
Eccoci, tutti noi, figli di un'Italia multietnica e variopinta. Eccoci, raccontati dall'abile penna di chi l'Italia non solo l'ha vissuta, ma sa descriverla minuziosamente, cogliendone particolari e sfumature. Storie di quotidiana follia (Rupert), di amicizie infinite (Antonio), di donne tradite (Flavia) e uomini disillusi dall'amore (Alberto), cronache di un'Italia selvatica e rurale, incantata dai miti antichi, della cui magia ci resta ben poco (Annibale). Per ogni nome una storia, un inizio e una fine, e nel frangente che li separa la percezione di un'insolita inquietudine, come se qualcuno ci avesse appena ricordato che la grana dei racconti è quella della realtà in cui siamo vissuti e di cui non ci siamo mai realmente accorti. Storie amare e malinconiche, storie gioiose e allegre, che si compongono in un mosaico colorato da cui emergono meraviglie e miserie, mescolate come nella vita.
Il 17 giugno del 1944 l'Isola d'Elba fu liberata da uno sbarco alleato a comando francese. I primi a sbarcare sulla spiaggia di Marina di Campo furono i tirailleurs senegalesi. La spiaggia era minata e moltissimi soldati coloniali morirono. Partendo da questo fatto storico, l'autrice costruisce un romanzo in cui si intrecciano le vite di tre protagonisti. Boubacar il nonno, strappato dal suo villaggio, addestrato a Dakar e a Casablanca, imbarcato su una nave insieme a tanti compagni, testimone di quello che dagli storici fu considerato lo sbarco più sanguinoso del Mediterraneo nella seconda guerra mondiale. Boubacar il nipote, che come il nonno rischia la vita per mare non per liberare l'Italia, ma per trovare un lavoro e anche per conoscere la spiaggia di cui lui gli aveva parlato. Gustavine, ragazza francese precaria come tanti suoi coetanei, che, in un momento di incertezze, decide anche lei di andare a conoscere la spiaggia di cui le raccontava suo nonno, il sergente Flaubert, superiore di Boubacar. Un romanzo che dà voce agli "altri" che hanno combattuto per la libertà dell'Italia e dell'Europa più di sessant'anni fa, agli "altri" che oggi contribuiscono al nostro benessere mettendo in pericolo la propria vita, agli "altri" che vivono con difficoltà la spregiudicata corsa all'arricchimento della società occidentale di cui fanno parte.
Non esiste al mondo luogo più affascinante dell'Artico: ultima frontiera selvaggia e regno estremo della natura e della bellezza. Né esiste al mondo luogo più duro: qui la luce ferisce gli occhi, il gelo spacca la pelle, l'isolamento e la solitudine svuotano l'anima e possono condurre alla pazzia. Gli inuit lo sanno da sempre, e da sempre si conquistano ogni giorno, con caparbietà e con fatica, il diritto a godere del loro impossibile paradiso tra i ghiacci. Ai bianchi che vengono da sud - i qalunaat - guardano con diffidenza, anche se spesso sono le uniche fonti di guadagno. Edie Kiglatuk, cacciatrice e maestra nell'unica scuola elementare, arrotonda il misero stipendio accompagnando i ricchi turisti che vogliono provare il brivido dell'avventura estrema, e con lei c'è Joe, il figliastro. E sono proprio i due a fare da guida a un gruppo di americani che vogliono ritrovare i resti di Sir James Fairfax. Ma dalla spedizione il giovane Joe torna sconvolto, e poco dopo si toglie la vita. A questo gesto disperato e inspiegabile va ad aggiungersi un'altra morte, forse troppo frettolosamente archiviata come incidente: quella di un turista giunto nella zona per una battuta di caccia e ucciso, così sostiene la polizia, da un colpo partito per sbaglio dalla sua stessa arma. In entrambi i casi Edie non crede alla versione ufficiale e comincia a indagare...
Inghilterra, 1919. Tristan Sadler ha solo ventun anni, ma è già un veterano. Un tremito incontrollabile alla mano destra e un senso di colpa così devastante da sconfinare nell'odio di sé, sono questi i segni che l'esperienza atroce e insensata della Grande Guerra gli ha lasciato addosso e nel cuore. E anche se ha provato a rifarsi una vita inseguendo il sogno di diventare scrittore, il ricordo di un gesto inconfessabile non gli dà pace. Proprio per lenire le ferite di un passato che non vuole passare, Tristan decide di incontrare la sorella di Will, un commilitone giustiziato durante la guerra perché, obiettore di coscienza "assolutista", aveva gettato le armi e rifiutato di combattere contro altri esseri umani: c'è un plico di lettere che Tristan vuole riconsegnare alla famiglia del compagno morto. Ma l'incontro fra Tristan e Marian prende una piega diversa e inaspettata, quella di una struggente, urgentissima confessione. Perché il tempo delle menzogne e della violenza è finito, e per Tristan è giunta l'ora di fare i conti con chi è veramente. Con "Non all'amore né alla notte" John Boyne ci consegna una storia così vera e dirompente da fare più male dei fucili, un inno vibrante al coraggio di amare e di essere liberi.
In una Milano agli albori della luce elettrica, negli anni tra due disastri della storia patria - la battaglia di Adua e la rotta di Caporetto - le vicende di una famiglia borghese vengono raccontate dalle voci di Luciano, medico omeopata non molto sveglio ma attentissimo alle cose materiali, e di Alfonso, poeta stralunato e proiettato più verso i sogni che sul mondo reale. Attorno alle voci narranti, da un lato le figure femminili di Maria Rosaria, virtuosa forse suo malgrado, ed Elisa, custode di una verità ingombrante e dedita al peccato con assoluta innocenza; dall'altro personaggi contraddittori e spesso sfiorati da un'ala di follia, autentica o simulata, come il padre di Alfonso, tormentato dal rimorso di una colpa vergognosa eppure buon cliente di un bordello. Il tutto nello scenario storico di un'epoca che ha visto vorticare gli eventi più diversi e che ancora ci coinvolgono: dall'attentato a Sarajevo al volo dei dirigibili, dal socialismo di Mussolini e Nenni alle spedizioni polari, dal naufragio del Lusitania al fulgore e al dramma dell'icona della danza Isadora Duncan.
"Appartengo a una razza levantina, oscura, c'è in me un miscuglio di sangue greco e italiano: sono uno di quelli che voi francesi chiamate metechi, immigrati" dice, a una donna in cui vede l'immagine stessa della purezza, Dario Asfar, giovane medico che negli anni successivi alla prima guerra mondiale conduce un'esistenza miserabile nel Sud della Francia. E con sorprendente chiaroveggenza conclude: "Io credo che esista una fatalità, una maledizione. Credo che il mio destino era di essere un mascalzone, un ciarlatano ... Non si sfugge al proprio destino". Anche quando, molti anni dopo, non sarà più il "medicastro" che con il suo aspetto "miserabile e selvatico" e il suo accento straniero ispira solo diffidenza, anche quando sarà diventato ricco e famoso, e l'alta società parigina andrà umilmente a chiedergli di guarirla da quelle malattie dell'anima, da quelle "turbe psichiche", da quelle "fobie inspiegabili" che solo lui, il Master of souls (come viene definito da chi lo accusa di sfruttare la credulità del prossimo), è in grado di curare - anche allora il dottor Asfar si porterà dietro il marchio indelebile del suo destino, delle sue origini, del suo sangue. E quegli angiporti dell'Oriente da cui proviene, e che ha cercato di lasciarsi alle spalle, gli rimarranno per sempre negli occhi.
Tutta giocata di sponda è la partita di biliardo (umano) su cui si impernia questo romanzo giallo: o meglio "antipoliziesco", giacché sin dall'inizio ci esibisce l'assassino. La prima palla a finire in buca, per un colpo a la bande, è la testa calva del professor Winter, esimio germanista: centrato dai proiettili dello squisito consigliere cantonale Kohler, cade con la faccia nel piatto di tournedos Rossini che stava gustando nel ristorante Du théâtre. Quindi, a una a una, rotoleranno in buca le altre palle - un playboy, una squillo d'alto bordo, una perfida nana, un protettore -, delineando un autentico rompicapo: "II comandante era disperato. Un omicidio senza motivo per lui non era un delitto contro la morale, bensì contro la logica". Kohler, poi, in galera è l'uomo più felice del mondo: trova giusta la pena, meravigliosi i carcerieri, e intreccia serafico ceste di vimini. Ha un unico desiderio: che l'avvocato Spät, squattrinato difensore di prostitute, si dedichi finalmente a un'impresa seria (ma a lui sembrerà pazzesca) e riesamini il caso partendo dall'ipotesi che non sia Kohler l'omicida: "Deve solo montare una finzione. Come apparirebbe la realtà, se l'assassino non fossi io ma un altro? Chi sarebbe quest'altro?". Accettata la sfida, Spät precipiterà ben presto in un gorgo, in una surreale commedia umana e filosofica che tiene tutti - lettori in primis - col fiato sospeso: per quale ragione Kohler è di umore tanto allegro? E perché mai ha ucciso Winter?
"Migrazioni", epos possente dove si mescolano i destini di alcuni singoli e quelli di un intero popolo - i serbi che nel Settecento abitano la terra della Vojvodina, al confine tra l'Impero austroungarico e quello ottomano -, è dominato da un senso di smarrimento e di sradicamento, dalla nostalgia di ogni patria perduta e dal sogno di ogni terra promessa, nonché dalla percezione di un fluire perenne, cieco e rabbioso, di correnti sotterranee che bagnano le radici della Storia.
Terminato l'incubo della seconda guerra mondiale, l'Europa si risveglia profondamente ferita non solo dalle devastazioni materiali, ma molto di più da quelle interiori e spirituali. Tre fratelli, di nobile famiglia, ritornano a casa e ritrovano quella "chiarezza della sera", dopo che la terra ha cessato di essere in collera con i suoi abitanti e la vita torna a fiorire nel grembo di una giovane donna, in cui ella riscatta, insieme al proprio passato, la dannazione della guerra e della morte dipinta nella figura del parroco del villaggio Senzanome (sine nomine) che ha consumato la sua "Missa" crocifisso sulla porta della sua chiesa.