
Quando salì al trono, alla fine del '600, la Russia era ancora immersa in un profondo Medioevo. Pietro riuscì a trasformarla in una grande potenza europea, fondò città (una fra tutte San Pietroburgo), rinnovò l'esercito, sconfisse gli eterni nemici svedesi guidati da Carlo XII, 'l'invincibile', creò una marina con il sogno di affacciarsi sui 'mari caldi' del Mediterraneo... Mai la Russia conobbe uno zar e un politico pari a lui. Questo libro ne narra le gesta.
Isabella d'Este è una delle grandi donne del Rinascimento italiano. Figlia del duca di Ferrara Ercole d'Este e di Eleonora d'Aragona, sorella di Beatrice (moglie di Ludovico il Moro), andò sposa al marchese di Mantova Francesco II Gonzaga. Negli anni turbolenti delle guerre d'Italia, nelle quali il marito ebbe un ruolo di primo piano, partecipò al governo dello Stato, riuscì, con un paziente lavorio diplomatico, a far liberare Francesco quando, nel 1510, cadde prigioniero dei veneziani e riunì attorno a sé una delle più splendide corti italiane, proteggendo poeti come Ludovico Ariosto e Matteo Boiardo, intellettuali come Pietro Bembo, artisti come Leonardo e Tiziano, che ne tramandarono il ritratto.
Il barone Amedeo Guillet, nato a Piacenza nel 1909, è uno degli eroi dimenticati del Novecento italiano. Ufficiale di cavalleria del Regio Esercito, fu campione di equitazione e soldato coraggioso. Veterano della conquista dell'Etiopia nel 1936 e del conflitto civile spagnolo, allo scoppio della Seconda guerra mondiale si trovava in Africa Orientale Italiana al comando del Gruppo Bande Amhara a cavallo. Nel 1943 raggiunse l'Italia da clandestino per battersi contro i tedeschi. Fedele al giuramento che lo legava al re, abbandonò la divisa dopo il referendum del 2 giugno e intraprese la carriera diplomatica che lo portò in diversi paesi arabi. Oggi, a 93 anni, vive nella sua seconda patria, l'Irlanda.
L'11 settembre 2001, Paolo Mieli ha inaugurato il suo colloquio con i lettori sulla pagina del "Corriere della Sera". "Una goccia cinese che pian piano è capace di scavare la più dura delle pietre: ecco cosa sarà quella pagina." Così aveva detto Montanelli accettando di tornare nel 1995 al "Corriere" a patto che potesse avere la sua "Stanza", la rubrica della posta. E quando Mieli, due mesi dopo la morte di Montanelli, fu chiamato a succedergli, quelle parole gli rimasero in mente: anche lui avrebbe provato a lasciare un segno sulla pietra. Giorno per giorno, sollecitato dai lettori e sotto l'incalzare di eventi drammatici, ha commentato i fatti della cronaca mondiale. Oggi quelle risposte diventano il diario di un anno decisivo.
Cristina di Svezia (1626-1689) fu protagonista di una delle più singolari vicende umane della storia europea. Divenuta regina nel 1632, alla morte del padre Gustavo Adolfo, dal 1644 regnò da sola, proteggendo le lettere e le arti e chiamando a corte i più celebri dotti del tempo (primo fra tutti Cartesio). Poi, nel 1654, la sorprendente conversione al cattolicesimo, l'abdicazione e il trasferimento a Roma. Qui la regina frequentò la corte papale, partecipò a maneggi politici di vario tipo (fomentò tra l'altro una fallimentare rivolta antispagnola nel Regno di Napoli) ma soprattutto fondò nel suo palazzo alla Lungara un cenacolo artistico che ne fece l'autentica dominatrice della vita culturale romana.
Nel 1913, un impiegato indiano di 25 anni, Srinivasa Ramanujan, scrisse a G. H. Hardy, il più grande matematico inglese dell'epoca, per sottoporgli alcune sue idee sui numeri. Hardy si rese subito conto che la lettera era opera di un genio, organizzò il viaggio di Ramanujan da Madras a Cambridge, e così ebbero inizio un'amicizia e una collaborazione tra le più singolari nella storia della scienza. Il giovane indiano, sotto la guida di Hardy, concepì teoremi e congetture che sbalordirono il mondo scientifico e che avrebbero avuto sorprendenti applicazioni, a decenni di distanza, in settori come la chimica e l'informatica. Dopo sette anni, tuttavia, Ramanujan, lontano dalla famiglia e dalla patria, si ammalò e tornò in India solo per morirvi.
Aldo Moro nella poltrona di casa, col cappello floscio, mentre raccoglie i fichi e sbuccia le arance, mentre si fa la barba. Moro che canta filastrocche alla figlia, gioca a scacchi col nipotino, va al cinema con la famiglia a vedere i western. E piange, disperato, alla morte del padre. C'è poca politica in questo breve, lieve, struggente "album di famiglia" di Agnese Moro: qualche viaggio, gli onnipresenti giornali, le preoccupazioni del partito. Il Moro stratega, l'uomo pubblico contornato dal mito del martirio, è assente da queste pagine, sostituito da una figura di padre di famiglia ben più reale e commovente del ritratto convenzionale.
Sofonisba Anguissola è una figura unica nella pur straordinaria stagione del Rinascimento italiano. Nata in una famiglia nobile di Cremona intorno al 1530 fu avviata dal padre, insieme alle sei sorelle, allo studio delle arti, e in particolare della pittura. Ben presto la sua fama valicò i confini d'Italia e nel 1559 Sofonisba fu invitata da Filippo II in Spagna, dove divenne dama di corte, pittrice ufficiale e insegnante della giovanissima regina Isabella di Valois. A quarant'anni, Sofonisba si sposò per procura con un nobile siciliano, che morì durante un attacco di pirati mentre si recava in Spagna; in seguito conobbe un giovane capitano di nave genovese, lo sposò contro il parere della famiglia e della corte e visse con lui tra Genova e Palermo.
È altissimo, esagerato, il prezzo che i personaggi famosi pagano alla vanità. Stefano Lorenzetto lo ha compreso andando a intervistarli: il musicista Giovanni Allevi ammette d'aver costruito la propria immagine di genialoide usando il balsamo Hydra-ricci della Garnier che "rende il riccio definito"; il ministro Mara Carfagna è contenta delle foto osé scattate quand'era modella perché un giorno potrà dire ai nipoti "guardate quant'era bella nonna"; il fotografo Fabrizio Corona si considera "molto sicuro" di se stesso; la conduttrice Ilaria D'Amico punta a "una vicedirezione reale", magari del Corriere della Sera, in alternativa della Repubblica; la contessa Marta Marzotto confessa che fin da bambina si spediva lettere poetiche e aspettava l'arrivo del postino come se gliele avesse scritte un misterioso spasimante; l'onorevole Vittorio Sgarbi è convinto d'aver propiziato due miracoli, facendo persino uscire dal coma il marito di una sua ammiratrice. Per non finire come i cosiddetti Vip, l'autore di questo libro - vanitoso al pari di tutti i giornalisti - s'è dato una regola: vederli da lontano. E ha deciso di seguire una profilassi che lo porta a evitare il più possibile le liturgie della categoria. Perché L'hybris può diventare una vera e propria patologia psichiatrica, come attesta lo sbando di una società in cui per esistere bisogna apparire: nei palazzi del potere, nei salotti, in televisione o, per i meno fortunati, almeno su Facebook...
Se Hitler fosse diventato un pittore di qualche successo? E se nel 1914 a Sarajevo lo chauffeur di Francesco Ferdinando non avesse sbagliato strada? Se Togliatti non fosse sopravvissuto all'attentato del '48 e se Moro fosse stato rilasciato dalle BR, come sarebbero andate le cose? Difficile non restare affascinati dal ruolo determinante del caso nella storia, di fronte a questi e ad altri "se". Sulla scorta di questa fascinazione, Alberto ed Elisa Benzoni hanno costruito, insieme ad autorevoli storici e intellettuali, un volume che presenta dieci episodi emblematici nel corso del Novecento. Hanno chiesto, così, a Claudio Strinati, Gian Enrico Rusconi, Andrea Graziosi, Giovanni Sabbatucci, Mario Del Pero, Ernesto Galli della Loggia, Luciano Cafagna, Paolo Mieli e Massimo Teodori, di rileggere, ciascuno, alcuni eventi cruciali, il cui esito, se fosse stato diverso, avrebbe potuto cambiare il corso delle cose. Il risultato è un libro agile e godibile: la storia controfattuale rivela quel che era possibile e arricchisce la conoscenza di quel che è accaduto.
La classe dirigente italiana sembra essersi smarrita nei meandri del labirinto politico. Soprattutto, si è smarrita quella lunga tradizione di fiducia, consenso e speranza nell'azione pubblica senza cui è a rischio la stessa vita democratica. Così il Palazzo è oggi sfidato da una Piazza in tumulto e in nome della rete avanzano gli alfieri di un'idea (falsamente) assembleare di democrazia. Marco Follini, che quel labirinto lo ha frequentato a lungo, con un misto di passione e disincanto riflette in questo libro sulle cause dell'attuale disfatta. E giunge a una diagnosi: "la crisi della politica italiana è essenzialmente una crisi di potere". Per capire cosa ci ha condotti a questa impasse, Follini si addentra nel labirinto, ripercorre le vicende del potere nella prima e nella seconda Repubblica, in un bilancio amaro ma ricco di spunti preziosi. Se "il potere si è fatto di fumo e di nebbia e resta solo un po' di polvere nell'aria a ricordare i fuochi d'artificio che ci hanno abbagliato in questi vent'anni", forse non tutto è perduto. Per riguadagnare questo ventennio si dovrebbe "cambiare musica" e trovare una colonna sonora che accompagni in modo più armonioso la ricerca di nuovi equilibri: i violini di Mendelssohn - suggerisce l'autore -, contrapposti agli elicotteri di "Apocalypse Now". "Continuo a credere - scrive Follini - che un paese di grande civiltà debba tornare ad ascoltare il suono dei violini e non farsi troppo inebriare dal rumore degli elicotteri".
Fin dalla Seconda guerra mondiale è apparso evidente che solo una consolidata e condivisa unione avrebbe potuto preservare i Paesi europei da nuovi, sanguinari conflitti. È nato dunque innanzitutto con questo intento il progetto europeo quando, nel 1957, sei Paesi fondatori hanno firmato in Campidoglio il Trattato di Roma. Motivato originariamente dal desiderio di pace, il cammino dell'UE è stato lungo e travagliato: dapprima come unione politica, poi economica, e via via con obiettivi sempre più ambiziosi sui diritti civili, il welfare, l'accoglienza. Le vicende narrate attraverso le cento immagini iconiche di questo libro parlano al cuore e alla memoria del lettore: dalla ricostruzione postbellica alla caduta del muro di Berlino, dall'abolizione delle frontiere alla moneta unica, dal suffragio universale ai referendum, dalla ricerca scientifica all'Erasmus, fino alla recente, dolorosa uscita della Gran Bretagna. Nessuno meglio di Romano Prodi, già presidente della Commissione europea - "padre" dell'euro e convinto sostenitore dell'allargamento dell'UE - poteva raccontare le tappe di quel cammino, i valori condivisi, le conquiste e le disillusioni; ma anche come l'Europa è entrata a fare parte della vita quotidiana dei suoi cittadini ampliando le prospettive delle nuove generazioni. Pur non risparmiando uno sguardo lucido sulle contraddizioni e gli errori commessi negli anni, traspare dalle sue parole una fiducia indefessa nel progetto che lui stesso ha contribuito a costruire. Oggi più che mai la traumatica esperienza della pandemia globale ci ricorda che l'Unione Europea rappresenta una grande forza e non solo: è il nostro futuro.