
Delia e Gaetano erano una coppia. Ora non lo sono più, e stasera devono imparare a non esserlo. Si ritrovano a cena, in un ristorante all’aperto, poco tempo dopo aver rotto quella che fu una famiglia. Lui si è trasferito in un residence, lei è rimasta nella casa con i piccoli Cosmo e Nico. Delia e Gaetano sono ancora giovani – più di trenta, meno di quaranta, un’età in cui si può ricominciare. La loro carne è ancora calda e inquieta. Sognano la pace ma sono tentati dall’altro e dall’altrove. Ma dove hanno sbagliato? Il fatto è che non lo sanno. La passione dell’inizio e la rabbia della fine sono ancora pericolosamente vicine. Cresciuti in un’epoca in cui tutto sembra già essere stato detto, si scambiano parole che non riescono a dare voce alle loro solitudini, alle loro urgenze, perché nate nelle acque confuse di un analfabetismo affettivo. Eppure parole capaci di bagliori improvvisi, che sanno toccare il nucleo ustionante dei ricordi, mettere in scena sul palcoscenico quieto di una sera d’estate il dramma senza tempo dell’amore e del disamore. Margaret Mazzantini ci consegna un romanzo che è l’autobiografia sentimentale di una generazione. La storia di cenere e fiamme di una coppia contemporanea con le sue trasgressioni ordinarie, con la sua quotidianità avventurosa. Una coppia come tante, come noi. Contemporaneamente a noi.
Uno scritto che arreca conforto alla mente di chi legge per capire, o per lavoro, per svago, per distrasi. Parla a tutti, fa riconoscere le generazioni. Ci fa identificare, sognare, ricordare.
Alcina è una donna coraggiosa e fiera che ha paura di una sola cosa: i sentimenti. Tanto che per non esserne sopraffatta si è dovuta costruire una corazza di orgogliosa solitudine. Nel ’48 ha trentatré anni e una guerra partigiana alle spalle, e sembra che il suo destino sia ormai quello di vivere per sempre con lo sguardo rivolto al passato, in un continuo parlare coi propri morti e con un cane selvatico. Ma un giorno Alcina riceve una lettera che sull’onda travolgente del ricordo di un unico, lunghissimo bacio le dà la forza di lasciare il suo casolare in Umbria e di partire per l’Argentina. Ad aspettarla c’è Spaltero, un uomo più giovane di lei ma con un carattere forte e sicuro e sempre proiettato verso il futuro. Ma è sufficiente la fragile promessa contenuta nel ricordo di un bacio a spingere a cambiare vita? Basterà la forza dell’amore per resistere al violento irrompere della Storia?
In un’epoca di sentimenti sfilacciati, esili e precari, Romana Petri ha scelto di raccontare la storia di un amore eterno e indissolubile, al quale il passare del tempo solo aggiunge senza mai sottrarre.
Otto storie, tanto perfette e compiute da costituire ciascuna un breve romanzo. Ci sono i personaggi della Vigàta di ogni tempo, l’inventario di una Sicilia dalle inesauribili sfaccettature: avvocati brillanti, chiromanti improvvisate, contadini e studentesse, preti e federali, comunisti sfegatati, donne risolute, un repertorio che suscita il sorriso o la pietà, e sempre un forte coinvolgimento. Ma in queste storie c’è anche un elemento fiabesco, mitico, un improvviso scarto dalla narrazione che ritorna insistente. È una traccia sotterranea che si mescola con il momento storico che è sempre ben definito, al punto che sin dalle prime righe di ogni storia la narrazione viene incastonata in una data precisa, la fine dell’Ottocento, l’alba del 1900, ma più spesso gli anni del fascismo, dello sbarco, del dopoguerra. Quasi sempre è l’ironia, la burla a dominare, o il gallismo brancatiano, oppure l’umanità solidale che non manca mai nelle storie di Camilleri che in quella «piazza della memoria» che è Vigàta, attinge a storie vere o verosimili depositate fra i suoi ricordi, per reinventarle e raccontarle con la sua capacità affabulatoria, tutte spruzzate da una polvere di simpatia.
È il 101 d.C, l'anno in cui Roma, all'apice della sua potenza ed espansione, intraprende forse la sua più grande e meno conosciuta guerra: la campagna per la conquista della Dacia, l'odierna Romania. Il carismatico imperatore Traiano guida l'impresa, ossessionato dall'idea di emulare le gesta di Alessandro Magno. Ma se i romani possono mettere in campo la disciplina, la strategia e la collaudata forza delle legioni, i daci, condotti dal re Decebalo, hanno fama leggendaria di essere uomini dal sovrumano coraggio, guerrieri pronti a tutto. E a contrastare la minaccia dell'invasore appaiono anche alcune misteriose creature, assetate di sangue romano. All'ombra delle operazioni dirette da Traiano si intrecciano i destini di due fratelli romani: Tiberio Claudio Massimo, valoroso cavaliere, soldato ambizioso e determinato, e Marco, indolente e refrattario alle responsabilità. Tiberio passerà alla storia come colui che catturò il temibile Decebalo: la colonna traiana e la sua stele ritrovata nel secolo scorso lo raffigurano mentre tenta di impedire al sovrano nemico di suicidarsi. Marco invece è un frumentarius, una spia, un infiltrato nelle file daciche, eppure per la vittoria finale anche le sue mosse sotterranee risulteranno decisive.
Attraverso le vicende biografiche di Ippolito Nievo, scrittore e garibaldino, questo romanzo conduce il lettore nel cuore del Risorgimento, dalla spedizione dei Mille alla proclamazione del Regno d'Italia. In queste pagine intense, ambientate in una Palermo sontuosa e lussureggiante, scorrono in parallelo la vita di uno dei maggiori scrittori della nuova Italia e il difficile processo di ricomposizione politica della nostra penisola. Su un intreccio narrativo di grande godibilità, il movimentato apprendistato sentimentale di Nievo si alterna agii scontri e agli ambigui compromessi che preparano la proclamazione dell'Unità sotto la corona dei Savoia, nel 1861, lo stesso anno della drammatica fine del protagonista. Quella di Nievo fu una vita breve: la penna di Paolo Ruffilli ne rievoca passioni romantiche, vitalità e slanci patriottici, amicizie e amori, esperienze letterarie e avventure politiche, nonché la morte tragica, realizzando un inedito ritratto a tutto tondo di un protagonista dell'Ottocento che appare uomo e scrittore di straordinaria modernità.
Nel paesino di Roccazzelle, periferia siciliana dell’impero, anche gli echi della guerra, la seconda mondiale, arrivano quasi appannati, affidati ai volantini lanciati sulla campagna dagli aerei alleati e ai manifesti del Partito Fascista. Sullo sfondo di una comunità abituata al poco e che sa vivere anche del niente, che guerra o meno continua nelle sue abitudini, nei suoi riti, e nelle sue credenze (come quella dell’incantesimo della buffa, la femmina del rospo, che se la si fissa negli occhi poi non si cresce più), si muovono personaggi ai margini e notabili del luogo - dal poetico Agostino, venuto dal mare e in fuga dal proprio passato al pavido podestà Agnello che infligge alle sue mani lavaggi d’ammoniaca pura - sempre in sbilenco equilibrio tra il dramma e il grottesco. Ma soprattutto il tredicenne Gesù, figlio di quella terra bruciata dal sole, e la coetanea Tea, di origine austriaca e cieca per una malformazione agli occhi, vivono a Roccazzelle un idillio adolescenziale fatto di salsedine e scogliere, di esclusività e dolcezza, nel tentativo di dimenticare il loro essere rimasti orfani di madre, mentre l’ombra della guerra si fa improvvisamente più minacciosa fino alla tragedia dei bombardamenti e al conseguente sbarco alleato anglo-americano.
Silvana Grasso dipinge un nuovo ritratto espressionista della Sicilia alla metà del secolo scorso con il tocco irriverente della sintassi e il solfeggio linguistico tipici della sua scrittura, che riescono ancora una volta a miscelare il registro alto - ma sempre rutilante - con il colore e il calore di una lingua parlata e mitica, per una storia in cui anche gli stessi personaggi sembrano cercare una forma ideale per raccontare quello che li circonda o un’ideale evasione psichiatrico-mitologica per non raccontare, per non raccontarsi.
«La volta che Itria Panedda Nilis riprese a sognare era un pomeriggio rovente di fine estate, con un sole che abbruschiava la pelle e spaccava le pietre». Da Melagravida i sogni se n'erano andati dopo un terremoto, quando la terra si era spaccata «come una melagrana matura». Ma quel giorno Itria Nilis – «conosciuta a Melagravida e nel circondario col nomignolo di Panedda per via delle sue carni morbide e bianche come il latte appena cagliato» – fu come sopraffatta da «una sonnolenza strana», e sognò, e quando tornò in sé si sentì (lei, vedova da quattro anni) come accesa da un fuoco, e corse verso l'ovile del capraio Martine. Lui, quel fuoco che Itria aveva addosso, glielo spense volentieri – ma la pagò cara. E questo accadeva sulle rive del lago di Locorio, dove da allora hanno cominciato a verificarsi fatti assai strani. Il parroco aveva un bel sostenere che non c'era nessun mistero, che era solo opera del Maligno: tutti lo sapevano, anche se pochi avevano visto Itria Panedda Nilis «che si spogliava e ballava, e cantava e volava sopra le acque del lago». Così comincia questo romanzo di Salvatore Niffoi, che ancora una volta, sin dalle prime pagine, immerge il lettore in un'atmosfera magica e insieme concretissima, in cui la vita quotidiana di un paesino della Barbagia (fatta di fatica e di dolore, di miseria e di ferocia) si illumina di visioni in cui compaiono il diavolo e i morti ammazzati, ma anche madonne con le «tette grosse e dure, labbra alabastrine e capelli di seta» – e, sull'altare maggiore di un santuario abbandonato, finanche un dipinto raffigurante una specie di «grosso ragno meccanico»: lo stesso rappresentato sul frontespizio di un libro stampato da Aldo Manuzio nel 1499...
Il libro di Arpo Angeli si sviluppa su un doppio registro narrativo che coniuga insieme due esigenze, quella della narrazione dei fatti, delle persone e delle cose ed un secondo inedito elemento: stati emotivi, sfondo culturale, immagini mentali. Il recupero del Nonno Antonio e la Porta del morto. Da una parte ci sono i tesori della casa colonica accanto, i marenghi sempre trovati e sempre negati da altri, strano ed oscuro cerimoniale a mezzo tra le esigenze di vite senza denaro e sogni medioevali di incredibili ricchezze. Un eldorado nascosto tra le vecchie mura delle case sempre inframezzate da scavi notturni in notti senza luna; da preti compiacenti che benedivano pezzi di campo per dissuadere il diavolo dalla difesa delle ricchezze sottoterra.
Giallo che fin dall'inizio vede innescarsi, nella vita di una famiglia, un groviglio di intrecci e un susseguirsi vorticoso di azioni che ingenerano suspance. All'interno di questo gruppo, amori nascono e muoiono, fraintendimenti e passioni si mescolano in un gioco dove però l'amore con la 'A' maiuscola saprà dar luce ai misteri di tutta la vicenda.
Dopo molti anni Ricotta torna al suo paese d'origine: Gianni, un suo amico d'infanzia, si è suicidato. Nessuno sembra capire le ragioni del gesto e neanche il biglietto lasciato svela il mistero. Ricotta però non ci crede e vuole capire. L'indagine, sempre piú pericolosa, porta a investigare su un'industria chimica della zona. Ma non è solo il presente a celare complicità e crimini: dal passato riaffiora una ragnatela di passioni segrete che si estende indietro nel tempo e intrappola gli abitanti del paese, figure smarrite in un quadro in cui nulla è ciò che sembra.
Non mi rimane che utilizzare la vecchia strategia del bacherozzo: quando si avvicina un pericolo, si distende sul dorso, immobile, e si finge morto.
Nel caso mio, non devo neanche fingere troppo».
«Io non ho piú interesse per niente e nessuno, rubo penne, passeggio per strade degradate, sbavo per una portinaia e basta, basta cosí», dice di sé il narratore di questa storia, un vecchiaccio sgradevole e scorretto, burbero, perfido. Irresistibile.
E se la portinaia di cui si è invaghito - una donna sulla sessantina, attraente, sciabile, che mentre pulisce i vetri del portone muove quell'architettura meravigliosa che si ritrova sul petto - accetta la corte di un barista con i denti rifatti; se la sua ex moglie, che era «un vortice di generosità, di capricci, di ovulazioni, di piccole iniziative stupefacenti», lo guarda come se fosse il suo gommista; se con la figlia parla per lo più del tempo, tanto che il loro «sembra un dialogo tra meteorologi, piú che tra consanguinei», a lui non resta che raccontare, divagando, di tutto questo. E raccontare di Armando, il suo migliore amico. La parte buona del carciofo che è lui. Una persona rara, gentile, positiva. Con un progetto folle in testa. Sì, perché se tutti vogliono lasciare qualcosa dopo la loro morte, «chi una tabaccheria avviata, chi un grande romanzo, qualcun altro una una collezione di lattine di birra», Armando vuole lasciare un amore.
Si è messo in testa che due ragazzi del quartiere che ancora non si conoscono, Chiara e Giacomo, sarebbero una coppia perfetta, e intende dare una mano al destino. Pretesa, questa, che l'intrattabile vecchiaccio reputa ridicola e tenta di osteggiare in tutti i modi. Ma dopo aver impiegato oltre settant'anni per convincere gli altri a non contare su di lui, si ritroverà coinvolto dalla fastidiosa, insistente, implacabile fiducia nella vita di Armando. E tra uno scherzo feroce e una battuta acida, contagiato dall'amicizia come da un virus, potrà scappargli anche un gesto spiazzante e diverso.

