
Pierre Oster, nato nel 1933 a Nogent-sur-Marne, vive ed opera a Parigi. Nel 1954 pubblica Premier poème in Mercure de France. Inizia molto presto la sua collaborazione alla Nouvelle Revue Française. Le sue prime raccolte di poesie: Le Champ de mai (‘55); Solitude de la lumière (‘57); Un nom toujours nouveau (‘60); La grande année (‘64); Les dieux (’70) Paysage du Tout 1951-2000 pubblicato da Gallimard, è il titolo della recente antologia.
Prefazione di Franco Buzzi Presentazione di Mario Furlan «Apro questo libro di poesie e mi trovo immediatamente immerso nel mondo della natura e dei sentimenti umani più genuini. Il poeta abita “sotto il cielo“ che contiene tutto: colori, nuvole, venti, voli d’uccelli, montagne, foglie, fiori e farfalle, spiagge, mari, il sole radioso e la bianca luna con le stelle, piogge torrenziali, tempeste e neve, albe e tramonti. Ma il poeta senza fissa dimora conosce bene anche la disperazione di chi si lascia andare e cerca evasione sulla strada senza ritorno della droga che uccide: pieno di umana compassione contempla quel corpo esanime che viene raccolto – quasi come spazzatura – dal marciapiede, quel giovane volto rinchiuso nella sua giacca a vento e portato via, in silenzio, tra l’indifferenza di tutti. Il pensiero corre al sordo dolore di una famiglia. Tra l’altro, in tutti questi testi poetici, gli affetti familiari restano sempre saldi e fanno da solida cornice a tutti i drammi dei protagonisti». (dalla prefazione di Franco Buzzi)
«Sono nato a Calosso, in provincia di Asti, nel 1937. Terminate le elementari sono andato a studiare nel collegio dei Domenicani a Carmagnola: volevo diventare sacerdote. A quindici anni ho ricevuto l'abito di frate... Ma l'anno 1955... Ero abituato che a metà settembre i miei genitori venivano a trovarmi... una piccola festa. Ma quell'anno, anziché la loro visita, arrivò verso fine settembre una lettera di mio padre, con due parole sibilline terribili: è destino che la mamma non possa venire. Più tardi venne lui, da solo, a portarmi la realtà, tremenda: la mamma ha un cancro allo stomaco. Aveva quarantacinque anni. Di mia madre mi rimanevano le lettere, poche: quelle di quell'anno, e le successive. Il contenuto delle pagine che seguono è costituito principalmente da queste lettere e dalla vicenda che esse scandiscono. Vicenda che a sua volta racconta come è possibile e cosa significa soffrire con amore». (dalla presentazione di Pier Paolo Ruffinengo) «Parole sussurrate. Parole di pianto urlate, oppure taciute; pronunciate o scritte, contro le quali nessun transito estremo nulla potrà. Forse ancora segrete; o smarrite. Esse custodiscono: sempre. Ritrovarle. Donarle a mani aperte. Conobbero. Hanno il sapore della terra. La nudità della terra che le nutriva le rivestì della sua forza. Questa terra dai colori dell'uva moscato, bella, che sembra un mezzogiorno d'agosto». (dall'Invito di Fernardo Bibollet)
"Gli haiku saettano come smussate freccioline che c da un mondo simile a quello di Alice, ma dotato di una sottile, intricata coerenza che non è soltanto il rovescio dello specchio delle nostre coerenze. Sono spiragli da cui filtra qualcosa di accecante e insieme di carezzevole, sono cuspidi elastiche di qualcosa che deve restare sommerso, per noi (e forse per tutti), ma che pure sentiamo necessariamente nostro. (...) Gli haiku hanno quasi l'aria di "scusarsi" dell'esserci, se l'esserci comporti una qualche violenza sull'essere-puro e sul lettore-puro, se comporti una seduzione troppo viscosa per darsi come eleganza, un giro logico che voglia catturare, vincolare, piuttosto che aprirsi appena in sollecitante enunciato, in ammiccante moto di palpebra." (Dalla presentazione di Andrea Zanzotto)
La presente antologia raccoglie le composizioni poetiche di autori nati neglli anni Settanta, ciascuno con un proprio stile ed una propria sensibilita'. Che cosa li accomuna? Una stessa idea del fare poetico.
Questo libro nasce da una ricerca sui testi di Fabrizio De Andrè, Pagine documentate, ricche di citazioni e di passione, che permettono di scoprire la capacità del cantautore genovese di raccontare senza condannare e di coinvolgere empaticamente nelle storie dei vinti. La forza evocativa dei suoi versi lascia emergere dal profondo dei personaggi le istanze esistenziali più autentiche. Tra queste, vi è la domanda di Dio, della sua paternità, della sua giustizia, del suo punto di vista. Il libro, alla sua seconda edizione, ha viaggiato in tutta Italia e ha permesso l'incontro tra diverse età, appartenenze culturali, religiose e politiche. Tutti diversi ma accumunati dall'amore per la musica, la letteratura, l'arte e per Faber. Lo spazio comune e comunitario che crea la sua opera poetica e profetica è motivo per condividere la bellezza e la gioia del Vangelo.
Secondo una sua stessa testimonianza, Neruda lesse le poesie di Quevedo nel 1935, e da quel momento non poté più staccarsene; e Jorge Luis Borges, a sua volta, considerava uno degli 'enigmi' della storia il fatto che il nome di Quevedo non comparisse nella lista dei nomi universali, accanto a Omero, Sofocle, Lucrezio, Dante, Shakespeare, Cervantes, Swift, Melville, Kafka. Così due scrittori dell'America di lingua spagnola, pur tanto distanti fra loro, rivendicavano il magistero e la grandezza di uno dei massimi scrittori di Spagna del siglo de oro, autore di una vasta produzione che abbraccia poesia, filosofia, romanzo, politica, teatro, "il più nobile stilista spagnolo, insieme con Cervantes", come osserva Vittorio Bodini nella nota critica che accompagna questa sua scelta e traduzione di liriche di Quevedo. Grande stilista, certo; ma anche grande spadaccino e uomo 'estremo' in tutte le sue manifestazioni, anche violente, che gli costarono, a torto o a ragione, l'ostilità di vari potenti e lunghi anni di prigionia. E se l'antologia delle sue liriche ci dà un'eloquente testimonianza della sua grandezza di poeta, il "Viaggio al cuore di Quevedo" di Pablo Neruda ci conduce alla ricerca delle origini di quella grandezza, alla sua profondità di uomo e di scrittore contro, quasi ripercorrendo a ritroso la tenace anima 'di lotta' della poesia spagnola, incarnata nelle voci tragicamente spezzate di tre dei suoi maggiori protagonisti, Federico Garcia Lorca, António Machado e Miguel Hernàndez.
Apparsa nel 1968 - e cioè un anno dopo "La barcarola", il lungo canto d'amore dedicato a Matilde che completava idealmente il grande ciclo "intimo" del "Memoriale di Isla Negra" - la raccolta "Le mani del giorno" occupa un posto piuttosto particolare nell'opera di Neruda. Ma se il poeta vi lamenta la frustrazione, il senso di colpa per non aver saputo "usare" le proprie mani, così da poter realmente "apprendere, vedere, raccogliere e unire gli elementi", questa raccolta è anche il frutto maturo di quella continua tensione che la poesia di Neruda da sempre sente verso gli oggetti e verso gli umili eroi dell'esistenza umana, indaffarati giornalmente ad affermare se stessi e gli altri nel proprio lavoro.
La raccolta "Canción de gesta" è pubblicata qui nella versione completa dell'ultima poesia aggiunta da Neruda, «Giudizio finale», in risposta agli attacchi subiti da parte di alcuni intellettuali dopo la sua partecipazione a una riunione del Pen Club a New York nel 1966, e completa anche del nuovo prologo scritto dallo stesso poeta per l'edizione uruguayana del 1968, nel quale Neruda tornava su quell'episodio, stigmatizzando che quest'opera «è il primo libro che un poeta abbia dedicato alla rivoluzione cubana». Ma in "Canción de gesta" c'è molto di più che non la sola rivoluzione cubana: c'è il dramma sociale e politico di un intero continente e insieme il suo sogno di riscatto; c'è, soprattutto, la grande poesia di Neruda.
Il poeta si trasforma in tutte le motociclette e in una supercar. Scrive questo poemetto che si legge come un racconto che va a trecento all'ora. "L'Italia è morta, io sono l'Italia" è un viaggio dentro e sopra il corpo di una donna da amare, venerare, possedere. È bellissima e massacrata; è stuprata e vergine. Contempla tutte le città, l'arte; anticipa lo scandalo di calciopoli, deride e provoca i politici nani e gli assessori cocainomani. Esalta gli antichi guerrieri e disprezza la stupidità dei nostri giorni conformisti. Il poeta "Ducati-Maserati" corre per lo Stivale zozzo di fango e dunque morto. Ma la bellezza dell'Italia risorge come un amore con "il capo biondo, assassina l'anima per soffrire di più e morire di più". "L'Italia è morta, io sono l'Italia" è la storia del nostro Paese che si legge in mezz'ora. Provoca e fa ridere. Ti droga senza droga. Ci siamo tutti: dalla A alla Z. Con un saggio di Luca Doninelli.
L'amore per Orazio e il desiderio di tradurlo accompagnano Guido Ceronetti sin da quando, diciottenne, si cimentava in versioni oggi «ripudiatissime». L'Orazio interruptus viene poi ripreso al principio degli anni Ottanta col progetto, mai realizzato, di una piccola edizione concepita come prima tappa di un «viaggio ascetico verso il puro non-essere, lo spogliarsi d'ogni illusione e farsi 'jivanmukta' in compagnia di Orazio». Per Ceronetti, infatti, Orazio è lontano mille miglia dal poeta sondato e scrutato dalla filologia classica: il suo stile non è fredda accademia augustea, semmai «contrazione della vita, mediante l'impegno della parola», il che esige «tutto il fuoco della passione rivolto ad un fine che la contraria» - fuoco contratto, dunque. E a lui ancor meglio che a Kavafis si attaglia quel che diceva la Yourcenar: «Siamo così abituati a vedere nella saggezza un residuo delle passioni spente, che fatichiamo a riconoscere in lei la forma più dura, più condensata dell'Ardore, la particella aurea nata dal fuoco, e non la cenere». Dopo più di trent'anni il viaggio attraverso il «deserto fiorito» di Orazio ha preso la forma di ventotto traduzioni, che bastano a metterci di fronte a qualcosa di totalmente imprevisto: malgrado la sua fama ininterrotta, del più classico dei classici ci era sinora sfuggita l'anima segreta.
In una collana di piccoli libri semplici e ricercati, viene proposta, con testo a fronte, questa ricca raccolta di poesie a tema religioso (oltre 60) di Emily Dickinson.
Lo schema del libro è una sorta di viaggio le cui tappe sono quelle di una crescita interiore verso la conquista del cielo.
Figura di spicco della poesia americana di fine Ottocento, la Dickinson privilegia tematiche di fondo come l'amore, il dolore, la fede, la natura, rappresentati nei piccoli momenti della vita quotidiana, nei quali la poetessa cerca e riconosce sempre la presenza del divino.

