, nel corso dei quali ebbi la ventura di una frequentazione con lui sempre più assidua. Soprattutto mi era nota la sua attività di storico e di commentatore di costume. Già da ragazzo, infatti, il suo nome mi era familiare: circolava negli ambienti che frequentavo. In particolare ne sentivo parlare da mio nonno e da mio padre, in un contesto di considerazione per l’uomo e lo studioso, ma sostanzialmente critico per il pensiero». (G. Dalla Torre)
Giuseppe Dalla Torre (Roma, 1943) ha insegnato Diritto ecclesiastico e Diritto costituzionale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bologna. Attualmente insegna Diritto canonico nella Libera Università «Maria Ss. Assunta» - LUMSA di Roma, di cui è Rettore. Nelle nostre edizioni ha pubblicato tra l’altro Il primato della coscienza. Laicità e libertà nell’esperienza giuridica contemporanea e Le frontiere della vita. Etica, bioetica e diritto, ed ha curato il volume collettaneo Lessico della laicità.
Il volume propone due classici del pensiero meridionalista: Il Mezzogiorno e la politica italiana, discorso pronunciato da Luigi Sturzo nella Galleria Principe di Napoli il 18 gennaio 1923, e il saggio di Antonio Gramsci del 1926, scritto alla vigilia del suo arresto e noto col titolo "Alcuni temi della quistione meridionale". L'inconsueto accostamento dei due scritti nasce dalla volontà di mettere a confronto due visioni che costituiscono ancora oggi un punto di riferimento per chi voglia riflettere sulla questione meridionale. La visione geopolitica della questione meridionale e la concezione della politica come lotta per l'egemonia fanno di Sturzo e di Gramsci i due uomini politici più lungimiranti dell'Italia fra le due guerre. La comparazione tra i due scritti mostra sia le convergenze nell'analisi della società meridionale sia le divergenze nel prospettare le soluzioni politiche. Ad una lettura ravvicinata appare evidente l'attualità della loro lezione per chiunque affronti i problemi storici del meridionalismo e dell'unità d'Italia.
Mario Pomilio (1921-1990), letterato e critico originale, approdò negli anni Cinquanta al cattolicesimo, che visse come continua e appassionata ricerca. Cattolicesimo che non mancò d'esercitare un'influenza anche sulla sua produzione letteraria. La letteratura, infatti, fu per Pomilio via ausiliatrice verso una maggiore e più consapevole adesione alla sua identità di uomo e, poi, di cristiano. Esemplare in questo senso "Scritti cristiani", silloge d'interventi che dalla letteratura si aprono alla filosofia, alla metodologica critica nell'indagine storica, sino alle riflessioni sul costume e sulle dinamiche sociali di un periodo complesso quale quello degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Gli Scritti cristiani sono ora esplorati in questo volume con particolare attenzione critica ed esegetica, permettendo così al lettore di conoscere meglio questo autorevole scrittore e, per suo tramite, di accostarsi a temi e figure rilevanti del panorama culturale italiano ed europeo.
Il 4 dicembre del 1968 usciva nelle edicole italiane il primo nume- ro del nuovo quotidiano cattolico nazionale "Avvenire", nato dalla fusione tra due importanti testate preesistenti, "L'Italia", edito a Milano, e "L'Avvenire d'Italia", pubblicato a Bologna. La fondazione del quotidiano dei cattolici italiani non fu solo un evento di rilievo nel panorama della stampa nazionale, ma rappresentò una pagina, ancora quasi sconosciuta, nella storia della Chiesa italiana. La ferma volontà di Paolo VI, autentico fondatore del giornale, si scontrò in quella circostanza con le reazioni perplesse e diffidenti di quasi tutto l'episcopato nazionale. Contrarietà ed ostacoli giunsero soprattutto dalle principali diocesi interessate dalla fusione dei due quotidiani che diedero vita ad "Avvenire": Milano, che editava "L'Italia", e Bologna, ove aveva sede "L'Avvenire d'Italia". Alla luce della documentazione esaminata, in maggior parte inedita, è ora possibile ricostruire la complessa e per molti versi sorprendente vicenda che ha condotto alla nascita di "Avvenire" e all'affermazione del giornale cattolico durante gli anni del pontificato di Paolo VI, il quale non fece mai mancare la sua fiducia e il suo sostegno al quotidiano, ritenendolo un indispensabile strumento di evangelizzazione.
Gli anni del pontificato di Benedetto XVI (2005-2013) coincidono con la crisi mondiale del modello che segue al post-'89, la caduta del Muro di Berlino. Crisi della globalizzazione e dei suoi miti, a partire dal crack finanziario del 2008; crisi dell'occidentalismo teocon, naufragato nel bagno di sangue dell'Iraq; crisi della politica mediatica, senza partiti; crisi della Chiesa, travolta dagli scandali e dai giochi di potere. Un mondo senza legami è il risultato dei processi etico-politico-religiosi degli ultimi decenni. È il trionfo della "società del vuoto" (Lipovetsky), in cui virtuale e reale si confondono e l'individualismo trionfa. Ad esso il pontificato di Benedetto ha indicato un nuovo inizio, oltre il nichilismo e il manicheismo, a partire da un rinnovato incontro tra cristianesimo e modernità.
Tre donne sono le protagoniste di questo libro, Virginia Galilei, Paolina Leopardi e Vittoria Manzoni che la storia ricorda per via degli stretti legami di parentela con uomini illustri. La prospettiva viene qui ribaltata: tutta l'attenzione si concentra su di loro mentre Galileo Galilei, Giacomo Leopardi e Alessandro Manzoni vivono in queste pagine come figure in trasparenza. Con il passo avvincente del racconto e una scrittura di grande limpidezza evocativa, Francesca Romana de' Angelis ricompone la loro vicenda umana. Lo studio attento e appassionato dei documenti - lettere, diari, scrittura della memoria - diventa con naturalezza un narrare in prima persona, una penna prestata a restituire la delicatezza e l'intensità della loro voce. Diverse per temperamento, opportunità, destino e ambiente, tutte rivelano sensibilità, capacità di giudizio e una straordinaria ricchezza di mente e di cuore e ciascuna, nella comune difficoltà o impossibilità di scegliere in quanto donna, a suo modo tenta di uscire dal buio in cui l'avvolge l'ordine sociale e familiare inventando qualche spazio di libertà, mentre i piccoli eventi quotidiani che scandiscono le loro sacrificate esistenze si intrecciano ai grandi eventi della storia, decisa e vissuta dagli uomini. Ad introdurre queste tre luminose figure una donna che appartiene non alla vita ma alla letteratura. Nella poetica invenzione di Penelope, che decide di cambiare il suo destino e rivendica il diritto di raccontarsi dopo essere stata tanto raccontata, si rivela il senso di questi ritratti di donne e insieme «si verifica il miracolo di avvincere il lettore fino alla conclusione del libro» (Nicola Longo).
I testi raccolti in questo volume offrono una sintesi dei valori, delle intuizioni e delle considerazioni più significative della vasta produzione scritta di Alfredo Carlo Moro. Essi segnano l'itinerario di maturazione della sua cultura, spaziando dal tema dei minori a quello della famiglia, dalla giustizia alla laicità, in un intreccio fecondo e consapevole della sua biografia con la storia del Novecento. Ne emerge la testimonianza viva ed attuale dell'impegno di un protagonista della giurisprudenza, della società e della Chiesa italiana, che ha vissuto nella storia accogliendo la modernità come occasione di crescita e restando sempre coerente ai principi della Costituzione e all'insegnamento del Concilio.
Il volume si propone di individuare le strette connessioni tra il movimento costruttivista e i grandi problemi dell'epistemologia genetica di Jean Piaget. Inevitabilmente l'adozione di un simile intento ha condotto a considerare un sempre più vasto numero di problematiche, in ossequio alla fondamentale tesi piagetiana decisamente avversa ad una concezione locale e parziale della conoscenza, e che per questo non poteva né doveva essere una feyerabendiana "consolazione" per lo specialista. Da qui la progressiva adozione di un approccio globale alle problematiche dello sviluppo cognitivo, che proprio per la sua natura deve correlare, in modo dialettico piuttosto che sistemico, le componenti essenziali (biologica, sociale, ambientale), che costituiscono questi studi. Il presente lavoro è da intendersi come appartenente alle scienze dell'uomo che, grazie alla definizione data, devono andare oltre la oramai canonica e stantia suddivisione delle discipline, per spingersi in ambiti solo ideologicamente ritenuti tra loro separati ed incommensurabili. Da qui la necessità di riprendere un legame con la filosofia, che fornisce problemi epistemologici di capitale importanza e demanda la loro discussione e soluzione a discipline specifiche, senza mai scinderle l'una dall'altra.