
La figura culturale, politica e umana di Piero Gobetti, il grande intellettuale di "Energie nove", de "La rivoluzione liberale", de "Il Baretti", lo scopritore di Eugenio Montale, la figura di un intellettuale che, secondo le parole di Norberto Bobbio, "resta un esempio unico e meraviglioso di un'opera consumata in pochissimi anni e apparentemente compiuta", è ben nota a tutti. Meno nota la figura di Ada Prospero, che Gobetti sposò nel 1924, due anni prima della morte, ma con la quale ebbe un rapporto privilegiato fin dal 1916. Si può senz'altro dire che, dato il rapporto tra i due, non si possa intendere appieno la storia di Piero Gobetti se non alla luce di quella di Ada Prospero. Questo volume ripercorre la storia di Piero e Ada Gobetti attraverso i loro diari inediti proposti in modo incrociato e un'amplissima selezione di lettere dal loro epistolario. In questo modo le pagine private si intersecano alle più importanti pagine politiche e alle vicende dell'avvento del fascismo e del formarsi dell'antifascismo. I testi sono preceduti da un esame storico e corredati da note che scandiscono e chiariscono le tappe della vita di Piero e di Ada. Ne scaturisce un affresco che restituisce i tanti fili di un'eccezionale storia di cultura e di impegno, oltre che di una straordinaria storia d'amore.
Esiste una direzione della Storia, una strada obbligata che, lungo i secoli, il genere umano ha percorso alla ricerca dell'originario paradiso perduto o di una condizione finalmente stabile e, in certo modo, definitiva? L'affermarsi del modello liberale come unico sistema politico ha segnato veramente l'ultimo tratto della Storia o si tratta, invece, di uno dei tanti momenti destinati a essere travolti da nuovi equilibri? Sono sufficienti la libertà e l'uguaglianza, sia politica, sia economica (raggiunte in una presunta 'fine della Storia') a garantire una condizione sociale stabile in cui ogni uomo possa dirsi completamente soddisfatto? A queste e altre domande risponde Fukuyama in questo volume che ha segnato un punto di estrema importanza nella riflessione politica del Novecento.
Ritornare alle radici della democrazia moderna.
Rimettere al centro delle nostre società il valore dell'uguaglianza, che ha animato la Rivoluzione americana e quella francese. È l'appassionato appello di Vittorio Emanuele Parsi, docente di Relazioni Internazionali, all'Occidente smarrito in una crisi economica che minaccia la tenuta del suo stesso modello politico. Una crisi che ha trovato i suoi presupposti proprio nel sistematico attacco al principio di uguaglianza, portato avanti a partire dagli anni Ottanta in nome di una malintesa ed esasperata libertà del mercato. Non c'è nessuna opposizione, invece, tra libertà e uguaglianza, perché "senza uguaglianza la libertà si chiama privilegio". Così come non c'è nessuna incompatibilità tra democrazia e mercato, anzi i loro destini sono strettamente legati. È stato proprio il diffondersi del mercato di massa, infatti, a partire dall'America del New Deal e poi tra i suoi alleati europei nel secondo dopoguerra, a favorire, insieme al benessere, l'allargamento della partecipazione politica grazie all'affermazione della middle class democracy, la democrazia dei ceti medi.
Oggi, invece, con il riacutizzarsi delle diseguaglianze, questa classe media tende progressivamente a impoverirsi, e la vita democratica, colpita nel suo baricentro, ne risulta indebolita: un fenomeno che cogliamo con particolare evidenza nel nostro Paese, già gravato dalle sue fragilità storiche, in cui crescono le sperequazioni sociali, aumenta l'illegalità e la politica è tentata dalle opposte scorciatoie della tecnocrazia e del populismo.
L'unica soluzione alla crisi della democrazia e al prevalere di una nuova società dei privilegi consiste, quindi, nel riaffermare con forza il principio dell'uguaglianza come garanzia di coesione sociale, come fattore di sviluppo e di crescita, riconoscendone la convenienza economica accanto alla plausibilità morale. Non solo all'interno dei singoli Paesi, ma anche nelle relazioni tra gli Stati, in particolare nell'Unione Europea, oggi sempre meno comunità di uguali e sempre più espressione dell'egemonia tedesca.
Dobbiamo ritrovare un'orgogliosa consapevolezza dei nostri valori. Tutte le alternative illiberali alla democrazia occidentale, ricorda l'autore, sono andate incontro alla sconfitta.
E lo stesso modello cinese è destinato prima o poi a scontrarsi con le sue contraddizioni e si sta rivelando nei fatti come un passaggio dalla "uguaglianza totalitaria" alla "disuguaglianza totale". Muovendosi agilmente tra storia e attualità, riscoperta delle grandi ispirazioni ideali e documentate analisi economiche, Parsi richiama "quest'Europa disorientata ", epicentro della crisi, al coraggio dei momenti decisivi: solo difendendo il concetto di uguaglianza si potrà salvare la democrazia e l'identità dell'Occidente.
Sappiamo che il potere si sta spostando: da Ovest a Est e da Nord a Sud, dai palazzi presidenziali alle piazze e al cyberspazio, dai formidabili colossi industriali alle agili start-up e, in modo lento ma inesorabile, dagli uomini alle donne. Chi oggi si trova in posizioni di potere è più vincolato, ha meno margini operativi e rischia di perdere il posto come mai prima d'ora. Il potere sta diventando più debole ed effimero: è divenuto più facile da conquistare, ma più difficile da esercitare e più semplice da perdere. Ne "La fine del potere", Moisés Naím, giornalista ed ex direttore di "Foreign Policy" illustra la lotta tra i grandi protagonisti un tempo dominanti e i nuovi micropoteri che li sfidano in ogni ambito dell'azione umana. Una contrapposizione, quella tra micropoteri ed establishment, che può sfociare nel rovesciamento dei tiranni o nell'eliminazione dei monopoli, ma anche condurre al caos e alla paralisi. Gli esempi sono sotto gli occhi di tutti, nell'ambito degli affari come in quello della religione, dell'istruzione o della famiglia, in pace come in guerra: nel 1977, ottantanove paesi erano governati da autocrati, mentre oggi oltre la metà della popolazione mondiale vive in regimi democratici; nella seconda metà del 2010, i primi dieci fondi speculativi del mondo hanno registrato profitti superiori a quelli complessivi delle sei banche più importanti; gli amministratori delegati sono sottoposti a maggiori vincoli...
C'è una crisi di fiducia nei confronti della politica che attraversa il mondo occidentale. La rabbia e l'insoddisfazione per i partiti convenzionali e i loro leader aumentano di giorno in giorno. Il populismo e l'antipolitica trionfano sulla democrazia. Perché? Perché il nostro linguaggio è cambiato. Mark Thompson ha passato trent'anni alla Bbc, diventandone il direttore generale, per poi essere scelto come amministratore delegato del "New York Times": è, dunque, uno dei più titolati osservatori a livello mondiale dei media, della politica, della società ma, pur avendo un ruolo di primissimo piano nella sfera pubblica, non aveva mai scritto un libro. Ora ha deciso che è tempo di parlare di un argomento fondamentale per la democrazia occidentale: il cambiamento che ha investito la lingua del dibattito pubblico. In un mondo dell'informazione sempre più sconvolto dalle tecnologie digitali, in cui le notizie si rincorrono incessantemente e hanno una vita sempre più breve, i commenti sono sempre più a caldo e privi di approfondimento, chiunque possieda un cellulare dice la sua sui social network su qualsiasi argomento e la politica sembra incapace di affrontare i veri problemi del mondo, come si fa ad avere un luogo in cui discutere seriamente dei temi importanti, prendere decisioni in modo ponderato e condiviso, formare un'opinione pubblica? Nato da un ciclo di lezioni tenute a Oxford sulla retorica e nutrito di fatti, esperienze e dettagli di una vita passata al vertice assoluto dell'informazione mondiale, "La fine del dibattito pubblico" rappresenta un contributo di riflessione fondamentale sul mondo di oggi, uno sguardo acuto sull'erosione del linguaggio della sfera pubblica da parte di chi può misurarne le conseguenze.
Uno dei problemi principali affrontati nel corso dei secoli dai filosofi politici è la differenza tra l'agire politico e l'agire in modo moralmente giusto. Per la filosofia politica contemporanea la giustizia globale è il principale rompicapo da risolvere, e il compito dei filosofi politici coincide con l'elaborazione di una teoria che tenga insieme le diverse esigenze. È un dovere tanto ineludibile quanto difficile. Serve una teoria che risponda alla domanda a proposito del 'mondo giusto' e che si misuri con l'ingiustizia della terra. Salvatore Veca, che è stato uno dei maggiori filosofi politici contemporanei, con questo libro ci offre una guida alla filosofia politica contemporanea.
In "Come sfasciare un paese in sette mosse" Ece Temelkuran è riuscita a farci percepire, con dolorosa consapevolezza, l'estrema pericolosità del tempo che stiamo vivendo, un tempo che sta virando nuovamente verso un nuovo tipo di fascismo, con un cambio di passo evidente rispetto alla società che era uscita stravolta dalla seconda guerra mondiale. Di nuovo ci troviamo di fronte alla questione del male radicale e come allora torniamo a domandarci «da dove viene tutto questo odio?». Ovunque nel mondo vediamo una disuguaglianza inaccettabile, nel discorso politico le persone sono tornate a essere sacrificabili, c'è un chiaro attacco globale ai movimenti antifascisti e si è persino giunti a criminalizzare i ragazzi che scioperano per il clima. Leggiamo accuse agli scienziati, sperimentiamo in molti paesi un terrificante passo indietro sui diritti delle donne e non possiamo non constatare che la spietatezza è ormai diventata un'identità culturale e politica. È ora di ripristinare la fede nel genere umano. La fiducia e la dignità vuole offrire un nuovo linguaggio, che vada oltre il discorso politico. Nell'epoca della polarizzazione estrema e dell'odio, Temelkuran costruisce in queste pagine appassionate un vocabolario fatto di parole di cui riappropriarsi, parole accoglienti come «dignità», «attenzione», «partecipazione», «gesto umano». È necessario che sempre più persone sostengano l'idea di un mondo giusto e dignitoso, recuperando la parola «fede», riscattandola dal suo contesto religioso. Perché da decenni, ormai, proprio la fede è stata distrutta, soprattutto da una frase che è diventata inattaccabile a forza di ripeterla: «Non c'è alternativa». Invece un'alternativa deve esserci: abbiamo fatto piramidi e rivoluzioni, sinfonie e viaggi spaziali, fisica quantistica e millenni di evoluzione e ci troviamo ora, all'inizio del XXI secolo, a un punto morto della storia umana. È veramente questo tutto ciò che possiamo essere? Tutto quello che possiamo fare?
Nel 2001 a Genova viene spezzato il sogno dei No global italiani. La ferita è devastante, quasi mortale. Eppure il movimento No global ha cercato di rimettersi in piedi, vivendo altre giornate importanti, che lasciavano presagire un nuovo inizio, che però non è mai fiorito. Cos'era in fondo quel movimento? Possibile che sia apparso con roboante fragore sulla scena politica italiana e mondiale e poi rapidamente sparito, come una meteora luminosa? Ripercorrere gli eventi degli ultimi dieci anni, partendo e ritornando da Genova, significa incrociare una storia molto italiana: le giornate esaltanti del Forum di Firenze, la lacerazione sulla disobbedienza civile, la questione del pacifismo, la rottura con l'ala più radicale e l'addio delle associazioni cattoliche, la lotta contro l'Alta velocità in Val di Susa e quella contro la base americana a Vicenza, fino ai comitati contro i rifiuti e alle rivolte degli ultimi mesi. Questo reportage racconta ciò che è accaduto prima di Genova, durante e soprattutto dopo. I preparativi al G8, i laceranti dibattiti interni, la sordità del potere; e a distanza di anni rilegge il significato del culto sorto intorno alla figura di Carlo Giuliani; rivisita i luoghi oscuri della Diaz e Bolzaneto e la speranza di una rinascita sotto le bandiere arcobaleno, fino agli anni del rompete le righe, alla perdita di un orizzonte comune e al mesto ritorno a casa.
Pensi davvero che ci sia da temere per la democrazia, anche solo come forma politica? Non ti pare che ormai, nel mondo occidentale, nessuno oserebbe proclamarsi antidemocratico? Perfino i dittatori, quando prendono il potere, sciolgono il Parlamento e sospendono i diritti, dicono di farlo per restaurare la 'Vera democrazia'. La democrazia è l'ideale del nostro tempo. Ma la democrazia è un sistema di governo molto compiacente. Può ospitare tante cose, senza abbandonare il suo nome. C'è da preoccuparsi perciò della sua salute, cioè della sua efficacia, che è poi la sua capacità di mantenere le promesse. Non è strano infatti che alla massima estensione spaziale della democrazia corrisponda un'insicurezza, anzi uno scetticismo crescente, diffuso e diffusivo nei suoi confronti? Il disincanto democratico, si sta diffondendo sempre di più, non tra chi appartiene ai giri del potere, ma tra chi ne è escluso. È il segno che la democrazia, come ideale politico si sta appannando, anzi, sta facendo una semi-rotazione: dal basso all'alto. Ma se chi ne ha più bisogno rinuncia alla democrazia come ambito di libertà nel quale è possibile l'emancipazione, il cambiamento, la semplice affermazione di diritti, allora la democrazia è mutilata, perché parziale. E dove va chi è deluso dalla democrazia? Non va da nessuna parte, perché non ci si può astenere dalla democrazia come se fosse un'opzione politica. Il fatto è che la democrazia è fragile, è delicata, è manipolabile...
C'è vita nella democrazia, dunque è giusto e possibile cercarvi anche la felicità. Che viene dalla nostra normale condizione di cittadini fedeli e infedeli, uomini e donne, persone liberamente associate. Proprio qui sta la possibilità vera della felicità: nella condizione di libertà personale e civile che nasce dalla democrazia, nella consapevolezza che tutti – non io soltanto – esercitano quella libertà e ne riconoscono il limite.
La democrazia non mantiene le sue promesse, la democrazia può deludere quando non produce buona politica e buon governo, quando non risponde alle mie esigenze biografiche. E tuttavia, come si fa il saldo della partita democratica? Scrivi pure quelle poste al passivo, e concludi che viviamo in una fase di bassa qualità della democrazia. Ma tra gli attivi io scrivo la mia (e la tua) libertà, intatta, i miei diritti, i principi d'uguaglianza alla base del nostro ordinamento, la possibilità di informarmi e d'informare, di pregare o di non credere, di studiare e di lavorare, di intraprendere, di governare e di dissentire, in un sistema in cui questo vale per tutti. È difficile, molto difficile, ma l'avvenire contiene molte cose, molte. Queste cose sono atti e fatti. La democrazia chiede che dipendano da noi coscientemente, responsabilmente, attivamente, perfino felicemente quanto è possibile.
Vivere per quattordici anni nelle condizioni più disumane che un uomo possa sopportare, ostaggio di una dittatura feroce fino a dimenticare il proprio volto. Essere prima guerrigliero e poi deputato, senatore, ministro e, infine, Presidente della Repubblica dell'Uruguay. Rinunciare al 90% dello stipendio per vivere felice dedicando il tempo della vita alla terra e al rapporto con gli altri. Questo e molto altro è José "Pepe" Mujica, il Presidente più famoso del mondo. A quasi ottant'anni è l'esempio più scomodo che esista per l'intera classe politica planetaria, perché il "Pepe" è l'esempio vivente di come si può pensare al bene comune senza avere brame di potere e di ricchezza vivendo, anzi, come qualsiasi cittadino della propria nazione. Questo libro ospita un'intervista esclusiva rilasciata a Montevideo a Cristina Guarnieri, direttrice della casa editrice Eir, nonché i discorsi più importanti e famosi del Presidente, fra cui spicca il discorso sulla felicità - che dà il titolo al libro - proferito dal Presidente al G20 in Brasile nel giugno 2012. Inoltre è corredato da una biografia romanzata di Mujica, ideata da Massimo Sgroi e approvata dalla presidenza, da alcune pagine che Mujica ha scritto di suo pugno per questa prima edizione italiana, dalla Prefazione di Omero Ciai, giornalista di Repubblica e da una Postfazione di Donato Di Santo, responsabile politico dei rapporti Italia-Sud America.
Da guerrigliero Tupamaro a Presidente della Repubblica dell'Uruguay, passando per 14 anni di carcere sotto la dittatura: la parabola esistenziale di José "Pepe" Mujica è diventata per il mondo intero un'immagine di speranza e felicità. "El Pepe" è l'esempio vivente di come si possa pensare al bene comune senza avere brame di potere e di ricchezza vivendo, anzi, come qualsiasi cittadino della propria nazione. Il libro ospita un'intervista esclusiva rilasciata a Montevideo a Cristina Guarnieri. una biografia autorizzata di Mujica scritta da Massimo Sgroi. nonché i discorsi più importanti e famosi del Presidente, fra cui spicca quello sulla felicità che dà il titolo al libro. Nuova edizione aggiornata con i contributi di Roberto Saviano e Milena Gabanelli.