
Nessuna povertà ci è estranea. Nasciamo nella nudità, viviamo nella precarietà, moriamo nella solitudine. L’uomo è radicalmente povero, sempre bisognoso dell’altro.
I testi dell’Antico Testamento dipingono il povero con i volti degli orfani e delle vedove, degli stranieri, degli schiavi e dei malati. Figure diverse, ma tutte accomunate dalla consapevolezza di un bisogno che solo Dio può colmare. Sono questi poveri a insegnare a Israele ad attendere il Messia, il re giusto e liberatore. Ma la Bibbia rivela anche un Dio che è dalla parte dei poveri, che ascolta il loro grido anche quando non ha voce, e che li ama più di ogni altro. È questo stesso Dio che in Gesù si fa povero, fino ad assumere la condizione di schiavo. Gesù ha incontrato i poveri e si è messo alla scuola del loro magistero di umanità. A noi è chiesto di seguirne le tracce, perché la comunione è il cuore del cristianesimo.
Il cristianesimo non è innanzitutto dottrina, morale, esecuzione di riti, ma incontro con la persona concreta e reale che è stato l’uomo Gesù Cristo, incontro che riempie di gioia il cuore e la vita del discepolo. Nell’Evangelii gaudium, “La gioia del Vangelo”, papa Francesco auspica per la chiesa una “conversione pastorale” che significa: “uscire”, per andare verso gli altri, raggiungerli là dove sono, senza giudicare le loro qualità di fede o morali; non voler stare al centro o al di sopra degli altri, ma chinarsi umilmente ai loro piedi per lavarli, averne cura, servirli.
Il documento mette a fuoco il cammino che la comunità cristiana deve fare per incontrare con coraggio la società di oggi, e ha chiaramente i tratti di una provocazione: vuole scuotere e generare un mutamento del vivere della chiesa e dei cristiani in mezzo all’umanità.
Quale figura di cristiano può emergere senza la conoscenza di Gesù Cristo e della sua umanità esemplare? Come può il cristianesimo, senza la spinta vitale del Vangelo, non ridursi a un fatto rituale e culturale o addirittura folkloristico? Enzo Bianchi ha intrapreso un percorso di fede e di vita personale e insieme comunitario per il quale è essenziale la lettura e la comprensione del Vangelo, il testo che il Concilio Vaticano II ha ridato in mano ai cattolici e attraverso il quale il cristiano può nutrire la sua fede e la sua capacità di testimoniarla. Il Vangelo di Marco è quello che più si interroga sulla figura di Gesù: si può definire per molti versi un racconto teologico, un testo attraversato da tensioni narrative, contrasti, chiaroscuri in cui, invece che le parole di Gesù, parlano i fatti, gli eventi, la storia. Il priore di Bose ci accompagna attraverso queste pagine, e ci svela, sgombrando il campo da pericolosi equivoci, cosa vuol dire davvero “prendere la croce”: non certo accettare la sofferenza incondizionatamente né vivere nella paura, ma smettere di ritenersi misura di ogni cosa e abbandonarsi con fiducia alla fede e alla vita.
ENZO BIANCHI (Castel Boglione, AT, 1943) dopo gli studi alla facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Torino, alla fine del 1965 si è recato a Bose, dando inizio alla comunità monastica di cui oggi è priore. Opinionista de “La Stampa”, “Avvenire” e “la Repubblica”, ha pubblicato numerosi libri tra cui, con Einaudi, Insieme. La differenza cristiana. Per un’etica condivisa. L’altro siamo noi (2006) Il pane di ieri (2008) e Ogni cosa alla sua stagione (2010).
La lettura dei vangeli è per gran parte dei cristiani prevalentemente liturgica. Ci siamo dimenticati che i vangeli sono anzitutto un grande racconto della vita di Cristo e che solo leggendoli in questa prospettiva essi potranno liberare il loro messaggio e illuminare la nostra concreta esperienza esistenziale. In particolare ciò che caratterizza il vangelo di Marco analizzato in queste pagine è l'eccezionale tensione che lo percorre: è un testo costruito a incastro, una struttura in cui due episodi possono ricevere luce l'uno dall'altro, con brevi e incalzanti unità narrative, in cui Gesù è continuamente in movimento, inafferrabile nella sua identità, non racchiudibile in schemi classici e spiazzante per il lettore. Con il suo commento puntuale e illuminante Enzo Bianchi ci svela come il messaggio universale del vangelo possa divenire per ciascuno un'intensa occasione di confronto con la propria storia.
La laicità come spazio etico in cui tutte le religioni possano essere capite e rispettate. L'ascolto dello straniero come premessa per immaginare la pace. Costruire un mondo differente da quello della sorda intolleranza richiede un lungo cammino. È necessario partire ora.
È ancora possibile una chiesa che sia presidio di autentico umanesimo, spazio di dialogo e di recupero di principî condivisi, luogo di confronto tra etiche e atteggiamenti individuali e sociali diversi? E la laicità dello stato sa essere l'ambito in cui tutti, anche gli stranieri, si possono sentire accolti, capiti e rispettati nella loro diversità di cultura e religione? Una grande sfida attende oggi la nostra società complessa: la quotidiana lotta contro il ritorno della barbarie e la scomparsa di principî condivisi e fecondi di senso. Queste riflessioni accolgono gli stimoli che vengono da eventi ordinari, ma vorrebbero aiutare a «pensare in grande», a cogliere nel frammento qualcosa del tutto, a ridare dignità e ampiezza di visione a prospettive troppo spesso tentate di ripiegarsi su un angusto cortile.
Enzo Bianchi, giunto alle soglie della vecchiaia, ripercorre con la memoria il sentiero che lo lega al passato, alla sua gioventù trascorsa nelle terre tra Monferrato e Langhe e vi coglie delle chiavi di lettura per il presente e il futuro. “Vorrei che da queste pagine emergesse la ricchezza di umanità che ho ereditato dal mio vissuto, la gratitudine per quanto mi è stato dato di sperimentare, l'amore per la terra e per la compagnia degli uomini cui sono stato educato dalle vicende della vita, prima ancora che dalle persone che ho avuto accanto”.
Quelli in cui viviamo sono "giorni cattivi" per coloro che credono nel dialogo tra credenti cristiani e non cristiani e tra cattolici e laici. Troppo spesso alcuni cattolici sembrano voler costituire gruppi di pressione in cui la proposta della fede non avviene nella mitezza e nel rispetto dell'altro. Dove prevale l'intransigenza e l'arrogante contrapposizione a una società giudicata malsana e priva di valori. Ma è solo riconoscendo la pluralità dei valori presenti anche nella società non cristiana che si può stare nella storia e tra gli uomini secondo lo statuto evangelico. Ed è solo ricordando che il futuro della fede non dipende mai da leggi dello stato che il cristianesimo può ancora conoscere una crescita spirituale e numerica. Perché i cristiani devono favorire, con le loro parole e le loro azioni, l'emergere di quell'immagine di Dio che ogni essere umano porta con sé. Anche il non cristiano.
«Il pane di ieri è buono domani», dice per intero il proverbio. Con la bussola di queste parole Enzo Bianchi racconta storie e rievoca volti della propria esistenza: il Natale di tanti anni fa e la tavola imbandita per gli amici, il suono delle campane nella veglia dell'alba e il canto del gallo nel silenzio della campagna, i giorni della vendemmia e la cura dell'orto.
Trova il momento della solitudine e quello della veglia, accoglie la vecchiaia come una stagione che arriva alla vita.
Ogni racconto è la tappa di un cammino sapienziale che parla dell'amicizia, della diversità, del vivere insieme, dei giorni che passano e della gioia.
Della vita di ogni uomo in ogni tempo e terra del mondo.
Sempre di piú la questione dell'immigrazione in Italia sembra diventata un'emergenza, ingigantita continuamente da drammatici fatti di cronaca. Sempre di piú si stronca ogni richiamo verso la solidarietà e l'ascolto dell'altro con un malcelato scherno, additandolo come «buonismo» pericoloso, denigrando le «anime belle»che credono nella forza del dialogo e della pace.
Niente di piú sbagliato, secondo padre Enzo Bianchi: bisogna invece riconoscere che «essere straniero» è parte fondamentale dell'esperienza umana, al di là e al di sopra delle contingenze politiche e storiche, e che quando rifiutiamo di accogliere l'altro, stiamo rifiutando di guardare in noi stessi.
Come sempre capace di parlare a laici e credenti insieme, Bianchi propone un lavoro di apertura e ascolto nei confronti del diverso da sé, un lavoro faticoso ma prezioso che ciascuno può compiere nella propria interiorità, ma che dovrebbe essere intrapreso anche dalla società nel suo complesso, per evitare che il confronto tra persone divenga un muro contro muro tra identità violente.
Il priore di Bose ricorda le feste natalizie della sua infanzia nel Monferrato, in una società rurale e contadina «d’altri tempi». Narra di come in quei giorni, nonostante il freddo pungente, tutti si attardassero per strada a scambiarsi auguri (regali pochi, non ce n’erano), di come stessero insieme intorno a un bicchiere di vino e a una fetta di pane. A Natale chi lavorava lontano tornava al paese e ne approfittava per dissipare malintesi e chiedere scusa senza sentirsi troppo umiliato. Racconta del ceppo natalizio, «el suc ’d Nadal», quel groviglio di tronco e radici tagliato alla base che veniva lasciato seccare almeno un paio d’anni sotto
al portico e che messo poi nel camino alla Vigilia avrebbe aspettato, ardendo, il ritorno dei padroni di casa dopo la messa di mezzanotte. Racconta delle statuette del presepe tirate fuori dalla scatola, ogni anno contemplandole come se le si vedesse per la prima volta. Del tavolo preparato nell’angolo della casa e ricoperto di muschio per ospitare il presepe in cui si ricreava la vita di un paese cosí come la si conosceva: con la bottega del falegname, del fabbro e dello stagnino. Dell’albero che, se non poteva essere un abete, era una scopa di saggina capovolta e addobbata. E naturalmente ricorda la preaparazione del pranzo di Natale, culmine conviviale della voglia di stare insieme: i ravioli impastati dalle donne tutte riunite in cucina, il cappone bollito, le sette portate canoniche. Ma Enzo Bianchi parla con vigore e forza anche del Natale di oggi: la sua perdita di senso, del suo essere diventato una festa di consumi. E ci mostra come il Natale sia anche la festa delle nostalgie che ci abitano, la festa della famiglia (e quindi una festa dura e triste per chi è condannato alla solitudine della separazione, della lontananza, del carcere, della malattia). Come nel Pane di ieri, Bianchi racconta storie personali che diventano ben presto esempio di saggezza e conoscenza. Storie universali che appartengono a tutti.
Enzo Bianchi (Castelboglione, Monferrato, 1943) è fondatore e priore della Comunità Monastica di Bose. Già direttore di «Parola, Spirito e Vita», membro della redazione della rivista internazionale di teologia «Concilium», è autore di numerosi testi sulla spiritualità cristiana e sulla grande tradizione della chiesa, in dialogo con il variegato mondo contemporaneo. Collabora a «La Stampa», «Avvenire» e «Repubblica». Per Einaudi ha curato Il libro delle preghiere (1997), Poesie di Dio (1999), Regole monastiche d’Occidente (2001), ha pubblicato
La differenza cristiana (2006), Il pane di ieri (2008), Per un'etica condivisa (2009) e L’altro siamo noi (2010).
*******LA NOSTRA RECENSIONE****** (di Francesco Bonomo)
Uno degli edifici residenziali che si trovano sulla parte più antica del colle Aventino riporta un'iscrizione, coperta dalle magnolie e che deve essere conosciuta per essere letta. Essa, in una ferrea sobrietà latina, afferma: Valetudo in solitudine, star bene nella solitudine. A nostro avviso questa frase riassume bene l'esperienza che schiere di uomini e donne d'Oriente e d'Occidente hanno fatto a contatto con la solitudine del proprio spazio, sia esso il deserto o la campagna più sperduta ai margini dei centri abitati. Solitudine orientata alla contemplazione ed alla vita di fede intensa, nella meditazione delle Scritture e nel lavoro manuale ed intellettuale. Vita ritirata che per noi uomini del XXI secolo si manifesta sotto gli aspetti più disparati, tra i quali si erge anche l'ammirazione per una vita coraggiosa: chiusi nel perimetro di una stanza per la durata della propria esistenza, i monaci sono un'immagine che contrasta con l'ordinaria mobilità cui oggi siamo abituati. Un coraggio che spinge a guardarsi dentro, a scontrarsi con i silenzi assordanti della propria interiorità, per conoscersi meglio ed accettare noi stessi, imparando ad accogliere l'altro che ci sta di fronte con le sue mancanze, le sue esigenze ed i suoi pregi. Perimetralità di un mondo realmente limitato e spiritualmente immenso. La solitudine di una cella può avere diversi risvolti e le sue esemplificazioni sono l'ouverture e l'epilogo del nuovo volume di Enzo Bianchi, Ogni cosa alla sua stagione. Il monaco Enzo comunica dalla sua cella la narrazione di ciò che è stata l'avventura della sue vita ed in essa il lettore percepisce il monachesimo dell'Autore umanamente declinato. Al rischio di concepire la cella, o la solitudine in genere, come un rifugio da un mondo che non piace o che piace troppo per le sue fascinazioni, fratel Enzo contrappone un umanesimo che pervade tutte le pagine di questo scritto autobiografico. In un certo senso il priore della comunità di Bose propone ai suoi lettori dei paradigmi: dalla vita quotidiana ancora viva nei suoi ricordi e potentemente espressa nella sua scrittura capace di catturare e di spingere verso la fine del libro in un soffio, egli passa per cenni o per esteso al mondo cristiano, al mondo dei valori, all'importanza delle Scritture e alla vicenda monastica di Bose. Paradigmi di un'umanità che lungo il corso delle pagine acquista sempre più le caratteristiche di un tesoro che la nostra vita quotidiana ha smarrito dalla radice o rischia di perdere definitivamente. Nella socialità, nell'amicizia come nei rapporti familiari, nel tempo trascorso insieme nell'ascolto e nel silenzio come nel conversare, fratel Enzo ricorda al mondo la sua identità, ricorda all'uomo gli elementi che lo qualificano, rammenta al cristiano l'essenza della propria adesione a Cristo. Un libro delicato per la sua esposizione cristallina e forte allo stesso tempo per i sentimenti che è capace di scuotere, portando spesso alla commozione od almeno alla lettura accompagnata da una piacevole impressione per la bellezza di una vita vissuta senza idealismi e nostalgie utopiche. Ogni cosa alla sua stagione ci racconta la vita del Nostro in modo indicativo: non offre consigli, non da spiegazioni ma al contrario propone domande ed offre una seria riflessione, di cui oggi si sente sempre più la mancanza, sull'uomo e sulla storia. Riflessione che non è principalmente cristiana ma che con nobiltà dirige verso il cristianesimo, presentato in margine ma senza rinunciare alla sua efficacia.
Si diceva, ci troviamo dinnanzi ad uno scritto autobiografico. In esso è costante il riferimento alla solitudine monastica, in un libro in cui si incontra una folla di persone, le più disparate: i vecchi del paese, gli amici, i genitori, i benefattori, i fratelli e le sorelle della comunità, il parroco... Un isolamento quindi che non è misantropia ed una socialità che è gratuita condivisione.
Anche la natura ha un ruolo in questo libro, essa infatti dona al lettore una visione di tranquillità nell'alternarsi delle stagioni e nella presenza dei suoi frutti, primo fra tutti il vino, proprio delle terre dell'Autore, elevato come nella tradizione ebraica e cristiana a simbolo di realtà superiori, dalla convivialità alla metafora con Dio.
Un segno forte che Enzo Bianchi trasmette è dato dal suo realismo. Egli racconta la sua vita ma la racconta senza sconti, così com'è, fatta di dolori, rivolte, sofferenze e di delusioni ma anche di elevati sentimenti derivanti dai legami e dagli incontri che l'esistenza gli offre. Una vita raccontata all'insegna della gratitudine e delle domande che l'hanno riempita e che ancora continueranno a farlo. Un libro che presenta la vita di un uomo nelle pieghe di un tempo che appartiene a Dio e che esige di essere riempito e vissuto al meglio nell'umiltà creaturale e nello stupore dinnanzi al Creatore.
«Non c'è un uomo senza gli altri uomini, e ogni persona fa parte dell'umanità, fa parte di una realtà in cui ci sono gli altri... il dialogo è indispensabile se si vuole continuare ad abitare insieme in questo mondo che, senza pace e giustizia, è destinato all'invivibilità».
Tre saggi di grande umanità, attraversati da una forte tensione etica, dalla consapevolezza che il dialogo tra credenti cristiani e non cristiani, tra cattolici e laici, tra italiani e «stranieri» sia un necessario intrecciarsi di linguaggi, di sensi, di culture, di etiche, un reciproco progresso, un avanzare insieme.
Le riflessioni di Enzo Bianchi qui raccolte accolgono gli stimoli che vengono da eventi ordinari, ma vorrebbero aiutare a «pensare in grande», a cogliere nel frammento qualcosa del tutto, a ridare dignità e ampiezza di visione a prospettive troppo spesso tentate di ripiegarsi su un angusto cortile, a intraprendere un lavoro di apertura e ascolto nei confronti del diverso da sé.
Un lavoro faticoso ma prezioso, in grado di gettare le basi per una convivenza possibile e praticabile, che apra al futuro, dia senso all'oggi ed eviti il ritorno della barbarie.
Non si può fare a meno della fiducia-fede, dell'atto del credere, da cui possono nascere comunione, fedeltà e amore. La patologia che oggi affligge l'Occidente è affievolimento dell'atto del credere, venir meno della fiducia in se stessi e negli altri, nel futuro e nella terra. Credere, fare fiducia è diventato faticoso e raro. Il discorso sulla fede, allora, non riguarda solo i cristiani o i cosiddetti credenti: debitori come siamo di una certa visione manichea che separa credenti e non credenti, siamo incapaci di individuare i temi brucianti che riguardano tutti gli uomini e che determinano i rapporti degli uni con gli altri. Eppure, per tutta la vita, ci domandiamo se il vivere ha un senso, se si può credere, fare affidamento su una parola, su Qualcuno. Per Enzo Bianchi i cristiani hanno una grande responsabilità: avendo come prima vocazione quella alla fede, essi possono infondere negli altri quella fiducia-fede di cui fanno l'esperienza senza vantare alcuna superiorità su quanti non riescono ad accogliere il dono della fede nel Dio di Gesù Cristo. Ciò che dovrebbe stare davanti a noi come l'urgenza prima è la consapevolezza che "si passa dalla morte alla vita amando i fratelli" (cfr. lGv 3,14): ma questa verità va conosciuta, accolta, creduta.