
Frutto di un decennio di ricerche, il libro ricostruisce per la prima volta integralmente l’itinerario biografico e intellettuale del filosofo e storico delle idee Isaiah Berlin (1909-1997) e svela, grazie anche a fonti inedite, l’importanza che vi ebbero gli eventi e i confronti con alcune tra le maggiori personalità del Novecento: da Weizmann a Ben-Gurion, da Churchill a Thatcher, da T.S. Eliot a Wittgenstein. Emergono così l’attenzione verso la dimensione dell’appartenenza e l’impegno sionista, la critica ai nazionalismi aggressivi e l’interesse per il pluralismo culturale, che rendono ancora attuale la proposta filosofica berliniana. La rilettura finale delle riflessioni di Berlin sul liberalismo e sul pluralismo fa dell’opera una rigorosa, ma accessibile, introduzione al suo pensiero.
Viviamo in un tempo di grande sofferenza: non le sofferenze atroci prodotte dalle grandi tragedie del ’900, ma un malessere sociale diffuso che si esprime sotto forma di sofferenza talora esplicita e mediatizzata, talora impalpabile, silenziosa e occultata dai mass media. È possibile un discorso scientifico sulla sofferenza a partire dalla consapevolezza della comune «condizione umana» che la globalizzazione induce? Elaborando una tipologia fenomenologica della sofferenza analizzata sulla base di un modello connessionista, il volume esplora quindi il contributo che tre studiosi classici (Karl Marx, Emile Durkheim e Max Weber) e tre contemporanei (Hans Jonas, Irving K. Zola e Margaret Archer) possono offrire attraverso i concetti di alienazione, anomia, razionalizzazione, limite, vulnerabilità e riflessività fratturata per una comprensione delle cause profonde della sofferenza umana. Ad emergere, è così quella «dimensione del negativo» che, spesso interpretata dalle diverse mitologie, filosofie e teodicee religiose come prova dell’esistenza del «male», rappresenta in realtà una componente intrinseca della condizione umana che una «sociologia del negativo» critica e riflessiva può consentire di analizzare sulla base di nuove piste di ricerca ormai ineludibili nella società globalizzata.
Nell'ultimo decennio Angelino Alfano ha servito il Paese «con disciplina e onore, come la Costituzione richiedeva e come la coscienza imponeva». Oggi ha deciso di incamminarsi verso nuovi orizzonti, riprendendosi per intero un pezzo importante di vita, fuori dal Palazzo. In queste pagine, Alfano riannoda i fili della sua autobiografia politica e l'intreccio tra storia e memoria gli consente di effettuare il bilancio di un passato recente vissuto con forte intensità. Speranze e delusioni, errori e intuizioni, dispiaceri e incomprensioni, grandi battaglie ideali che orientano scelte difficili e una campagna mediatica aggressiva che non fa vacillare le certezze ma, al contrario, le irrobustisce: tutto si tiene nel mosaico della narrazione con al centro il profondo amore per la politica che assorbe l'esistenza, unito al desiderio sincero di cambiare in meglio l'Italia. Con idee chiare e programmi concreti sarà possibile attraversare questo delicato crocevia della Storia, riappropriandosi di futuro e certezze. Per il nostro Paese, per i nostri figli, per il sogno europeo. Per ridare dignità e valore alla politica. È il messaggio affidato a questo libro, quando una stagione si è appena conclusa: occorre investire sul buonsenso. Che non è vintage.
Perché un piccolo Paese assediato nelle sedi internazionali e sui campi di battaglia è tra i più felici del mondo? Il segreto di Israele risiede in un modello culturale opposto a quello oggi in voga in un Occidente dominato dal relativismo, dal pacifismo e dal politicamente corretto. A 70 anni dalla nascita, Israele è una delle più antiche democrazie al mondo che ha eccelso in tutti i campi dello scibile umano e uno dei più straordinari successi della società aperta. Mentre raccoglieva i Premi Nobel, compiva scoperte scientifiche, riempiva le sale da concerto e stampava il più alto numero di libri pro capite, Israele si difendeva con le unghie e con i denti. È la grande storia della "villa nella giungla". L'Occidente è quello che è grazie alle sue radici bibliche e illuministiche. Se l'elemento ebraico di quelle radici è rovesciato e Israele è perso, allora anche l'Occidente è perso. Per questo come va per lo Stato ebraico, andrà per tutti noi. Israele è la frontiera felice della civiltà occidentale.
Prefazione di Enzo Ciconte
Il tema dei poteri occulti è essenziale per comprendere il nostro Paese. Troppo spesso schivato, riposto nell’angolo tra i misteri non comprensibili, spinto nel buco nero di una matassa ingarbugliata e impossibile da sciogliere, o, peggio, tra le favole di cui ridere, è, invece, il cuore della nostra costituzione materiale. È necessario però che la tematica dei poteri occulti non venga esiliata nell’inutile sfera del complottismo e che, al contrario, abbia la sua parte nella comprensione delle faccende italiane. È indispensabile quindi riempire gli spazi vuoti della nostra memoria collettiva, dando ai poteri occulti la parte che “meritano”. La loro storia, infatti, appartiene non ad una vicenda criminale complessa ma è un segmento criminale della storia d'Italia. È inoltre, un argomento attuale perché il prepotente dilagare di organismi non elettivi e non soggetti a forme di controllo democratico ripropone in modo drammatico e urgente il tema dei poteri invisibili e del danno irreparabile agli ingranaggi democratici.
Il nazionalismo non è morto. Sopravvive alla globalizzazione perché nelle democrazie avanzate spesso abbandona i tratti più marcatamente aggressivi o rivendicativi per comparire sotto le vesti "banali" della bandiera esposta negli uffici pubblici, nei riferimenti culturali diffusi dai mass media, nella simbologia più o meno esplicita delle ritualità sportive. In questo volume, che ormai è divenuto una pietra miliare della riflessione sul nazionalismo, tradotto in diverse lingue, Michael Billig ci porta a osservare come il nazionalismo si riproduca in tutti gli aspetti della nostra vita quotidiana come un fenomeno normalizzato e rassicurante. Occorre rendersene conto per comprendere il mondo in cui viviamo senza ricadere nelle semplificazioni giornalistiche.
Le democrazie contemporanee non godono di buona salute. Già minacciate dal progressivo indebolimento della politica prodotto dalla spietata competizione globale, oggi devono fare i conti con un nuovo spettro: diventare la "democrazie del pubblico". Nella società dei nuovi media i cittadini rischiano di trasformarsi in un "pubblico" sempre più passivo, acritico, influenzabile, con scarse possibilità controllare le informazioni, senza occasioni di confronto critico, piuttosto istintivo nei giudizi e quindi con basse difese immunitarie per difendersi dalle tante forme di manipolazione e da populisti e imbonitori sempre in agguato, soprattutto nei momenti di crisi. Contro tale preoccupante degenerazione, questo volume propone una difesa filosofica, storica, sociologica ed economica della democrazia, intesa come "società aperta", fondata sulla discussione critica, che trova le sue origini nella filosofia greca e nella tradizione cristiana. Per far fronte alle sfide del terzo millennio, è questa la tesi degli autori, la democrazia ha bisogno di una articolazione poliarchica, di istituzione inclusive, di uno Stato in grado di regolare i processi economici e di garantire le libertà dai nuovi nemici e i diritti sociali dalle nuove disuguaglianze. Per le sorti della democrazia diventa inoltre decisivo che il cittadino democratico, soprattutto attraverso gli studi umanistici, acquisisca quella capacità critica e quella autonomia di giudizio che rappresentano gli anticorpi necessari affinché il "demos" non sia declassato a "pubblico" e la "democrazia dei cittadini" possa trovare nuovo slancio nel mondo globalizzato.
Il Mediterraneo è un “enigma meraviglioso”. Mare di viaggi avventurosi, teatro delle più grandi battaglie navali della storia e di conflitti religiosi insanabili, dimora comune di ebrei cristiani e musulmani, culla di Omero. Mare interno, lo chiamavano i Greci, e nostro i Romani. È un pezzo di mondo dove tutto è accaduto, e tutto accade: nascita del pensiero greco e della cultura araba, mescolanze di civiltà, popoli e tradizioni. Nunnari racconta il Grande Mare delle tre religioni monoteiste, degli scambi, dei commerci, delle bellezze del paesaggio e della natura, dei misteri, delle leggende, delle scorrerie piratesche e delle migrazioni bibliche. Riflette a lungo sull’Italia, che nel Mediterraneo è interamente immersa, col suo Sud, avanguardia occidentale verso Medioriente e Africa del Nord, e ponte di collegamento dell’Europa. Nonostante tutte le contraddizioni, i ritardi sulla modernità, le incessanti correnti migratorie, e i focolai di guerra, il nostro mare - sostiene l’autore - è il posto giusto per riscoprire la cultura d’origine dell’Occidente e lo spirito europeo: “Mediterraneo non è solo una nozione geografica, ma un vecchio nome, che si porta dietro la storia di tre continenti e di tre insiemi di civiltà; un patrimonio culturale che, in un futuro che si presenta pieno d’incognite, nel mondo che naviga senza bussola, smarrito, impaurito, e rinchiuso nei suoi falsi valori ingannatori, rappresenta l’eredità che ci può salvare”.
Prefazione di Otello Lupacchini
La 'ndrangheta è un "elemento costitutivo della società calabrese"; le famiglie di 'ndrangheta sono cellule della società e, come tali, respirano la stessa aria. Sono cellule malate, però, che si nutrono della parte sana della collettività, dissanguandola. La forza della 'ndrangheta sta nell'omertà, nella capacità di impedire che si parli della crudeltà e della prepotenza che la costrddistinguono. Il silenzio, a volte determinato dalla paura, altre volte dalla indifferenza o, ancora, dalla vicinanza, ne ha consentito diffusione e consolidamento anche al di fuori dei confini nazionali. È la forza della parola, il coraggio di denunciare, che potrà distruggerla. Le parole fanno paura, ecco perché un capo, Pantaleone Mancuso, atterrito, perde il controllo, nel corso di una udienza in cui è imputato e urla al suo Pubblico Ministero: «Fai silenzio, fai silenzio, fai silenzio ca parrasti assai, hai capito ca parrasti assai, fai silenzio ca parrasti assai.» Espressione dello stato d'animo di un boss che comprende che il muro che ha costruito per la protezione sua e della sua famiglia sta per essere infranto dal coraggio di chi usa la parola.
Nella sua introduzione Gianni Gennari, giornalista ed ex sacerdote, ricorda i tempi in cui chi si dimetteva dal sacro ministero era chiamato volgarmente «spretato». Ora la discussione sul celibato torna a irrompere nella Chiesa, con la possibile apertura del sacerdozio ai viri probati, uomini sposati di provata fede. Se scelto in modo spontaneo e volontario, il celibato è un vasodilatatore dell'anima, consente di allargare il cuore e sentire tutti come il proprio "prossimo". Se però si riduce a mera obbedienza, diviene una menomazione esistenziale e le conseguenze sono nefaste per sé e per l'intera comunità cristiana. Allora, anche per i cattolici di rito latino il celibato dovrebbe tornare a essere una libera scelta e non più un obbligo? Il libro offre una sintesi storica del celibato e riporta le posizioni dei papi dell'ultimo secolo. Parlano gli esperti, dal religioso-psicologo specialista nella cura dei disagi di persone consacrate alla teologa che insegna ai futuri candidati all'episcopato. Soprattutto si dà voce ai protagonisti: presbiteri fedeli al voto di castità e diaconi sposati, preti che hanno lasciato il ministero per amore di una donna e mogli di ex sacerdoti. Storie vere, cariche di dolore ma anche di gioia, raccontate in modo delicato ma con schiettezza. «Il celibato è un'estrema forma di povertà, che mette chi lo pratica in unione con i più soli, i rifiutati» dice un anziano sacerdote ripensando alla propria vita. Tra le varie testimoniane, quella del vescovo presidente della commissione CEI per il clero e la vita consacrata: «Chi si prepara al sacerdozio - afferma - deve educare lo sguardo e abituarsi al confronto con l'altro sesso».
Personaggio fascinoso, che la letteratura ha contribuito a mitizzare, Costanza d'Altavilla, regina di Sicilia e imperatrice del Sacro romano impero, deve molta della sua fama al figlio, quel Federico II protagonista, nel duecento, delle lunghe e sanguinose lotte fra impero e papato. La sua storia è carica di tanti interrogativi e di altrettanti misteri ai quali, anche per pregiudizi ideologici, si sono date delle risposte spesso approssimate. A tali interrogativi e ai relativi misteri l'autore, seguendo un rigoroso percorso di ricerca, in questa biografia offre delle risposte e delle chiavi interpretative che ci restituiscono un'immagine nuova e non convenzionale di una donna, tradizionalmente raccontata come capace di dominare gli eventi ma, in realtà, estremamente fragile che, suo malgrado, è stata costretta a essere attore non secondario della storia del Meridione d'Italia.
"La spugna d’oro" è il frutto di una ricerca durata dieci anni tra gli archivi siciliani e alcune tra le più importanti biblioteche europee, in particolare la BNF di Parigi.
L’autore arriva a delineare l’oggetto sfuggente del suo studio solo dopo aver percorso una lunga - e non frequentata - strada, quella della storia politica della Sicilia. Tutto comincia con un sovrano, Federico III d’Aragona, che nella turbolente fase post-Vespri per mantenersi al potere è costretto ad offrire ai feudatari siciliani buona parte delle competenze e dei beni che appartenevano alla corona: da qui comincia una dinamica di continuo logorio del potere centrale da parte dei poteri periferici rappresentati dai feudatari, legittimati dalle ‘costituzioni’ di Federico, i quali diventano (e permangono nel corso di secoli) signori assoluti di buona parte del territorio isolano. In Sicilia nasce quindi una pratica politica che non si trova da nessun altra parte, in cui al centro del confronto pattizio tra la classe dirigente locale e il sovrano (che dal 1400 circa in poi risiederà fuori) c’è il demanio regale: si verifica il paradosso di sovrani che nel parlamento siciliano - il luogo di ogni compromesso pattizio - mettono in vendita parte dello ‘Stato’ per avere il denaro che consenta loro di riacquistarne parti vendute precedentemente. In Sicilia si sviluppa un’ideologia originale che l’autore chiama con un neologismo nazionalautonomismo, che consiste in una concezione flessibile della nazione che è tale solo nella misura in cui garantisce pattiziamente le prerogative autonomistiche, cioè gli interessi dei potentati locali. Nel meccanismo di funzionamento e di riproduzione del sistema vicereale-parlamentare che per secoli governa l’isola, un ingranaggio essenziale era costituito da quelle strutture adibite alla violenza e al controllo dell’ordine pubblico, con una storia tutta a sé stante di Palermo, centro della dinamica pattizia da cui partivano e in cui confluivano le diramazioni politico-amministrative-economiche dall’intera isola. La fine del parlamento nel 1816 crea un vuoto che viene riempito dalla polvere del crollo delle suddette strutture che nel corso dell’Ottocento si rideposita creando un nuovo aggregato: la mafia. Un aggregato composto da una strana caratteristica mistura di vecchio, anche molto vecchio, e nuovo.

