
Jung lavorò al "Libro rosso"- incomparabile verbale dei sogni e delle visioni che popolarono il suo "viaggio di esplorazione verso l'altro polo del mondo" dal 1913 al 1930, e ancora in tardissima età lo definì una sorta di presagio numinoso, l'opera di fondazione in cui aveva deposto il nucleo vitale e di pensiero della sua futura attività scientifica. Il "Libro rosso" è, in effetti, il libro segreto di Jung. Segreto soprattutto in quanto riproduzione simbolica di un universo altro, popolato di immagini interiori che provengono da un aldilà mitico, in cui si caricano di una potenza numinosa che le rende a un tempo guaritrici e pericolose: operatori magici di forze psichiche autonome che solo attraverso un corpo a corpo con l'inconscio è possibile neutralizzare e incanalare in un percorso terapeutico. Quella che Jung chiamerà più tardi "immaginazione attiva", è appunto lo strumento inedito di cui egli si servì per suscitare i contenuti archetipici della psiche. Con il suo tesoro di esperienze iniziatiche e meditazioni sapienziali il "Libro rosso" si situa dunque al centro di una straordinaria sperimentazione che ne fa un unicum nel panorama novecentesco. La sua pubblicazione, a distanza di quasi cinquant'anni dalla morte di Jung, ha segnato un punto di svolta negli studi sulla psicologia analitica. La presente edizione riproduce integralmente il testo, senza le tavole dipinte con cui Jung illustrò la sua "discesa agli inferi".
Se oggi possediamo raffinate capacità di analisi delle turbe infantili il merito è sicuramente di Melanie Klein, fra le prime a indirizzare la psicoanalisi verso lo studio del bambino. Sono qui descritte l'angoscia, il senso di colpa e le influenze delle pulsioni nello sviluppo dell'io e dell'Es nello sviluppo infantile. Le sue descrizioni delle fantasie della primissima infanzia hanno squarciato un velo e contribuito a fondare una vera e propria scuola. Come Ernest Jones afferma non è azzardato dire che "la Klein è andata più in là di Freud".
Con l'introduzione del digitale terrestre e delle pay TV, la televisione sta vivendo una trasformazione epocale. Anche il modo di guardare la TV sta cambiando rapidamente. Non è più il tempo dell'utente passivo: il pubblico cerca sempre di più un prodotto su misura, che spesso paga, in un certo senso confezionando da sé il palinsesto che preferisce. Se "il medium è il messaggio", ogni medium produce contenuti propri e risponde in maniera originale alle esigenze della società. Nel caso della televisione vale anche il contrario: la società stessa viene, sempre di più, condizionata a sua volta dal mezzo televisivo. Nella nostra storia siamo così passati da una televisione di classe, specchio di un'élite del paese, a una televisione ritagliata attorno al consenso esclusivo ed escludente della maggioranza, per arrivare oggi a una TV sempre più attenta alla moltitudine, la nuova società plurale nella quale siamo immersi. Di questi mutamenti della TV e delle loro profonde ricadute sulla realtà italiana, Carlo Freccerò parla in modo illuminante e provocatorio, in un libro denso di idee e di contenuti.
Fondato su ricerche d'avanguardia, questo libro si propone come un manuale di science-help, che è cosa ben diversa dal self-help. Negli ultimi anni gli studi cognitivi, le ricerche di psicologia sperimentale e le neuroscienze hanno accumulato una grande quantità di dati sul cervello umano, svelando meccanismi che ci erano completamente oscuri e ridisegnando le nostre conoscenze in questo campo. Così, a mano a mano che ci si addentra nei meandri del nostro cervello e dei suoi comportamenti, avviene che le bizzarre ricette dei guru del benessere psichico o dei sedicenti maestri del successo personale ci appaiano sempre meno plausibili. Con l'avanzare degli studi siamo in effetti sempre più in grado di fornire un altro tipo di "ricette", empiricamente fondate, che ci aiutano a tenere sotto controllo certe evidenti deviazioni di quel prodigioso organo del pensiero che non ha cessato di evolversi da milioni di anni. Per tutto questo, e altro ancora, siamo ora in grado di capire perché spesso ci comportiamo in modo avventato, per non dire apertamente autolesionista, senza un motivo apparente. Il cervello agisce secondo schemi adattativi complessi ma prevedibili, e in molte occasioni specie nella vita dell'uomo moderno - con pessimi risultati. Per dirla con David DiSalvo: "Il nostro cervello è una macchina per prevedere e rilevare schemi ricorrenti, che ama la stabilità, la chiarezza e la coerenza: tutto meraviglioso, tranne quando non lo è".
C'era una volta il male. Quello antico che straziava Giobbe e quello moderno, più multiforme perché scaturito dalla perfidia del cuore, o indotto dalla voluttà di dannazione, oppure amalgamato con il bene nella chimica dei sentimenti. Sotto qualsiasi aspetto si manifestasse, conservava un che di scandaloso, demoniaco, seduttivo. Baudelaire gli riconosceva addirittura "la grazia dell'orrore". Oggi è ancora così? L'acuta perizia critica condotta da Arturo Mazzarella produce un'altra risultanza: il male ha perso il proprio stigma maledetto - la trasgressività morale, contro cui era ancora possibile il titanismo della ribellione - per risolversi in una tonalità estetica, ossia percettiva, sensibile, che depotenzia e atrofizza, avvolgendo vittime e carnefici in un'unica spirale di irresponsabilità. È la molecolare insensatezza che intride magistralmente i romanzi di Michel Houellebecq, Bret Easton Ellis, Roberto Bolano ed Emmanuel Carrère, i film di Lars von Trier, Gus Van Sant e Michael Haneke, i fotodipinti di Gerhard Richter e le installazioni di Maurizio Cattelan. Fibre di parole e di immagini che rappresentano la nuova fenomenologia del male.
Siamo capaci, noi italiani, di elaborare, metabolizzare e comprendere l'Olocausto che ci ha colpiti? Siamo in grado di tramandarne la memoria? Che uso abbiamo fatto, noi, pubblicamente, nella nostra dimensione culturale condivisa, dell'immane sterminio che ha coinvolto gli ebrei e i non ebrei del nostro paese, non certo meno che altrove? Quali ricadute nelle nostre vite, quali insegnamenti, quali comportamenti ci deve imporre la storia di quell'orrore? Sono domande dure come macigni, sono le fondamenta stesse dell'Italia repubblicana. È su queste domande che si possono porre le basi di una società che vuole voltare pagina e ricostruire se stessa dopo il ventennio fascista e una guerra al massacro. A sessant'anni di distanza, questo è il primo libro che affronta nel dettaglio il tema di quanto si è sedimentato dell'Olocausto nella nostra identità, attraverso i libri degli intellettuali, le canzoni popolari, il cinema, la televisione, i monumenti innalzati o quelli che non sono mai stati inaugurati; ma anche attraverso l'operato del nostro Parlamento e delle sue leggi. Robert Gordon ha studiato in profondità la storia dell'elaborazione della Shoah in Italia, e ce ne offre qui un quadro complesso, ripercorrendo questi sessant'anni su più livelli, evidenziando la figura centrale di Primo Levi, ma anche il diffuso sentimento autoassolutorio degli italiani, che ancora oggi vivono spesso se stessi come esecutori "riluttanti" di ordini altrui, faticando a farsi carico del proprio passato.
Ovunque nel mondo, quando usiamo Internet, facciamo click a miliardi sulle stesse icone, in una vera e propria globalizzazione delle menti. La nostra cultura, che considera i miracoli come una prova dell'esistenza di Dio, ha già creato in passato tecnologie che hanno qualcosa di prodigioso e di divino: Internet non è che l'ultimo di questi messia. Oggi confondiamo la libertà con la trasmissione di gigabyte. La rete e i social media hanno ormai fatto irruzione nelle nostre vite, promettendo di appagare il nostro bisogno più profondo di comunicazione, di conoscenza e di creatività, giungendo a toccare la nostra natura più intima, modificando la nostra sessualità. Per molti, la tecnologia digitale si è già sostituita alla ricerca della verità e dell'amore, i due motori più potenti dell'essere umano. Ma se non riusciremo a radicare saldamente questi mezzi di comunicazione nel profondo delle nostre qualità umane - nell'esperienza e nella ricerca interiore - saremo ancora più vulnerabili e mostreremo ancora di più tutta la nostra fragilità. Ivo Quartiroli utilizza materiali provenienti da campi tra loro distanti, dai media studies alla psicologia alla spiritualità, per comprendere gli effetti sulla nostra mente e sulla nostra vita di questo gigantesco flusso di informazioni che chiamiamo Internet, che è certamente in grado di connettere tra loro gli uomini, ma è capace anche di far perdere il contatto con la realtà e con la fisicità dei corpi.
Una manciata di minuscole sculture giapponesi ha ispirato a Edmund de Waal "Un'eredità di avorio e ambra". E una manciata di candidi detriti raccolta sul monte Kao-Ling, in Cina, spinge l'autore a esclamare "Questo è il mio inizio". L'inizio di un viaggio sulle tracce dell'"oro bianco", per raccontare la storia della porcellana. Qui lo seguiamo da Jingdezhen a Venezia, a Versailles, a Dublino, a Dresda, fino alle colline della Cornovaglia e ai monti Appalachi del South Carolina, mentre racconta la storia di una vera e propria ossessione per "il bianco perfetto". Lungo la strada incontra i testimoni della creazione della porcellana: tutti quelli che da quel bianco sono stati ispirati, arricchiti o afflitti; e dei tanti che hanno avuto la vita, il corpo e la mente spezzati dall'affanno della ricerca. L'autore percorre un millennio per arrivare ad alcuni dei momenti più tragici della storia contemporanea. Eroi o vittime dell'invenzione e della produzione del prezioso materiale, i personaggi più disparati: dagli imperatori cinesi ai loro schiavi; dall'elettore di Sassonia e re di Polonia Augusto II al piccolo alchimista da lui imprigionato perché produca quel materiale "semitraslucido e latteo, come i petali di un narciso"; dal farmacista quacchero che esplora le colline della Cornovaglia distratto solo dalla morte della giovane moglie; a Lenin e al suo intervento al Congresso dei lavoratori del vetro e della porcellana.
Le tecnologie digitali sconvolgono il quadro antropologico finora noto. Virtualità, connettività universale e libero accesso alle fonti di informazione stanno riplasmando le facoltà cognitive dei ragazzi e dislocando altrimenti il sapere. Non è più là fuori, remoto, scosceso, paludato e spesso respingente; adesso sta tutto in tasca, a portata di mano, senza mediazione. Mentre i grandi mediatori - il sistema scolastico, ma anche gli istituti della politici e della società-spettacolo - si ostinano a brillare come stelle morte da tempo, ignare della propria fine. Il mondo non sarà più un posto per vecchi. L'ultraottantenne Michel Serres, epistemologo tra i più originali, registra sorridente quell'ineluttabile obsolescenza. Non trema, lui, di fronte al crollo di gerarchie e privilegi secolari, anzi rimane incantato dai suoi effetti più tellurici e si schiera incondizionatamente dalla parte dei ragazzi, capaci di un'intelligenza inventiva che è forza di svincolamento, nel corpo e nella mente.
"Bugiardi nati" è un viaggio nel mondo della menzogna. La menzogna dei bambini, quella degli adulti, quella dei politici o quella particolare categoria di menzogna che è rivolta a noi stessi e che chiamiamo autoinganno. Scritto con umorismo, ricco di aneddoti e di dettagli fulminanti, questo libro è allo stesso tempo un saggio informato, che usa le conoscenze più recenti nel campo della psicologia, delle neuroscienze e della filosofia per fare il punto su ciò che sappiamo in merito a menzogne, bugie, mezze verità, inganni e autoinganni. Siamo stati abituati a pensare alle bugie come a qualcosa di malvagio; la menzogna è per molti la principale responsabile dell'abiezione umana, l'opposto della verità, nella cui luce bisognerebbe camminare. Eppure tutti mentiamo, senza eccezione, continuamente, e più spesso che mai mentiamo a noi stessi, rendendo le nostre bugie più difficili da scoprire, poiché nascoste ai nostri stessi occhi, Ian Leslie rovescia dunque la prospettiva, appoggiandosi sulle spalle di Darwin, di Freud e dei molti psicologi che si sono occupati di questo tema negli ultimi anni: lungi dall'essere un "baco" della nostra psiche, la menzogna è necessaria, vitale, formativa e inevitabile per definire ciò che davvero siamo. Di fatto, non possiamo conoscere noi stessi se prima non conosciamo la sottile dinamica della bugia e dell'autoinganno.
Apertura: ecco la decisiva parola-chiave per comprendere oggi l'uomo globale. Il cambiamento che ha investito l'oggetto della vecchia antropologia normativa sta trascinando con sé gli steccati disciplinari, destabilizzando i metodi consolidati, pluralizzando i paradigmi, ridefinendo gli ambiti tematici. Lo statuto del sapere antropologico esce sostanzialmente riconfigurato da ricerche che ormai si caratterizzano come transdisciplinari, multiparadigmatiche e transnazionali. È a Christoph Wulf che si devono le riflessioni più conseguenti e lungimiranti sui recentissimi assetti dell'antropologia storico-culturale, così mutati da determinare la sua necessaria fuoriuscita dagli alvei canonici e da spingerla verso altre centralità. Il corpo umano, innanzi tutto, luogo di produzione, trasmissione e trasformazione della cultura attraverso rituali, atti linguistici, processi mimetici e performativi. E con il corpo, la temporalità e la finitezza, la nascita e la morte. In un saggio che convoglia la ricchissima ricognizione del passato verso l'autocomprensione del presente, l'unico presupposto irrinunciabile è la consapevolezza che non esiste un unico, riduttivo concetto di uomo. A questo riguardo, il gioco delle analogie e delle differenze costituisce un fondamentale correttivo nei confronti di una globalizzazione uniformatrice.
Passiamo più tempo immersi in un universo di finzione che nel mondo reale. "L'isola che non c'è" è la nostra vera nicchia ecologica, il nostro habitat. Nessun altro animale dipende dalla narrazione quanto l'essere umano, lo "storytelling animal". Questo strano comportamento, che ci porta a mettere al centro della nostra esistenza cose che non esistono, è innato e antichissimo; ci sono segni di finzione fin dai primordi dell'umanità e basta osservare un bambino nel suo quotidiano gioco del "facciamo finta che" per capire che si tratta di un istinto primordiale, che ha già dentro di sé quando viene al mondo. Ma a che scopo? Jonathan Gottschall studia la narrazione da molti punti di vista e ha un'idea originale e affascinante per spiegare come si sia sviluppata questa strana abilità. Appoggiandosi, da letterato, alle ricerche più avanzate della biologia e delle neuroscienze, Gottschall evoca i ben tangibili vantaggi del mondo fantastico, e lo fa con il piglio del grande narratore. Raccontando storie, ad esempio, i bambini imparano a gestire i rapporti sociali; con le fantasie a occhi aperti esploriamo mondi alternativi che sarebbe troppo rischioso vivere in prima persona, ma che risulteranno utilissimi nella vita reale; nei romanzi e nei film cementiamo una morale comune che permette alla società di funzionare col minimo possibile di contrasti; e poi è provato che la letteratura ci cambia, fisicamente e in meglio.