
La Speranza non si coniuga con l'attesa passiva ma con il lavoro e con l'impegno; non racconta una situazione di stasi ma di dinamismo; non indossa le pantofole ma le scarpe da tennis. La Speranza è figlia del desiderio e del sogno ed è frutto dell'inquietudine di dentro: racconta un "non ancora" da realizzare a fronte di un "già" esistente. Per questo la Politica è una grande testimonianza di Speranza: perché è l'impegno finalizzato a costruire un futuro più bello rispetto al presente da migliorare. Il libro di Giovanni Liviano affronta questi nodi tematici intrecciando l'esperienza concreta con una riflessione profonda, ricordandoci che l'impegno pubblico, nella sua accezione più alta, non è soltanto un mezzo per amministrare ma un'opportunità per trasformare il mondo in uno spazio di giustizia, solidarietà e umanità condivisa.
Gli incontri fondamentali con Dossetti, Berlinguer e Moro; la transizione in atto dall'epoca moderna a quella post-moderna dopo la caduta del muro di Berlino; il passaggio dai partiti ideologici ai partiti di programma; l'unità di pensiero e intenti raggiunta da Dossetti, Moro e Berlinguer, ripresa come un'eredità dall'attuale PD di Matteo Renzi; il sogno di Dossetti, alla fine del Concilio Vaticano II, di un'unità politica, religiosa e nel diritto a livello mondiale; i parallelismi passati, presenti e futuri tra la democrazia americana e quella italiana. Nel suo nuovo saggio sulla politica italiana, Giovanni Galloni affronta questi temi nell'ottica dell'unità oltre il "muro": il muro che ha separato in due la Germania e l'Europa per quasi trent'anni, ma anche la divisione causata dalle divergenze di pensiero in Italia tra la componente comunista e quella democristiana, che entrambi i partiti hanno saputo superare nei momenti chiave della storia italiana.
Da dieci anni non passa giorno senza che qualcuno invochi l'esigenza di una nuova classe dirigente. Eppure quasi nessuno sembra accorgersi che, se tale espressione suona ormai logora all'orecchio dei più, non è per l'inettitudine o la disonestà dei singoli, ma anche e soprattutto perché l'età globale ha inesorabilmente compromesso le condizioni d'esistenza di una classe dirigente in senso proprio. Le oligarchie si sono sgretolate, dunque, in una società liquida e trasparente? Nient'affatto. Il nostro è il tempo opaco dei gruppi di interesse privato, che premono sui decisori pubblici in vista di un tornaconto particolare. Che cosa resta, quindi, della democrazia? Finché si ignorerà che le élites politiche sono essenziali per una democrazia libera e pluralistica, partecipata e consapevole, i partiti soccomberanno ai movimenti e il potere scivolerà indisturbato nelle mani di pochi giganti transnazionali.
A quali condizioni si dà una pace duratura dopo una guerra vittoriosa? Che genere di risorse deve mettere in campo la potenza vincitrice per trasformare i nemici sconfitti in alleati? Come è cambiata la politica internazionale negli ultimi duecento anni? Sono queste le domande alle quali Ikenberry offre una risposta, analizzando in chiave comparata le paci seguite ai grandi conflitti che hanno costruito il sistema politico contemporaneo. La fine della Guerra fredda ha causato un cambiamento nell’ordine internazionale paragonabile a quelli che si produssero dopo le guerre napoleoniche nel 1815 e dopo le due guerre mondiali nel 1919 e nel 1945. Ma il sistema unipolare che ne è emerso è ancora ben lungi dall’essersi assestato. Solo la diffusione della democrazia e la creazione di istituzioni internazionali innovative hanno consentito agli Stati Uniti di dare vita a un ordine quasi ‘costituzionalizzato’ dopo la Seconda guerra mondiale: questo il motivo del successo americano nel lungo confronto con l’URSS dell’epoca bipolare. L’abbandono di tale via, in favore di una politica di potenza fondata esclusivamente sulla supremazia militare, comporta rischi enormi per la stabilità del sistema e per la stessa leadership degli USA.
Un libro di straordinaria attualità che ha modificato i termini del dibattito teorico su unipolarismo del sistema politico internazionale e unilateralismo americano.
G. John Ikenberry è professor of Government and International Affairs alla Georgetown University di Washington e senior fellow presso la Brookings Institution. Ha prestato servizio al Dipartimento di Stato degli Stati Uniti e ha collaborato con il Carnegie Endowment for International Peace, il Fondo Monetario Internazionale e la World Bank. Da molti anni è docente presso l’Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali (ASERI) dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. È autore di importanti pubblicazioni tradotte in diverse lingue. In Italia, insieme a Vittorio Emanuele Parsi, ha curato la pubblicazione di due volumi: “Manuale di relazioni internazionali. Dal sistema bipolare all’età globale” (Roma-Bari 2001) e “Teorie e metodi delle relazioni internazionali. La disciplina e la sua evoluzione” (Roma-Bari 2001).
INDICE
I. Il problema dell’ordine internazionale
1. Gli enigmi dell’ordine internazionale
2. La controversia sull’ordine
3. La tesi del libro
II. Tipi di ordine: equilibrio di potenza, egemonia
e costituzionalismo
1. Tipi di ordine politico
2. Equilibrio di potenza ed egemonia
3. L’ordine costituzionale
3.1. Tre elementi del costituzionalismo
3.2. Ridurre le implicazioni della vittoria
3.3. Come si manifestano le limitazioni costituzionali
3.4. Ordini costituzionali forti e deboli
4. Strategie di limitazione del potere
5. La stabilità dell’ordine postbellico
6. Conclusione
III. Una teoria istituzionale della formazione dell’ordine
1. La logica costituzionale
1.1. Strategia della moderazione e conservazione del potere
1.2. Lo scambio costituzionale
1.3. Accordi istituzionali e sostanziali
2. Strategie istituzionali della moderazione
2.1. Elementi di collegamento istituzionale
2.2. Dipendenza dal percorso e aumento dei dividendi istituzionali
3. Disparità di potenza e Stati democratici
3.1. Disuguaglianza di potenza e accordo istituzionale
3.2. Democrazia e accordo istituzionale
IV Gli accordi del 1815
1. Il contesto strategico
2. Le idee britanniche sull’ordine postbellico
2.1. Giungere a una pace generale
2.2. Il prolungamento della coalizione
2.3. Stabilizzare gli accordi postbellici
2.4. La strategia della moderazione
3. Vincoli istituzionali postbellici
3.1. Il vincolo dell’alleanza
3.2. Consultazione istituzionalizzata e moderazione
4. I limiti degli impegni e della tolleranza
4.1. Confini, pacchetti e finestre di opportunità
5. Conclusione
V. La sistemazione del 1919
1. La situazione strategica
2. Gli obiettivi strategici degli Stati Uniti e le loro idee sulla sistemazione successiva
3. Gli obiettivi strategici della Gran Bretagna e della Francia
4. Armistizio, riparazioni e la questione tedesca
5. Impegno, moderazione e Società delle Nazioni
6. Impegni sulla sicurezza in Europa
7. Il venir meno del sostegno interno
8. La rivoluzione democratica fallita di Wilson
9. Conclusione
VI. La pace del 1945
1. Gli assetti strategici
2. Due sistemazioni postbelliche
3. Visioni americane alternative dell’ordine postbellico
4. Dalla libertà di commercio all’apertura gestita
5. Dalla ‘terza forza’ all’impegno in materia di sicurezza
6. Limitare i dividendi della potenza
6.1. Egemonia riluttante
6.2. Democrazia ed egemonia aperta
6.3. Istituzioni vincolanti
7. Conclusione
VII. Il dopo guerra fredda
1. L’ordine occidentale e il crollo dell’Unione Sovietica
2. L’unificazione tedesca e l’acquiescenza sovietica
3. La costruzione istituzionale dopo la guerra fredda
4. La stabilità dell’ordine dopo la guerra fredda
5. Conclusione
VIII. Conclusione
1. Lo scambio istituzionale
2. Istituzioni, impegno e moderazione
3. Le sorgenti della stabilità politica
4. La potenza americana e il problema dell’ordine
Appendici
PREMESSA
La questione centrale affrontata in questo libro è: cosa fanno della loro nuova potenza gli Stati che hanno appena vinto una guerra importante? La mia risposta è che in questo tipo di situazione storica, gli Stati si sono preoccupati di conservare la loro potenza e prolungarne la durata, e che, paradossalmente, quest’obiettivo li ha spinti a moderare la loro forza per renderla accettabile agli altri Stati. In corrispondenza delle grandi sistemazioni postbelliche, gli Stati-guida hanno usato sempre di più le istituzioni sorte dopo i conflitti per stabilizzare la loro favorevole posizione internazionale e attuare una ‘strategia della moderazione’ riguardo all’uso della loro potenza, tale da procurare loro la fiducia e la disponibilità alla collaborazione degli Stati meno forti e influenti. L’ideale, per uno Stato-guida postbellico, sarebbe vincolare gli altri Stati a orientamenti politici fissi e prevedibili, evitando di farsi legare le mani da qualsivoglia istituzione. Ma se vuole ottenere un impegno istituzionale dagli Stati meno potenti – cioè, volendo vincolarli a un ordine postbellico – lo Stato-guida deve offrire qualcosa in cambio: un certo grado di autolimitazione credibile e istituzionalizzata del proprio esercizio del potere. Il tipo di ordine che prende forma dopo le guerre principali dipende dall’abilità degli Stati nel moderare istituzionalmente il loro potere e nel contrarre impegni a lunga scadenza.
Il visconte Castlereagh nel 1815, Woodrow Wilson nel 1919 e Harry Truman nel 1945: tutti questi statisti cercarono di usare il nuovo predominio del proprio Paese per modellare una sistemazione postbellica che legasse gli altri Paesi tra loro e allo Stato-guida. I rappresentanti degli Stati Uniti si trovarono in una situazione analoga dopo il 1989. Ma per legare gli altri Paesi all’ordine desiderato, gli Stati-guida non si sono limitati a usare la loro potenza: ne hanno anche circoscritto l’uso per ottenere la collaborazione altrui. Il successo degli Stati-guida ai quali ho accennato nella costruzione di uno stabile ordine internazionale è anche dipeso dalla loro abilità nel moderare la loro potenza per mezzo delle istituzioni. Un’abilità che ha influito profondamente sul tipo di ordine internazionale sorto dopo la guerra.
Il mio interesse per le giunture postbelliche e le sistemazioni di pace è nato agli sgoccioli degli anni Ottanta, in pieno dibattito su carattere e significato dell’egemonia americana. Il mio interesse non riguardava tanto la fase di declino dell’egemonia, ma, al contrario, il suo sorgere, e in senso più generale, la nascita di un ordine politico.
La fine della guerra fredda rendeva ancora più pressante la mia curiosità. E, in almeno due modi, alzò la posta in gioco del mio interrogarmi sulla questione dell’ordine: anzitutto, con la fine della guerra fredda studiosi e analisti politici cominciarono a sostenere che l’America si trovava di nuovo in una grande congiuntura postbellica, e su uno spartiacque simile a quelli del 1919 e del 1945. Una questione che immediatamente si trasformò in quest’altra: cosa possiamo apprendere dalle precedenti sistemazioni postbelliche circa il modo in cui dare vita a un ordine postbellico stabile e conveniente? L’altra circostanza che alzò la posta in gioco fu che la fine della guerra fredda rese più vivaci alcuni dibattiti teorici. Il momento sembrava il più adatto a chiarire se la minaccia esterna era stata il principale elemento di coesione e collaborazione tra le democrazie industriali. Durante la guerra fredda, le ipotesi sulla collaborazione erano state sopradeterminate. Sia i neorealisti che i liberali proponevano spiegazioni plausibili, ma non c’erano dati capaci di indicare con precisione quali fattori fossero più importanti. All’inizio del dopo guerra fredda, le due tradizioni teoretiche pronosticarono, per lo più, sviluppi diversi, e sembrò presentarsi la possibilità di valutare con più precisione il valore dei rispettivi sistemi concettuali.
Nell’autunno del 1991 mi sono recato a Washington, per una collaborazione di un anno col gruppo di Pianificazione politica del Dipartimento di Stato. La capitale risultò intellettualmente molto vivace in quel periodo. In agosto, il premier sovietico Mikhail Gorbachev si recò nel sud della Russia per un periodo di riposo, e durante la sua assenza un colpo di Stato fu tentato a Mosca. Il dramma si svolse sotto gli occhi del mondo, in diretta televisiva. Un politico riformista in ascesa di nome Boris Yeltsin, in piedi su un carro armato davanti al Parlamento, tenne un discorso alzando il pugno in segno di sfida. I golpisti furono sconfitti e i democratici ripresero il controllo della situazione, ma da quel momento l’Impero sovietico cominciò a disgregarsi. La guerra fredda era finita.
Assistere al dramma dal Dipartimento di Stato fu rivelatore. La diplomazia americana era terribilmente preoccupata per le condizioni di salute del governo civile guidato da Yeltsin. In Russia, l’inverno 1991-1992 fu rigido e si temeva che proteste per la scarsità di generi alimentari e altri disagi uccidessero la neonata democrazia. La più grande riunione di consiglieri dei ministri mai svoltasi al Dipartimento ebbe luogo nel gennaio 1992 per coordinare gli aiuti alimentari, medici, energetici e abitativi alla Russia. Ma al di là della crisi immediata, in privato i politici e i burocrati si interrogavano sul futuro. La guerra fredda era finita; cosa sarebbe venuto, dopo? Il containment e la competizione strategica tra Unione Sovietica e Occidente aveva dominato la scena internazionale per molto tempo. L’euforia della ‘vittoria’ della guerra fredda si mescolava all’ansia circa le strategie di fondo e gli scopi della politica estera americana nella fase successiva. Una delle grandi preoccupazioni del momento riguardava la futura coesione delle democrazie industriali, le nazioni del cosiddetto ‘mondo libero’ che avevano appena vinto la guerra fredda. La minaccia esterna che aveva alimentato il loro spirito di collaborazione era venuta bruscamente a mancare. Cosa avrebbe tenuto unite le potenze industriali avanzate? Uno dei miei colleghi della Pia nificazione politica continuava a chiedere quale ‘collante’ avrebbe tenuto insieme il sistema. Era il grande interrogativo del momento, e resta un tema importante del dibattito sull’ordine internazionale nel dopo guerra fredda.
Un altro modo di formulare la questione è: quali sono le sorgenti dell’ordine stabilitosi tra le democrazie industriali? In questo libro, sostengo che il luogo migliore in cui cercare la risposta è la situazione dopo le guerre, quando gli Stati affrontano i problemi fondamentali della ricostruzione dell’ordine: è allora che esso prende forma. La soluzione che propongo si ispira sia alla tradizione teorica realista che a quella liberale. Il realismo formula, riguardo al potere, molte delle domande giuste: chi lo possiede, come è esercitato, come reagiscono gli altri Stati a una forte concentrazione di potere a essi esterna? Ovvero, come mi sono chiesto in questo libro, secondo quale processo il potere si trasforma in ordine? Ma i realisti, o almeno gli attuali neorealisti, non conoscono nè tutte, nè le più importanti risposte alle loro domande. Certi tipi di Stati – le democrazie liberali mature – hanno la capacità di dispiegare istituzioni che, insieme all’apertura e accessibilità della stessa democrazia, permettono alle nazioni postbelliche di superare i problemi di ostruzionismo e diffidenza verso la potenza altrui che storicamente caratterizzano questi snodi storici. Nei secoli, gli Stati hanno fronteggiato problemi simili di ricostruzione dell’ordine internazionale dopo un grande conflitto, adottando ‘soluzioni’ di volta in volta diverse. E oggi, almeno tra le democrazie occidentali, le soluzioni appaiono molto simili a quelle date al problema dell’ordine all’interno degli Stati. Restano misteriose, secondo un’ottica neorealista, le ragioni per cui uno Stato potente si assoggetta ai vincoli delle istituzioni internazionali. Cosa spinge una Germania di nuovo unita, che si delinea come la principale economia europea del dopo guerra fredda, ad accettare di entrare in un ordine monetario continentale destinato a restringere il ventaglio delle sue opzioni? Oppure, per citare una delle questioni storiche affrontate nel libro, perchè gli Stati Uniti, usciti dalla Seconda guerra mondiale come la più potente nazione della Terra, hanno contribuito a tessere una fitta trama di istituzioni internazionali occupandone proprio il centro? In generale, i neorealisti hanno dato poca importanza alle istituzioni; per questo non sono nella condizione di avanzare ipotesi precise. Quella suggerita dall’autore è che in casi come quelli citati, la nazione in posizione preminente adotta una strategia di gestione del potere più sofisticata di quanto teorizzato dai neorealisti; ma egli sostiene che per comprendere bene il ruolo delle istituzioni in simili frangenti occorre superare anche la teoria istituzionale razionalista e contrattualista proposta dal liberalismo. Solo così apparirà chiaro come, anche nel quadro di rapporti di potere altamente asimmetrici, gli Stati industriali democratici abbiano potuto dare vita a un ordine stabile e legittimo.
C’è molto più ‘collante’ tra i Paesi industriali avanzati di quanto pensasse la maggior parte degli studiosi. Questo libro verte su come e perchè le cose stiano in tal modo.
Dopo essere stata un mondo a parte per tre millenni, la Cina entra nel XXI secolo con il piglio di un attore globale che viene per restare. Ma sulla base di quali regole del gioco? È pensabile che una grande potenza nascente accetti di adeguarsi ai princìpi di un ordine internazionale fondato in un tempo in cui essa era politicamente irrilevante?
Dimenticare che quello della Cina non è un debutto, ma una rentrée sulla scena mondiale significa non comprendere il modo di ragionare di un miliardo e mezzo di cinesi, che da sempre chiamano il loro paese Zhong guo, ‘Stato al centro’.
Oggi il risparmio asiatico, soprattutto cinese, finanzia buona parte del consumo di Stati Uniti ed Europa occidentale. Gli acquisti delle materie prime necessarie alle industrie della Repubblica Popolare sostengono la crescita delle economie di Australia e America Latina. Il Giappone è uscito dalla palude di una stagnazione decennale anche grazie alle opportunità aperte dal mercato cinese, mentre in Russia le ordinazioni di Pechino evitano la bancarotta di un intero comparto strategico come quello tecnologico-militare. E se è vero che gran parte dell’Asia ha trovato nella Cina un sostegno prezioso in occasione della crisi finanziaria del 1997, allo stesso modo c’è consenso sul fatto che l’Africa non potrebbe oggi crescere ai ritmi più alti degli ultimi decenni se non per effetto degli investimenti e degli aiuti allo sviluppo provenienti dal gigante asiatico.
La Cina è già ora un nodo imprescindibile della rete economica e politica globale. Il XVII congresso del Partito Comunista Cinese ha confermato fino al 2012 la strategia di ‘sviluppo pacifico’. Occorre chiedersi, però, se pacifico sarà soltanto il processo di sviluppo o anche il suo esito. Oggi la Cina ha senza dubbio bisogno di pace e stabilità per crescere, ma che cosa riserva il futuro a un mondo i cui equilibri economici e politici si stanno riassestando? Qual è la reale entità della sfida cinese all’egemonia degli Stati Uniti? Quali sono i dilemmi di sicurezza legati al riarmo cinese e alla volatile situazione geopolitica asiatica, a partire dallo Stretto di Taiwan? E in quali termini il dinamismo degli investimenti cinesi all’estero si traduce in una crescita di influenza politica? Questo libro, tra i pochi in Italia dedicati al ruolo della Cina nella politica internazionale, è pensato come contributo a una sfida interpretativa critica che guardi al domani non solo del grande paese asiatico, ma anche dell’Italia, dell’Europa, del mondo.
Giovanni B. Andornino ha conseguito un master in Global History alla London School of Economics and Political Science ed è dottore di ricerca in Rappresentazioni e comportamenti politici presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Attualmente è assegnista di ricerca presso l’Università di Torino e visiting professor alla Zhejiang University (Hangzhou, Repubblica Popolare Cinese).
Molti sono, per l'autore, i processi che mettono a repentaglio la democrazia. Prima di tutto la globalizzazione economica e l'accentramento di un grande potere decisionale nelle mani di poche multinazionali che sfuggono al controllo politico. Poi la creazione di organismi sovranazionali, più lontani dai cittadini, spesso governati da élite tecnocratiche non formate attraverso competizioni elettorali. E come se non bastasse, anche le nuove tecnologie, come Internet che alterano il meccanismo tradizionale della rappresentanza politica (basta pensare all'uso spesso arbitrario dei sondaggi).
Molti sono, per l'autore, i processi che mettono a repentaglio la democrazia. Prima di tutto la globalizzazione economica e l'accentramento di un grande potere decisionale nelle mani di poche multinazionali che sfuggono al controllo politico. Poi la creazione di organismi sovranazionali, più lontani dai cittadini, spesso governati da élite tecnocratiche non formate attraverso competizioni elettorali. E come se non bastasse, anche le nuove tecnologie, come Internet alterano il meccanismo tradizionale della rappresentanza politica (basti pensare all'uso spesso arbitrario dei sondaggi).
"Nel caso favorevole le crisi sono temporali purificatori. Può anche darsi che la crisi attuale favorisca un cambiamento di mentalità che alla fine induca nelle persone un atteggiamento più prudente rispetto a quello promosso dal capitalismo di debito. Quali possano essere i meccanismi sociali capaci di condurre a un simile cambiamento non è però chiaro. Non pare comunque che stiano nascendo movimenti politici in grado di offrire progetti di un futuro alternativo che abbiano una qualche speranza di raccogliere ampie adesioni. Il motivo è semplice: la crisi ha prodotto indubbiamente vittime, ma non ha creato una nuova forza politico-sociale capace di promuovere un cambiamento di mentalità in nome di un'immagine del futuro che abbia prospettive di successo." Il volume è accompagnato da una Postfazione di Laura Leonardi.
Era solo il 30 agosto 2010 quando Gheddafi e Berlusconi festeggiavano a Roma il secondo anniversario dell'accordo di amicizia e cooperazione italo-libico. Gli turbinosi eventi hanno sconvolto un panorama libico già profondamente trasformato dalla Primavera araba. Da un lato, dopo la violenta uscita di scena del rais, in Libia sembra essersi avviato un promettente processo di democratizzazione, segnato dalle tappe del governo provvisorio, delle prime elezioni libere e ora della nomina di Abu Shakour. Dall'altro le tensioni sono ancora una minaccia concreta, come hanno drammaticamente dimostrato le proteste al consolato americano che hanno causato la morte di tre persone oltre a quella dell'Ambasciatore. Pelosi e Varvelli ci guidano attraverso i rapidi cambiamenti del paese individuando con precisione le diverse sfide che si prospettano nel futuro libico: la difficoltà di costruire un'unità nazionale, la ricomposizione in un esercito centrale delle milizie ribelli che ancora dettano legge in alcune aree del paese, l'enigma della Costituzione a venire nel suo rapporto con la Sharia, la capacità della Libia di gestire la fitta rete internazionale di interessi petroliferi che investono il suo territorio. Con determinazione i due autori invitano l'Italia a recuperare il suo rapporto storicamente privilegiato con il vicino libico, indicando nella ricostruzione materiale e istituzionale della Libia un'opportunità di crescita per entrambi i paesi.
Giulio Cesare e Silvio Berlusconi, Elena di Troia e Patrizia D'Addario, Cleopatra e Carla Bruni, Marilyn Monroe e Noemi Letizia, Vittorio Emanuele II e Gianfranco Fini, Giuseppe Garibaldi e Benito Mussolini, Madame Pompadour e Ania Pieroni, Anna Bolena e Monica Lewinsky, Eleanor Roosevelt e Michelle Obama, Richelieu e Gianpaolo Tarantini, Cavour e Massimo D'Alema... Sono centinaia i protagonisti di questo sorprendente libro di Bruno Vespa, che va a scavare in duemila anni (anzi, in tremilacinquecento) di esistenze umane per raccontare un unico tema, che come una melodia ricorrente ha accompagnato tutte le epoche: il ruolo delle donne - e, quindi, il peso dell'eros e del sesso, ma anche la loro presenza rassicurante e protettrice - accanto agli uomini che hanno fatto la storia.
L'attualità italiana è, come sempre, dirompente. Per le vicende che hanno coinvolto le frequentazioni femminili del presidente del Consiglio e dettato una parte rilevante dell'agenda politica del 2009. Per le questioni familiari di Berlusconi, che hanno portato a una richiesta di divorzio da parte della moglie Veronica. E per la discussione che si è aperta sulle molte, troppe violazioni della privacy di uomini pubblici, siano essi il presidente del Consiglio o quello della regione Lazio, Piero Marrazzo, protagonista dell'ultimo scandalo a sfondo sessuale.
Ma il libro spazia nei secoli passati e in ogni paese del mondo, e ci mostra che quasi tutti i potenti hanno avuto un enorme interesse per le donne, e che le donne hanno saputo approfittarne in modo talvolta intelligente, spesso spregiudicato (Cleopatra rappresenta, in questo senso, un modello forse insuperabile). Così, pagina dopo pagina, si aprono al lettore scenari inediti: papi rinascimentali che accrescono il loro potere sistemando figli e nipoti, le favorite dei re di Francia più colte e brillanti (oltre che più belle) delle stesse regine, Napoleone vittima delle sue amanti e della sua incredibile ingenuità, Garibaldi scrittore di appassionate lettere d'amore, Cavour che rinuncia al matrimonio per il potere... Ma anche la bulimia sessuale di John F. Kennedy e di Bill Clinton, gli amanti segreti di lady Diana e la sua guerra con Camilla (tradita a sua volta da Carlo), la furia erotica di François Mitterrand e di Carla Bruni, l'andirivieni sentimentale di Cécilia e Nicolas Sarkozy.
E poi, la castità di De Gasperi e Berlinguer, le tante amanti di Gronchi e Craxi, le seconde unioni di Fini, Casini, Bossi, D'Alema, le compagne discrete di Veltroni, Bersani e Franceschini, la vivace vita amorosa di Berlusconi. E tanto altro ancora. In un grande affresco che rivela l'insospettabile influenza avuta dalle "donne di cuori" nella storia umana.

