
L’uomo postmoderno emerge al crocevia di tecnica, religione e politica. Incontrando la persona, la tecnica rimedia ai mali che ne minacciano la salute, non a quelli derivanti dalla sua volontà di potenza. La politica, che per Platone è la ‘tecnica regia’, è necessaria per con-vivere. Si profila oggi un rapporto positivo fra vita civile e religione dopo la lunga privatizzazione di quest’ultima. Impegnata in nuove urgenze (laicità, nichilismo giuridico, libertà religiosa), la teologia politica non è liquidata, né la persona è antiquata, ma da educare: un compito che deve fare i conti con un annoso deficit educativo in Occidente. La tensione pedagogica sviluppatasi nella prima metà del ‘900 è stata dissipata e attende una ripresa.
La filosofia contemporanea, in rilevante misura, avverte la mancanza di fondamento, naturale conseguenza dell'abbandono di una visione sistematica della realtà e della stessa esistenza umana. Il quadro metafisico della tradizione classica e moderna sembra disarticolarsi e dissolversi. Il presente saggio propone di esprimere le esigenze più profonde della condizione umana in termini di ontologia. Si tratta di recedere da esaurienti costruzioni metafisiche, compiere un "passo indietro" dalla metafisica all'ontologia, ossia da una dottrina del mondo intelligibile (metafisica classica) alla problematica del rapporto tra la coscienza e l'orizzonte finale di senso: la struttura trascendentale della condizione umana, la trascendentale incompiutezza del "già, non ancora". L'intreccio tra prossimità e ulteriorità offre un efficace paradigma dì un approccio irrisolvibile nel compimento, ma che continuamente si ripropone. "Amare - osserva Lévinas - è cercare ancora chi ci è più vicino". Anche quando pensiamo "fino in fondo" il nostro rapporto con l'orizzonte finale di senso, avvertiamo un ineludibile intreccio di prossimità e ulteriorità. La dimensione metafisica si ripropone nei termini ridotti, ma essenziali, di filosofia prima.
Quando, nel 1953, vennero pubblicate le "Ricerche filosofiche", Oxford e Cambridge erano la Mecca della filosofia analitica, e Ludwig Wittgenstein ne era il campione indiscusso. Il suo impatto sulla cultura filosofica del tempo indusse molti a ritenere che quel modo di pensare avrebbe conquistato anche il resto del mondo filosofico anglosassone. Fu una previsione sbagliata, come si può constatare osservando il quadro teorico di riferimento attualmente in auge nei dipartimenti di filosofia inglesi e statunitensi. La tradizione che risale a Wittgenstein non ha ottenuto negli Stati Uniti il prestigio atteso e in Gran Bretagna ha perso la centralità che pure aveva. Il volume documenta come ciò sia accaduto, raccontando il declino di quella illustre tradizione: la tendenza elei filosofi americani a recepire la filosofia "linguistica" con la mediazione di Carnap, ora dimenticando, ora fraintendendo Wittgenstein; e la resa di alcuni discepoli di Wittgenstein, sfidati dai mostri sacri della filosofia analitica (da Quine a Davidson, da Fodor a Putnam e Kripke) e incapaci di allearsi con i grandi wittgensteiniani eterodossi come Sellars, Strawson, Dummett e McDowell.
Cos'è il "sacro"? Appartiene esclusivamente alla sfera religiosa? È qualcosa che solo i credenti possono provare, oppure raccoglie in sé una serie di valori universali cui oggi - nell'epoca della "morte di Dio" - sembra difficile appellarsi? C'è un legame tra la biologia umana e la capacità di commuoversi di fronte a un'opera d'arte? Queste domande sembrano rimandare a campi del sapere lontani fra loro, se non del tutto inconciliabili, come la politica e la biologia, l'estetica e la teoria del linguaggio, la teologia e le scienze cognitive. Cimatti invece fa dialogare queste diverse tradizioni scientifiche e filosofiche, offrendoci così una tesi inedita: se è vero che al senso del sacro non è possibile rinunciare, in quanto geneticamente inscritto nella biologia dell'"animale uomo", è altrettanto vero che il sacro è un concetto storico, un prodotto della cultura umana, un'esperienza che l'uomo compie quotidianamente e che erroneamente è stata fatta coincidere con il sentimento religioso. Grazie a un approccio trasversale che accosta antropologia, logica, religione, scienza e filosofia, mistica e linguistica, Felice Cimatti affronta uno dei grandi dibattiti culturali che hanno impegnato sociologi, linguisti e filosofi, e ne dimostra - in un'epoca caratterizzata da un'apparentemente insanabile crisi di valori - l'attualità e l'urgenza.
In questo saggio si cerca di rispondere all'interrogativo se la conoscenza scientifica esiga l'intervento del ricercatore considerato non come un mero apparecchio di rivelazione, bensì come un soggetto individualmente e originalmente attivo, cioè come una persona. L'attenzione è rivolta, in modo peculiare alla sintetica e mirata presentazione e al confronto tra un epistemologia personalista, come quella di Polanyi e una apparentemente antipersonalista come quella di Bachelard.
La domanda sulla necessità dell'amicizia risale ad Aristotele, interprete di una serie di esigenze del suo tempo. La sua risposta è corretta? Ancora di più. in un'epoca come la nostra, nella quale le relazioni, gli affetti, la fiducia sono in bilico tra un'esigenza certe volte gridata e una crisi, almeno apparente, come si pone la stessa domanda? LA risposta dei filosofi, ma oggi anche degli educatori, degli esperti in comunicazione, degli storici, dei teorici della società non è scontata. Confrontandosi con la storia, con le voci più importanti del loro ambito, alcuni intellettuali si sono incontrati in un convegno romano, per riproporre la domandai maniera rigorosa e attenta alla situazione attuale.
Un filosofo e un fisico a confronto. La verità, secondo Krishnamurti, è un territorio senza sentieri tracciati. Qualcosa che l'uomo può raggiungere solo attraverso l'osservazione, e non con l'introspezione analitica. Ma che cos'è, poi, la verità? Che ruolo occupa nella vita dell'uomo? Conflitti individuali e collettivi e la possibilità di superarli: di questo il filosofo discute con David Bohm, uno dei più grandi fisici del nostro secolo.
Chi restituì la sapienza greca all’Occidente?
La controversa rivalutazione del ruolo dell’Islam nell’incontro tra Medioevo e cultura classica.
La cultura greca non tornò all’Occidente solo grazie all’Islam: a salvare dall’oblio i filosofi antichi sarebbe stato innanzitutto il lavoro dei cristiani d’Oriente, caduti sotto dominio musulmano, e dunque arabizzati. Questo sostiene il medievista francese Sylvain Gouguenheim ricordando come, prima delle traduzioni dall’arabo effettuate in Spagna, autori quali Giacomo Veneto avessero già messo mano alle opere aristoteliche. La civiltà islamica, inoltre, non avrebbe mai dimostrato un vero interesse per la sapienza greca: da parte musulmana si sarebbe trattato più che altro di un approccio selettivo, forte nei settori della logica o delle scienze della natura ma debole, per non dire inesistente, sul piano politico, morale o metafisico.
In un libro documentato e appassionatamente argomentato, che non ha mancato di suscitare violente polemiche tra gli specialisti, Gouguenheim ricostruisce il percorso dei greci e di Aristotele in particolare nel Medioevo. E riconsegna all’Europa il merito di uno sforzo culturale che solo in tempi recenti, anche per ragioni ideologiche, si è voluto ascrivere all’Islam.
La visione del mondo elaborata nella cultura medievale appare caratterizzata da una tensione alla trascendenza e al divino. Per usare le parole di Jacques Le Goff, l’uomo medievale è dotato di una mentalità simbolica, in ragione della quale le cose del mondo fisico non devono essere considerate come autentiche realtà, res, ma semplici signa, che rinviano ad altro e disvelano, senza mai renderla del tutto conoscibile, la verità trascendente, il mistero del divino. Questa mentalità simbolica ha come esperienza fondante la meditazione sulle Scritture: la Bibbia è il luogo, fisico e metafisico al tempo stesso, in cui la verità divina è rivelata. Di qui la necessità di interpretare il testo sacro, di comprendere in quali passi sono celati sensi nascosti e come decifrarli. Giovanni Scoto Eriugena, la cui opera è passata al vaglio in questo volume, rappresenta uno degli esempi più ricchi e speculativamente complessi della ‘mentalità simbolica’ medievale. Egli è il primo autore latino a utilizzare in modo sistematico e non generico il termine symbolum, legandolo sia alla sfera dell’attività semiotica del significare, sia al tema del discorso figurato e della rivelazione misterica. Il tema del symbolum viene ripensato da Eriugena all’interno di un peculiare orizzonte filosofico e investito di uno specifico significato speculativo e teologico. Il simbolo diviene, nel ricco orizzonte teoretico eriugeniano, un dispositivo metafisico che agisce come occasione e strumento per una relazione tra finito e infinito. Nei suoi scritti Eriugena usa anche altre tipologie del dire traslato, in particolare ‘metafora’ e ‘allegoria’. La presenza nei suoi testi delle tre più rilevanti categorie del discorso figurato permette di sviluppare, come avviene in questo volume di Francesco Paparella, un’analisi comparata tra di esse, per comprenderne le peculiarità e i caratteri comuni. In tal modo diventa possibile identificare il nucleo di una teoria del simbolo in grado di fungere da modello generale per interpretare il funzionamento dei dispositivi simbolici presenti anche in autori di epoche diverse.
Francesco Paparella è assegnista di ricerca presso il corso di laurea in Scienze e tecnologie della comunicazione dell’Università IULM di Milano. Studioso del pensiero neoplatonico e delle sue ramificazioni nella tradizione speculativa dell’epoca di mezzo, ha approfondito l’analisi degli aspetti semiotici ed estetici nella filosofia tardoantica e altomedievale. Tra le sue pubblicazioni: La storia in Eriugena come autocoscienza divina (2002); Proclo, Tria opuscula. Libertà, provvidenza, male (2004); Le felicità nel Medioevo (2005, con Maria Bettetini).
Le lezioni di Hegel sulla storia della filosofia costituiscono il laboratorio concettuale e terminologico del suo sistema di pensiero e delineano lo svolgimento storico che ad esso ha condotto. Tuttavia Hegel non ha mai dato alle stampe i testi dei suoi corsi, di cui resta traccia solo grazie a manoscritti, quaderni, appunti e annotazioni, autografe o dovute agli uditori. La sola traduzione italiana delle lezioni sulla storia della filosofia fino a oggi disponibile riproduceva l'edizione del 1840-44, curata da Karl Ludwig Michelet dopo la morte di Hegel. In linea con la più recente ricerca, a quel testo si è qui preferita l'edizione del corso berlinese del 1825-1826 pubblicata in Germania tra il 1986 e il 1996, a cura di Pierre Garniron e Walter Jaeschke. Il volume è corredato di un apparato di note e di un'introduzione a firma del curatore Roberto Bordoli. In appendice è data la traduzione dei manoscritti hegeliani relativi alle introduzioni ai corsi del 1820 e del 1823.
Uno tra i principali filosofi contemporanei si cimenta con il testo biblico del sacrificio di Isacco e affronta il tema della responsabilità della persona, del suo fondamento esistenziale, in rapporto con saperi e etiche costituiti.