
«Nessuno saprebbe dirlo a parole, ma tutti sentono che dentro quel battere, quello scordamento di corde e tamburi, dentro il ballo di quella piccola anima senza scarpe, attraverso il corpo macilento di Archina che comincia a muoversi in modo sempre più convulso, si sta riassumendo ogni loro singolo progetto di salvezza terrena».
La terra è quella aspra e impenetrabile del Salento. Il tempo è quello in cui le tarante mordevano nelle campagne inoculando il veleno nei corpi dei pizzicati, e bisognava metterli «a ballare» per liberarli dal male.
Con il suo primo romanzo, Teresa De Sio ci porta nel cuore del Salento premoderno degli anni Cinquanta e del suo orizzonte mitico fatto di credenze ataviche, di erbe miracolose e fatali, diavoli ragni, ma anche di miseria, arroganza di casta e saggezza insospettata. Ci racconta una storia in cui l'amore è una dolcezza preclusa, e la felicità «una zattera» che non arriva mai, o quasi. È la storia di Archina Solimene, una bambina morsicata, di sua sorella Filomena, «mansueta come una mucca», del loro padre Nunzio, di donna Aurelia la vammàna, che ha suoi modi antichi per scacciare il male.
Al centro c'è una notte maledetta di Carnevale, una vicenda che finirà per travolgere la vita di molti e scompaginare l'esistenza stessa del paese di Mangiamuso. Intorno c'è una trama fatta di tanti destini, tanti personaggi. Come se fosse necessario lo sguardo di tutti (il pavido don Filino, la parrucchiera-maga-etilista La Saputa, le avare gemelle Santo, Severino ragazzo-lupo), per riuscire a evocare quel male segreto, senza consolazione, che né i suoni magici della pizzica né le diavolerie che arrivano «dritte dritte dal futuro» possono guarire.
Dopo aver suonato la musica della taranta, con il suo tempo «fuori portata», dopo aver a lungo studiato quel mondo, Teresa De Sio ne ha fatto un potente romanzo per voci sole, che finisce per sciogliersi in nerissima storia corale.
Un giudice muore per mano di balordi. E i balordi muoiono per mano della 'ndrangheta, che non tollera si disturbi il prosperare dei suoi affari. Almeno, cosí sembra. Alberto Lenzi, magistrato scioperato e donnaiolo, colpito dalla morte del collega e amico, si tuffa a capofitto nelle indagini. Lo instradano in una diversa direzione le sibilline, gustose parabole di don Mico Rota, capobastone della 'ndrangheta, e il fortuito emergere di elementi legati a un traffico di rifiuti tossici.
Una «commedia umana» dove si muovono personaggi verissimi, contraddittori, sfaccettati, che inseguendo il proprio meschino tornaconto arrivano tuttavia a svelare una realtà che va molto oltre la 'ndrangheta.
«Il limone si staccò e finí in terra a fare compagnia a tanti altri ormai infraciditi. Don Mico ne avvertí il tonfo lieve, l'andò a raccogliere, lo strofinò a lungo sotto un filo d'acqua della fontanina, estrasse il coltello da pota e prese a sezionarlo in strisce sottili che si portava alla bocca. Smorfie mentre ne masticava. Sapeva però di libertà, quel sapore acre, l'acquolina di cui gli si ammaricava la bocca».
È sempre stata bella, Sylvie. Curiosa, intraprendente, ribelle, forse troppo. E infatti ora, a soli trentasette anni, è al banco degli imputati, accusata di omicidio. In prigione ha passato, spesso ingiustamente, lunghi e dolorosi momenti della sua giovane vita e, durante uno di quei soggiorni, ha conosciuto Jeanne, una donna più grande, che all’uscita dal carcere l’ha accolta in casa sua. Ed è proprio a causa di Jeanne se Sylvie è la protagonista di uno dei più seguiti processi del secolo scorso. Perché Jeanne è morta, soffocata barbaramente e poi nascosta in cantina, e la colpevole può essere solo lei.
Durante il processo, in cui la donna è data per spacciata, intervengono, però, delle persone che l’hanno conosciuta negli anni di guerra: proprio lei, l’assassina, le ha salvate da morte certa nei campi di concentramento della Germania nazista, rinunciando al poco cibo che le spettava per darlo a chi era più debole e curando i malati di tifo. Dalle parole di quei testimoni inaspettati emerge una donna nuova, un’eroina, e l’esito del processo è molto diverso dal previsto: Sylvie, infatti, verrà condannata a soli dieci anni di reclusione.
Durante quei lunghi momenti non farà che sognare il modo di riprendere con sé i propri figli, ma quando, uscita dal carcere, capirà di non poterli mai più riabbracciare, si chiuderà in convento, per dimenticare ed essere dimenticata dal mondo.
La storia vera di una donna incredibile, assassina crudele e madre devota, ladra astuta e generosa eroina della Seconda guerra mondiale.
Sospesa fra Venezia e Parigi, la vita di Stefano Pietra è quella di un giovane pittore che non è ancora riuscito ad affermare il proprio talento e si barcamena in attesa di una grande occasione. A offrirgliela è l’amica Hélène de Surgérès, che lo presenta a Emmanuel Cordier, noto mercante d’arte. Per Stefano una mostra da Cordier vorrebbe dire la svolta tanto attesa e, forse, un trampolino per riconquistare anche lei, la bella enigmatica Hélène, che lui ha amato dal primo istante in cui l’ha vista, e che l’ha riamato intensamente per poi lasciarlo senza motivo apparente, come rapita da un rivale che in silenzio aveva sempre abitato nel suo cuore.
Da Cordier Stefano fa conoscenza con François Ronan, un critico d’arte. L’uomo sembra molto interessato a lui e le sue attenzioni, che inizialmente lusingano Stefano, finiscono in breve per allarmarlo, cariche come sono di un presagio funesto che il giovane pittore non sa come interpretare.
Ronan, che per l’aspetto gli ricorda un ufficiale nazista, si rivela indecifrabile proprio come il pezzo più prezioso della sua collezione privata: un’antica maschera funebre di origine micenea alla quale tiene sopra a ogni cosa. Quel che è certo è che l’uomo cova un oscuro segreto ed è preda di una misteriosa ossessione. Il suo istinto di prevaricazione sembra trascinare tutto ciò che tocca e non tarderà a travolgere anche Stefano in un gorgo di angoscia e mistero, gelosia e vendetta, al cui centro vi è un arcano rituale dallo sconcertante potere.
Giocando a dama con la luna ci racconta di quella Germania che, al volgere dell’ottocento, vorrebbe fare convivere il mito della classicità, incarnato nell’antica Grecia e di cui si sente l’erede, con lo spirito militaresco di conquista. Protagonista è l’ingegnere e archeologo berlinese Carl Humann (1839-1936) che da Berlino decide di trasferirsi a Smirne. In breve tempo quello di Carl si trasforma in un viaggio della conoscenza, alla ricerca di un altro mondo e di se stesso, alla ricerca della storia passata (è sua la scoperta dell’altare di Pergamo). Lontano dall’occidente egli riesce a percepire meglio il destino della sua nazione, e proprio le pagine finali ne rivelano il senso metaforico profondo: il miraggio tedesco di reincarnare lo spirito della classicità greca si spegnerà tra le macerie desolanti del bombardamento di Berlino, al termine della seconda guerra mondiale. Resta da aggiungere che lo sguardo della scrittrice sulla storia tedesca non è affatto neutrale, né tanto meno cronachistico, ma rievocato attraverso la prospettiva di un artista, probabile proiezione autobiografica dell’autrice.
Dal suo rifugio sotto le coperte, Tina racconta a Vittoria, amica amatissima, persa e ritrovata, i fatti, il disordine e i ricordi degli anni in cui una brusca rottura le ha tenute lontane. Nel tentativo di ricondurre a un unico, ricorrente malamore i tanti modi in cui ha amato, Tina recupera dai suoi cassetti brani di romanzi incompiuti e li annoda alla testimonianza di un presente insopportabile. L'assistenza a due genitori anziani, incattiviti da una relazione infelice, riporta in superficie le sofferenze infantili e permette di ricomporre gli indizi di un antico rifiuto. Si delinea così l'"autobiografia di una borderline" dalla caotica vita sentimentale, nella quale gli affetti vivono di strappi e tormentosi ritorni. Eppure il cielo resta alto sulle rovine e una ricomposizione è possibile.
“Lo psichiatra del dolore conosce il proprio dolore e lo offre nell’incontro con il matto. La terapia diventa una condivisione della sofferenza: quella dello psichiatra e quella del suo malato.”
Vittorino Andreoli
C’è chi si crede il priore di un antico monastero in Beozia e parla di Dio e dell’uomo; c’è un ladro omicida che sostiene che solo il furto conferisca un senso alla sua dignità di emarginato; c’è un ricco che rinnega il suo status sociale perché lo considera alla stregua di un crimine...
In questa raccolta di racconti intensi e coraggiosi, oscillanti tra finzione e realtà, tra invenzione ed esperienze vissute, Vittorino Andreoli ci conduce a tu per tu con la sofferenza della pazzia e con quel mondo – personale e misterioso, ma ricco di spunti di profonda umanità – che ogni matto elabora e che è sempre desideroso di raccontare purché trovi qualcuno, come lo psichiatra senza nome che tesse il filo di queste storie, pronto ad ascoltarlo.
Un viaggio inquietante e commovente alla costante ricerca del labile confine tra follia e normalità, ammesso e non concesso che quest’ultima esista.
Adelaide è oramai sulla soglia della prima maturità. Le fantasie della giovinezza, le indefinite speranze, il vago desiderio di evadere dai pensieri, dai gesti e dalle parole consunte di tutti i giorni si sono a poco a poco logorati in un grigiore anonimo. Un'inquietudine di cui non riesce a definire il profilo ma di cui pure non arriva a liberarsi. Il marito Errico? La figlioletta Cristina? Non le dicono più niente: ammesso che le abbiano mai detto qualcosa. Come ritrovare - o riuscire finalmente a trovare - la semplicità dell'innocenza, la concretezza dell'amore? Le cose che hanno peso e senso? La vita stessa insomma, nella sua verità più autentica? Forse, al di là di solitudini e incertezze: al di là dello stesso maligno serpente che le ha deposto un perfido uovo nel petto. Un impasto linguistico tessuto in una policromia di voci e di forme scivola pagina dopo pagina verso il fondo remoto della lingua. O dell'anima. La vita, l'amore, la malattia, la morte: gli snodi che fissano i passaggi decisivi del nostro essere gettati nel mondo sono ancora una volta trattati con grazia e profondità da Corrado Ruggiero.
Una giovane donna, che da bambina sognava di cambiare il mondo, e che poco più che adolescente ha finito per restare impigliata nella rete della mafia, oggi rischia consapevolmente la vita per dare un contributo alla lotta contro Cosa Nostra. Con le sue deposizioni ha consentito ai magistrati di Palermo di ricostruire gli affari criminali di una cosca che faceva capo a Bernardo Provenzano facendo i nomi di mandanti ed esecutori. Carmela Rosalia Iuculano, che ora vive sotto copertura, ha intrapreso questo difficile percorso inizialmente per amore dei figli, voleva dare loro un destino diverso dal suo, nella legalità; poi ha cominciato a pensare che in Sicilia fosse possibile un cambiamento e a credere nell'utilità di quello che stava facendo. Piano piano le è nata la speranza di diventare un esempio per le mogli di altri mafiosi, per i figli nati in queste famiglie sbagliate. Ha cominciato a credere che anche altre persone possano ribellarsi e denunciare chi lede la loro dignità. Pensa che solo seguendo senza tentennamenti questa linea la Sicilia potrà liberarsi della mafia, quella mala pianta che non la fa respirare. Il coraggio esemplare di una donna, magistralmente raccontato da Carla Cerati in un libro che è assieme la cronaca di un pezzo di Storia della Sicilia e la lucida testimonianza dell'amore di una madre
Abdallah Mohamed ben Olman, ambasciatore del Marocco, si trova a Palermo nel dicembre 1782 per via di una tempesta che ha fatto naufragare la sua nave sulle coste siciliane. È questo il caso che fa nascere, nella mente dell'abate Vella, maltese e incaricato di mostrare all'ambasciatore le bellezze di Palermo, un disegno audacissimo: far passare il manoscritto arabo di una qualsiasi vita del profeta, conservato nell'isola, per uno sconvolgente testo politico, Il Consiglio d'Egitto, che permetterebbe l'abolizione di tutti i privilegi feudali e potrebbe perciò valere da scintilla per un complotto rivoluzionario. Apparso nel 1963, Il Consiglio d'Egitto è in certo modo l'archetipo, e il più celebrato, dei romanzi-apologhi di Sciascia, dove lo sfondo storico della vicenda si anima fino a diventare una scena allegorica, che in questo caso accenna alla storia tutta della Sicilia.
Inizi del Cinquecento, un gruppo di ebrei in fuga cerca rifugio a Venezia. A condurli è Moses Conegliano, uomo saggio e carismatico, riflessivo e insieme votato all'ottimismo, pronto a fare da guida e consigliere, a consolare e spronare. La città che li accoglie è spregiudicata e tollerante, spensierata, cinica e mondana. Ma nel clima delle lotte di religione anche la Repubblica Serenissima deve prendere posizione e i patrizi veneziani decidono l'istituzione del Ghetto. Il dramma della storia si intreccia così indissolubilmente alla vita di Moses e della sua famiglia... Con lo sguardo lucido dello storico e la voce appassionata del romanziere, Riccardo Calimani ricostruisce un mondo fatto di agguati e tradimenti, raffinate attività commerciali e disinvolte alleanze. Un mondo che crede in un sentimento più forte di qualsiasi paura e compromesso: la fiducia nella libertà e nella speranza del futuro.
Fino a quando, su questa terra, esisterà un fabbricato denominato scuola, i ragazzi domanderanno al Padreterno perché mai li abbia messi al mondo se devono trascorrere una parte della stagione più bella della vita (l'infanzia e l'adolescenza, appunto) in cattività. Partendo da questa semplice considerazione che unisce i ragazzi di tutte le generazioni e i ricordi del ragazzo di ieri all'esperienza del maestro di oggi, Marcelle D'Orta ripercorre gli anni della "sua" scuola, nella Napoli degli anni Sessanta e Settanta. Così prendono vita figure vivissime che accompagnano il lettore dalle elementari fino al liceo, sullo sfondo di una Napoli popolare per molti aspetti perduta per sempre. Compagni di scuola, bidelli, genitori, insegnanti in un ritratto vivacissimo e a tratti esilarante.

