
«A Martha Gellhorn», recita la dedica della prima edizione di "Per chi suona la campana", il capolavoro di Ernest Hemingway. Tutto qui, un nome e un cognome: quelli della più grande corrispondente di guerra del Novecento. La donna che con Hemingway ha mosso i primi passi da giornalista sul campo, nel 1937, a Madrid sotto le bombe. Che presto è diventata più brava di lui nel mestiere di raccontare i fatti. Che lo ha amato, sposato, lasciato, in un'appassionata storia d'amore tinta di rivalità. E che per tutta la vita ha avuto una sola missione: «Andare a vedere». I reportage rigorosi e avvincenti di Gellhorn coprono i fronti più caldi del secolo breve: è stata sul confine della Finlandia durante l'invasione russa (trovando il tempo per una cena con Montanelli) e accanto alle truppe alleate a Montecassino; è stata la prima reporter donna a sbarcare sulle spiagge della Normandia e poi a entrare a Dachau liberata dagli americani. È andata in Vietnam, decisa a smascherare le menzogne della propaganda ufficiale Usa. Una carriera attraversata dalla gloria e dalla tragedia, segnata dalla solitudine delle donne indipendenti e controcorrente. Oggi le guerre sono cambiate, l'ingiustizia ha preso altre forme, ma nessuno dei problemi contro cui Martha ha passato la vita a battersi è stato risolto. Sono sempre i più poveri, a cui lei ha saputo dar voce, a pagare i conflitti militari ed economici. Sono ancora le donne, come è successo a lei, a dover faticare di più per farsi strada, in guerra come in pace. In queste pagine, che illuminano gli anni più folgoranti di Gellhorn, la sua voce si intreccia con quella di Lilli Gruber, che interpella anche altri grandi corrispondenti. Raccontando, di battaglia in battaglia, la bellezza e la responsabilità del giornalismo in un tempo che ha più che mai bisogno di verità.
"Ho visto troppa gente parlare di me e delle mie idee per non rendermi conto di quanto io e la mia vita siamo in realtà distanti dal racconto che se ne fa. E ho deciso di aprirmi, di raccontare in prima persona chi sono, in cosa credo, e come sono arrivata fin qui." In questo libro, Giorgia Meloni parla per la prima volta di sé a tutto tondo. Delle sue radici, della sua infanzia e del suo rapporto con la mamma Anna, la sorella Arianna, i nonni Maria e Gianni e del dolore per l'assenza del padre; della passione viscerale per la politica, che dalla "sua" Garbatella l'ha portata prima al Governo della Nazione come Ministro e poi al vertice di Fratelli d'Italia e dei Conservatori europei; della gioia di essere madre della piccola Ginevra e della storia d'amore con Andrea; dei suoi sogni e del futuro che immagina per l'Italia e per l'Europa. Ma affronta anche, con la schiettezza e la chiarezza che la caratterizzano, temi complessi come la maternità, l'identità e la fede. Un racconto appassionato, scandito nei titoli da quel tormentone nato per essere ironico ma diventato un manifesto identitario. Passato, presente e futuro del leader politico sul quale sono puntati gli occhi di molti, in Italia e non solo.
Nel tardo pomeriggio dell'11 febbraio 2013 un fulmine cadde sulla cupola di San Pietro. Sembrò a tutti l'immagine-simbolo dell'evento inaudito che aveva appena scosso, fin dalle fondamenta, la Chiesa cattolica. Al termine di un discorso al Concistoro dei cardinali, in vista della canonizzazione dei martiri d'Otranto uccisi dai turchi più di mezzo millennio prima, Benedetto XVI si fece passare un foglietto da monsignor Georg Gänswein, che gli era a fianco con un volto tetro, e cominciò a leggere in latino: "Fratres carissimi...". Alcuni dei porporati presenti non capirono il perché di quello strano riferimento all'avanzare dell'età (ingravescente aetate). Altri finsero o si vollero convincere di aver male interpretato le parole del pontefice. Invece, il messaggio era chiaro. Anzi, inequivocabile. Con la sua Declaratio, Joseph Ratzinger rinunciava al ministero di vescovo di Roma. Si dimetteva da Papa. Non succedeva dal 1415. Per il mondo l'annuncio fu uno shock. Ma quali erano le ragioni profonde che avevano portato Benedetto a quella storica e tormentata decisione? Era un atto di responsabilità o un colpo di spugna? E come affrontare, dopo l'elezione a sorpresa dell'argentino Jorge Mario Bergoglio, la presenza di due Papi? Uno Emerito e l'altro Regnante? Marco Ansaldo, vaticanista e inviato speciale per la politica estera di "Repubblica", ci racconta una delle stagioni più travagliate nella storia della Chiesa, macchiata da polemiche, scandali finanziari e intrighi di palazzo. Dopo la piaga della pedofilia, i casi Vatileaks 1 e 2 e il processo contro i Corvi del Vaticano non sembrano esaurirsi le gogne, i colpi bassi e le epurazioni (l'ultima in ordine di tempo ha colpito il cardinale Becciu). Attraverso la testimonianza di monsignor Georg Gänswein - assistente personale di Benedetto XVI e custode dei tanti misteri che si celano dietro le mura vaticane - il libro di Ansaldo fornisce una nuova e dirompente chiave di lettura sul perché la convivenza tra i due Papi, di per sé problematica, si sia rivelata, di fatto, inattuabile. E se invece un'anomalia diventasse la regola? Oggi ci troviamo nel secondo tempo del Pontificato di Francesco. Qualcuno arriva a sostenere che il gesuita «venuto dalla fine del mondo» non abbia più niente da dire, avendo già espresso tutto sul piano evangelico e dottrinale. C'è modo, dunque, «di fare un altro papa»?
Al giorno d'oggi, la metafora più diffusa per descrivere il cervello è quella che lo paragona a un computer: la sua struttura fisica corrisponderebbe all'hardware, la mente al software. La psiche in via di sviluppo di un neonato non sarebbe altro che un database da riempire di informazioni. Una simile visione ci porta spesso a interpretare i nostri processi mentali quasi fossero programmi, capaci di offrirci soluzioni semplici, rapide e lineari a ogni problema. Esperienze, pensieri, ricordi e sentimenti plasmano senza sosta le nostre reti neurali, che a loro volta determinano il modo in cui pensiamo e sentiamo. Paragonarci a delle macchine, per quanto meravigliose e sofisticate, ci porta a travisare la nostra natura. Sempre più spesso, invece, la psicologia e la biologia contemporanee tendono a recuperare una metafora antica ma efficace: l'idea che possiamo coltivare il nostro io più profondo, che lo si chiami mente o animo, proprio come faremmo con un giardino. Combinando mirabilmente scienza e letteratura, psicoanalisi e racconto, indagine teorica e consigli pratici, questo libro si propone di ricordarci una verità fondamentale, che chi lavora a contatto con la natura conosce da sempre: prenderci cura di un orto o un giardino, di piante che crescono seguendo il proprio ciclo vitale, può influire in modo positivo sulla nostra salute, il nostro benessere psicologico e la nostra autostima. I carcerati cui viene concesso di dedicarsi a coltivare un piccolo giardino hanno meno probabilità di ricadere nel crimine; i giovani a rischio che si sporcano le mani di terra hanno più probabilità di finire gli studi; gli anziani che si dedicano all'orticultura vivono meglio e più a lungo. Dai richiedenti asilo ai giovani in carriera, dai veterani di guerra ai neopensionati, Sue Stuart-Smith ci racconta storie illuminanti di persone che lottano con depressione, lutti e dipendenze, per mostrarci quanto poco sappiamo ancora del potere rigenerativo che la natura può esercitare sulle nostre vite.
Da un po' di tempo si è diffusa l'idea che la letteratura debba promuovere il bene, guarire le persone e riparare il mondo. Breviari e "farmacie letterarie" promettono di confortarci e di insegnarci a vivere, i romanzi raccontano storie impegnate a fare giustizia, confermando chi scrive (e chi legge) nella convinzione di trovarsi dalla parte giusta. Ma la letteratura è un bastian contrario che spira sempre dal lato sbagliato: più si tenta di piegarla al proprio volere, e usarla per "veicolare un messaggio", più lei ci sfugge e porta in superficie ciò che nemmeno l'autore sapeva di sapere. Sostiene il Bene se il Potere lo reprime, ma quando il Potere si nasconde dietro stereotipi di buona volontà lei non ha paura di far parlare il Male, di affermare una cosa e contemporaneamente negarla, di mostrarci colpevoli innocenti e innocenti colpevoli. In questo pamphlet militante e preoccupato Walter Siti analizza alcuni autori e testi contemporanei di successo per difendere la letteratura dal rischio di abdicare a ciò che la rende più preziosa: il dubbio, l'ambivalenza, la contraddizione. Non senza il sospetto che l'impegno "positivo" sia soltanto la faccia politicamente in luce di una mutazione profonda e ignota, in cui tecnologia e mercato imporranno alla letteratura nuovi parametri.
«Ebbene, sì. Confesso. Sì, scrivo roba in versi. Mi dichiaro rifugiato poetico.». Gigi Proietti è stato il più grande attore, regista, scrittore e interprete di un universo umano che attingeva spesso a Roma, a cui ha dato voce nella sua anima più nobile e più popolare insieme. «Il romano ha regalato alla lingua italiana espressioni, parole, significati per i quali dovrebbero ringraziarci. Per capirci, se invece di dire: "Sono stato particolarmente sfortunato in quella circostanza", uno dice: "M'ha detto pedalino". Oppure "M'ha detto zella", se fa' prima.» La sua romanità si riversava soprattutto nella scrittura dei sonetti: alcuni sono diventati un appuntamento fisso anche per i lettori del «Messaggero» o del «Fatto quotidiano», moltissimi altri sono stati recitati in eventi pubblici o sono rimasti nei quaderni che portava con sé sul set o in camerino e su cui si divertiva a costruire versi pungenti per resistere al quotidiano sfascio culturale e politico. Per la prima volta sono raccolti in questo libro tutti i suoi sonetti insieme ad alcuni racconti a cui stava lavorando con gran divertimento, come le avventure di Er Ciofeca che si ritrova suo malgrado al centro di un intreccio di cronache romane agre, tra dialoghi stralunati nel suo bar o in coda dal barbieretto. Ci sono poi i disegni con cui Gigi Proietti si divertiva a fissare in pochi tratti tic, manie e piccole ossessioni del mondo intorno. Una passione che condivideva soprattutto con la figlia Susanna, a cui aveva chiesto di dare un volto ai personaggi di "'Ndò cojo cojo". Il risultato è un libro unico, puntellato da storie e sonetti fuori da ogni regola, capaci di far ridere e di commuovere, e che dimostrano ancora una volta il talento di un narratore e di un sonettaro satirico.
Il Vangelo ci racconta di un dottore della Legge che, per mettere alla prova Gesù, gli chiede come ottenere la vita eterna. Sa di dover amare Dio sopra ogni cosa e il suo prossimo come se stesso, ma si domanda chi sia, in definitiva, quel «prossimo». La risposta, in forma di parabola, la conosciamo tutti: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto...». Se Gerusalemme è la città dell'Altissimo, Gerico sorge quasi trecento metri sotto il livello del mare. È quel fondo che - prima o poi, in una forma o nell'altra - tocchiamo tutti. Perché, come ci ricorda don Dino Pirri, «scivolare verso la depressione di Gerico non significa vivere da depravati o da nemici di Dio. Basta essere rassegnati davanti alla vita che scorre. Senza fantasia, senza sogni, senza passione». Intrecciando la parola delle Scritture a quelle di Guccini, Gaber e Vasco Rossi, e affiancando il proprio percorso di credente a riflessioni sulla Chiesa e sulla vita quotidiana, don Dino ci guida a comprendere il senso profondo della parabola più rivoluzionaria dell'intero Vangelo, che va ben oltre l'esortazione a compiere buone azioni. Un racconto che ci chiede di immedesimarci, di prendere posizione; che ci mette di fronte a domande capaci di interrogare tutti, credenti e non. Cosa rende felice una vita? Qual è il nostro posto nel mondo? Cosa significa amare ed essere amati? Con la spontaneità e l'ironia che l'hanno reso celebre sui social e in televisione, don Dino condivide con noi la sua esperienza personale - piena dei dubbi che costellano ogni esistenza, tra scelte e contraddizioni, gioie e paure, rivelazioni e resistenze - e ci ricorda che la fede è amore e gioia prima che leggi e comandamenti. Un invito al dialogo rivolto ai credenti che non si accontentano di risposte preconfezionate e ai non credenti che hanno voglia di confrontarsi. Senza la pretesa di trovare risposte definitive, ma con la voglia costante di continuare a cercarne.
Ottobre 2020: per la prima volta nella storia della magistratura un ex membro del Csm viene radiato dall'ordine giudiziario. Chi è Luca Palamara? Una carriera brillante avviata con la presidenza dell'Associazione nazionale magistrati a trentanove anni. A quarantacinque viene eletto nel Consiglio superiore della magistratura e, alla guida della corrente di centro, Unità per la Costituzione, contribuisce a determinare le decisioni dell'organo di autogoverno dei giudici. A fine maggio 2019, accusato di rapporti indebiti con imprenditori e politici e di aver lavorato illecitamente per orientare incarichi e nomine, diventa l'emblema del malcostume giudiziario. Incalzato dalle domande di Alessandro Sallusti, in questo libro Palamara racconta cosa sia il "Sistema" che ha pesantemente influenzato la politica italiana. "Tutti quelli - colleghi magistrati, importanti leader politici e uomini delle istituzioni molti dei quali tuttora al loro posto - che hanno partecipato con me a tessere questa tela erano pienamente consapevoli di ciò che stava accadendo." Il "Sistema" è il potere della magistratura, che non può essere scalfito: tutti coloro che ci hanno provato vengono abbattuti a colpi di sentenze, o magari attraverso un abile cecchino che, alla vigilia di una nomina, fa uscire notizie o intercettazioni sulla vita privata o i legami pericolosi di un magistrato. È quello che succede anche a Palamara: nel momento del suo massimo trionfo (l'elezione dei suoi candidati alle due più alte cariche della Corte di Cassazione), comincia la sua caduta. "Io non voglio portarmi segreti nella tomba, lo devo ai tanti magistrati che con queste storie nulla c'entrano."
«Le persone che chiamiamo "leader" hanno un campo visivo più sviluppato di noi "follower". La mostruosità della leadership comincia da qui: da questi occhi enormi e deformi, simili a quelli delle mosche, che vedono in lungo e vedono in largo. È una dote innata, ma che soltanto pochissimi riescono a maturare in talento, attraverso una lunga pratica e incessanti esercizi.» È da questi occhi, o meglio dalla capacità di osservazione che sono capaci di esercitare, che prende avvio l'analisi di Antonio Funiciello, già capo di gabinetto dei presidenti del Consiglio Mario Draghi e Paolo Gentiloni. Un'analisi che non rincorre alcun mito del leader forte, ma che dichiara l'assoluta necessità della leadership per affrontare le sfide attuali. Per tracciare una sorta di ritratto del leader assente, Funiciello prende in esame tre coppie di politici del passato: Golda Meir e Harry Truman, Cavour e Lincoln, Nelson Mandela e Václav Havel. Dal confronto di queste figure, forgiate ed emerse dalla lotta politica, riconosciamo quale sia la vera forza della buona leadership: la disposizione a voler imparare a diventare leader; la fedeltà a una causa; la capacità di delega contro ogni narcisistico accentramento; l'abilità di pianificare senza affidarsi alle proprie intuizioni; saper giocare di sponda - e sporco, se necessario; il rispetto degli avversari; la dissidenza come scintilla dell'azione trasformativa. Oltre alle figure del passato, l'autore mette a fuoco alcune qualità di leader che ha avuto modo di osservare da vicino, in particolare il presidente Draghi e Angela Merkel. A fare da apripista in questo avvincente racconto, il leader riluttante per eccellenza, Mosé: colui che guida un popolo nel deserto dell'incertezza, lasciando in eredità ai suoi seguaci - e anche ai suoi detrattori - quella Terra Promessa in cui lui non metterà mai piede. Potenza della vera leadership.
Da dove nascono la guerra, l'avidità, lo sfruttamento, l'insensibilità alle sofferenze altrui? E qual è l'origine della disuguaglianza, ormai riconosciuta come uno dei problemi più drammatici e radicati del nostro tempo? Da secoli, le risposte a queste domande si limitano a rielaborare le visioni contrapposte dei due padri della filosofia politica: Jean-Jacques Rousseau e Thomas Hobbes. Stando al primo, per la maggior parte della loro esistenza gli esseri umani hanno vissuto in minuscoli gruppi ugualitari di cacciatori-raccoglitori. A un certo punto, però, a incrinare quel quadro idilliaco è arrivata l'agricoltura, che ha portato alla nascita della proprietà privata. Poi sono apparse le città, e con esse si è affermata l'organizzazione fortemente gerarchica di quella che chiamiamo «civiltà». Per Hobbes, al contrario, la necessità di imporre un rigido ordine sociale si è imposta per contenere la natura individualista e violenta dell'essere umano, altrimenti sarebbe stato impossibile progredire organizzandosi in grandi gruppi. Quasi tutti conoscono queste due storie alternative, almeno nelle loro linee generali: riassumono le idee più diffuse sulla storia dell'umanità e la sua evoluzione, e hanno contribuito a definire la nostra visione del mondo. Ma pongono anche un problema: entrambe dipingono la disuguaglianza come una tragica necessità; un elemento che non potremo mai cancellare del tutto, in quanto intrinsecamente legato al vivere comune. Una visione che non convince affatto gli autori di questo libro, decisi a gettare nuova luce sul passato della nostra specie. In una sintesi tanto meticolosa quanto di largo respiro, che coniuga i risultati delle ricerche storiche e archeologiche più recenti al contributo di pensatori provenienti da culture diverse da quella occidentale, il sociologo David Graeber e l'archeologo David Wengrow ci raccontano una storia diversa - più articolata e ricca di chiaroscuri - dell'evoluzione sociale dell'Homo sapiens. Una storia illuminante e attendibile, dalla quale ripartire per provare a immaginare un futuro diverso.
Una ricercatrice fuggita dall'Ungheria che viene degradata dalla prestigiosa università americana in cui lavora per il pessimo carattere e perché gli studi a cui ha consacrato la vita sembrano condurre in un vicolo cieco. Un incontro alla fotocopiatrice con uno scienziato che passa tutto il tempo libero a curare gatti randagi. Anni e anni di studi coronati da un articolo scientifico che passa totalmente inosservato. Aziende di biotecnologie sospese nel limbo tra l'innovazione e il fallimento, guidate da geni visionari poco meno che avventurieri o da scienziati che fin da bambini sognano di sconfiggere il cancro. Poi, all'improvviso, la peggiore pandemia degli ultimi cento anni. È in questo scenario e con questi protagonisti che si compie la "formidabile impresa" che dà il titolo al nuovo libro di Roberto Burioni: l'impiego di una molecola instabile e difficile da maneggiare - l'RNA messaggero che nelle nostre cellule trasporta le istruzioni del DNA per produrre una proteina - per ottenere a tempo di record vaccini estremamente efficaci contro il COVID-19 e, in un futuro che di fatto è già iniziato, rivoluzionare la cura e la prevenzione di malattie come l'AIDS, la sclerosi multipla, il cancro. La rivoluzione dell'mRNA è l'ennesima dimostrazione dell'importanza per il progresso umano della "scienza inutile", la ricerca pura mossa soltanto da curiosità e sete di conoscenza. Così questo libro diventa un inno appassionato alla scienza che ci salva (e ci riempie) la vita e una galleria di storie avvincenti, idee geniali, nobili intenti e bassezze umane di personaggi fuori del comune: Theodore Maiman che, a partire dalle teorie di Einstein, costruisce il primo laser e lo considera "una soluzione in cerca di un problema", James Watson e Rosalind Franklin impegnati nella corsa per scoprire la struttura del DNA, Jonas Salk, Albert Sabin e il vaccino antipolio, fino al cristallografo polacco che, intingendo per sbaglio il suo pennino non nel calamaio ma in un crogiolo pieno di stagno fuso, ha reso possibile, decenni più tardi, la nascita dei semiconduttori e dell'elettronica.