
Caratteristica peculiare dell'approccio arendtiano all'interpretazione dell'esperimento totalitario - di cui i campi di concentramento sono l'"istituzione centrale" - è la "cristallizzazione" storica di due elementi strutturali che troviamo alle origini della Grande Tradizione occidentale: da un lato la metamorfosi della politica in biopolitica; dall'altro la perdita della concezione del potere come dynamis e come spazio del tra a favore della razionalità onnipervasiva dell'homo faber. Dentro tale cornice si dipana il fil rouge che lega i saggi contenuti in questo volume: alcuni di essi ruotano intorno alla "teoria politica del giudizio" proposta da Hannah Arendt, relativa a quale forma etico-politica assuma l'atto prettamente umano del giudicare quando l'oggetto del giudizio sono esseri umani o azioni che sembrano aver perso del tutto ogni connotazione "umana"; gli altri esplorano il suo ardito tentativo di "ripensare il totalitarismo", sia in riferimento ai terrificanti e per tanti versi inconcepibili eventi che hanno marchiato indelebilmente il secolo scorso, sia applicando le categorie interpretative dell'ermeneutica arendtiana del totalitarismo alla contemporaneità e alle perverse dinamiche politiche del presente.
Una lettura critica dell'incontro-scontro fra Arendt e il suo maestro Heidegger. Emerge la centralità del giudizio quale espressione di amore. Il giudizio nasce dalla decisione di prendere parte al mondo, come tentativo di salvaguardia della realtà. L'amore come passione dell'esistenza, accettazione dell'opacità del proprio essere. La carenza d'essere, che l'uomo evidenzia con la sua azione, non ha esito nichilistico, bensì rimanda a un altro.
Quando estetico e politico si incontrano il loro destino sembra segnato. Attraverso una lettura non convenzionale e ad ampio raggio dell’opera di Hannah Arendt, il libro dimostra che esiste una terza possibilità, oltre gli esiti previsti di una estetizzazione della politica o di una politicizzazione dell’estetica. Senza cedere le proprie prerogative o scalfire i rispettivi ambiti disciplinari, estetico e politico possono convergere, o meglio, trovare una radice comune nello sguardo spettacoriale che percepisce e giudica il mondo come scena pubblica, teatro di gesti, parole, azioni e produzioni umane. Un percorso inedito nel pensiero di Hannah Arendt, interrogato a partire da temi estetico-politici, quali il potere dell’apparire singolare e collettivo, il costruire e l’abitare il mondo con opere e performance, il rapporto tra vita e politica e tra azione e giudizio, il senso comune.
Il ’68 nell’analisi di una testimone d’eccezione: repubblicana, democratica radicale e anticonformista per natura, dopo il trauma della fuga dalla Germania nazionalsocialista e la riflessione sul totalitarismo, negli anni Sessanta Arendt guarda con favore la contestazione giovanile che rianima i «diritti costituzionali popolari» e reclama la potestas popolare riducendo il «sistema dei partiti» a un «fastidioso impedimento». Contro il conformismo della middle class e l’anonima tirannia delle burocrazie, che frustrano il sacrosanto desiderio di agire ed esprimersi pubblicamente, il ’68 riscopre che «agire è divertente». E se la ribellione violenta è inaccettabile, non è tuttavia incomprensibile. L’unico antidoto alla disperazione generata dall’impotenza e dalla frustrazione, infatti, è la libertà di partecipare al mondo comune: questo il messaggio che Arendt lascia alla società futura, la nostra.
La pubblicazione, nel 1963, del libro di Hannah Arendt "La banalità del male" suscitò un dibattito incandescente, che turbò profondamente Arendt, anzitutto perché quel libro incrinò i suoi rapporti con gli amici e i sodali ebrei di un tempo, tra i quali Gershom Scholem. Ma quel dibattito dai toni accesissimi, che dagli ambienti accademici tracimò sui giornali e sui media del tempo, era destinato a lasciare un segno indelebile sul pensiero e sulla vita stessa di Arendt. Esso inaugurò un lungo e travagliato percorso speculativo che l'avrebbe condotta al capolavoro incompiuto "La vita della mente". La "questione ebraica", così come viene messa a fuoco attraverso il dibattito provocato da "La banalità del male", segna così una svolta radicale nel cammino di pensiero di Arendt e lascia affiorare una concezione assolutamente peculiare dell'ebraismo, distante anni luce dalle versioni allora dominanti, compresa quella difesa dallo Stato di Israele, una concezione che negli scritti arendtiani, fino ad allora, era rimasta sottotraccia.
C'è una razionalità propria della politica? Da questa razionalità consegue un male specificatamente politico? Domande che per Ricoeur definiscono il "paradosso politico", a partire dal quale s'è confrontato con Hannah Arendt. Un dialogo attorno alle categorie di potere, potenza, autorità, forza e violenza con cui la Arendt - maestra delle "distinzioni" - ha indagato da un lato l'incarnazione novecentesca del male politico, il totalitarismo, dall'altro un modo d'essere della politica che fuoriesca dalla equazione "potere = forza+violenza". Il potere e l'autorità - questa per Ricoeur è l'eredità della Arendt - sono un argine al male politico. Quando il potere - come azione che contrasta la fragilità del mondo - non dimentica la sua radice nel miracolo terreno: la natalità, l'accadere dell'inatteso. Un'eredità che è anche dell'antropologia filosofica delineata in Vita adiva, con le distinzioni tra lavoro, opera e azione.
Per Miguel Abensour "filosofia politica" è un termine paradossale, un tentativo di unire due concetti contraddittori. Ripercorrendo il pensiero di Arendt, egli si chiede piuttosto se "filosofia" e "politica" non appartengano a tradizioni differenziali e alternative. Arendt amava definirsi più uno "scrittore politico" che un "filosofo", in grado di costruire un sistema teorico della politica... In questo libro illuminante Abensour rintraccia i fondamenti della tradizionale ostilità della filosofia alla politica e alla vita indeterminata e caotica della pòlis. Questa è infatti dominata dal principio imprevedibile ed opposto dell'essere-per-la-nascita, dall'irruzione di eventi incondizionati, di inizi indominabili: l'essere inaugurale produce "l'apertura di un'infinità di possibili, capaci di far sorgere il nuovo nel mondo".
Nel grande dramma del secolo passato, nello scontro totale fra i Titani dell'epoca, l'uomo poteva ancora pensare di avere la propria parte. Il nuovo millennio sembra invece essersi aperto nel segno di una insicurezza che non attiene semplicemente alla situazione storica e sociale o alle condizioni psicologiche della persona, ma al suo stesso essere. D'altra parte il brancolamento attuale della Terra e il tramonto di ogni suo Nomos, dove 'ruoli', immagini e linguaggi si confondono nell'assenza di orientamento e distanza, sono stati possentemente 'profetizzati': tutto questo è già presente, per tracce, nell'Amleto di Shakespeare. E da lì discende fino a Kafka e Beckett. Nel 'dialogo' tra questi autori 'fatali', ricomposto per frammenti, Cacciari coniuga le sue ricerche sulle 'declinazioni' della storia europea (in "Geofilosofia dell'Europa" e nell'"Arcipelago") con quelle sul rapporto tra nihilismo europeo e il linguaggio del Mistico che innervano i fondamentali "Dell'Inizio" e "Della cosa ultima".
La filosofia a tutto campo di Habermas avanza una drammatica scommessa sulla modernità. Scommessa qui ricostruita nella sua complessità, dove una ragione fallibile ma non scettica giustifica i fondamenti culturali di una democrazia liberale. Sullo sfondo di una dialettica della modernità, Habermas ripensa il ruolo che vi svolgono, senza riduzionismi, i mondi della vita, la ragione e i suoi linguaggi, le religioni, il diritto e la pluralità dei valori. Una dialettica in cui contingenza della storia, normatività della cooperazione sociale e funzione delle religioni, quali depositi di senso, rendono aperto l'orizzonte della storia, oltre il nichilismo post-moderno e l'ideologia di un progresso fatale. In tal senso per Habermas «nel diagnosticare il futuro della religione noi diamo un giudizio sul senso complessivo della modernità». Una scommessa che Habermas fa dialogando con Kant, Hegel, Marx, Weber e i classici della sociologia, i maestri della Scuola di Francoforte, Rawls. Un dialogo in cui lui stesso appare come uno dei maggiori eredi di questa tradizione.
Dedicato al senso che ci mette in contatto con gli alimenti facendocene conoscere il sapore, il volume mette in discussione uno dei più radicati luoghi comuni della riflessione filosofica che ha considerato il gusto (al pari dell’olfatto) un senso inferiore, il più carnale e il più viscerale, il più arbitrario e perciò il più distante dalla conoscenza. Rosalia Cavalieri elegge a oggetto d’interesse filosofico il gusto materiale, e tutte le attività che lo riguardano (mangiare, bere, degustare), avvalendosi del contributo di diversi saperi (biologia, psicologia, neuroscienze, antropologia, etologia, scienze gastronomiche e scienze sensoriali), con l’obiettivo di mostrare il valore intellettuale e culturale di un senso che solo nell’animale umano ha raggiunto la sua forma più raffinata. Siamo, infatti, i soli animali capaci di cucinare, di concepire un piatto, di apprezzarlo e di condividerne il consumo, e di descrivere un vino o una vivanda. Articolato in cinque capitoli il libro offre un’ampia e informata panoramica sul gusto come sapere, come intelligenza del corpo e, nel contempo, come fonte di piacere raffinata e propriamente umana, non mancando di sottolinearne l’intrinseca attitudine conviviale e linguistica, e rivela come approfondire la conoscenza e l’uso consapevole e avvertito di un senso sopraffatto da una mentalità prevalentemente visivo-acustica possa allargare la nostra maniera di stare al mondo.
Gustavo Bontadini (1903-1990) è stato tra i primi iscritti dell'Università Cattolica di Milano, alla quale ha legato la propria vita personale e intellettuale e con la quale ha mantenuto un rapporto di stretta collaborazione, insegnando fino al 1978. Egli si è reso protagonista di una originale sintesi filosofica tra neoscolastica e attualismo. Membro dell'Accademia di San Tommaso e socio corrispondente dell'Accademia dei Lincei, è stato un grande protagonista della filosofia italiana del Novecento. Il presente volume, articolato in tre diverse sezioni, si apre con un ritratto biografico; segue una seconda sezione dedicata all'analisi delle opere; infine, nella terza e più corposa sezione, viene offerta una presentazione dettagliata del pensiero bontadiniano, con particolare attenzione alla sua proposta storiografica, alle diverse prove offerte a sostegno dell'esistenza di Dio e alla sua visione etico-antropologica (tematiche solitamente poco affrontate dalla critica). Chiude il volume "Per una teoria del fondamento", che lo stesso Bontadini amava considerare come il suo testamento filosofico; una provocazione intellettuale che, a distanza di anni, mantiene intatta la propria freschezza e la propria attualità.