
Raimondo è un diciassettenne timido e impacciato che vive tutte le aspettative e i tormenti dell'adolescenza. Incapace di esprimere la sua posizione nei confronti delle cose si ritrova sempre in balia delle "ingiustizie" degli adulti: dei professori che lo fanno sentire una vera e propria nullità, ma anche dei genitori che gli impongono umilianti ripetizioni pomeridiane. Quando si sente inerme, sfiancato dai paragoni, Raimondo si scatena in esilaranti sogni a occhi aperti in cui tutto è filtrato attraverso il sesso. L'unica cosa che gli riesce bene sono i giochi di prestigio. Proprio uno di questi permetterà a una ragazza di accorgersi di lui, Raimondo Ricci, quello carino, curvo, dinoccolato e timido.
C'è un rivoluzionario in bicicletta, che quando arriva al parlamento per buttare la bomba si accorge di non essere il primo: gli tocca mettersi in coda, come alle poste. C'è l'uomo di governo che «quando faccio politica, non ne faccio una questione politica». C'è chi cammina in fila indiana ed è contento di considerarsi solo un numero, tanto da non tollerare che qualcun altro - di certo un sovversivo - gli si affianchi sostenendo di essere semplicemente Mario... Ogni personaggio procede «sulla superficie sconnessa di un pianeta che pare fermo e invece si muove, perché quando ti muovi piano è quasi come se non ti muovi per niente», consapevole dell'equilibrio precario nel quale si trova, ma consapevole soprattutto che «precipitare è tutto un altro discorso». Sottratta al monologare fluviale degli altri suoi testi, la prosa di Ascanio Celestini si fa in questo libro quintessenziale: i racconti di Io cammino in fila indiana scavano nel cuore minerale di un'instancabile arte affabulatrice, che indaga il mondo con passione e curiosità. Con un andamento narrativo capace di accordarsi agli scarti improvvisi del pensiero - tanto da assumere di volta in volta la forma della poesia civile, o della preghiera laica -, le storie ambientate nel «piccolo paese» mostrano quello che siamo diventati.
Grazie al guizzo dell'intelligenza e all'impegno militante di una fantasia sempre ribelle, Ascanio Celestini costruisce così il suo libro più personale. Distribuendosi in tanti «Io» che giocano con lo specchio deformante - eppure fedelissimo - dell'apologo o della fiaba, l'autore prende per mano il lettore e lo guida attraverso la cronaca e le assurdità dei nostri anni recenti. Si ride molto, ma amaramente. E poi si riflette, cercando una medicina per questo mondo pieno di storture. Senza mai dimenticare che «l'ansia è una faccenda che ti si gonfia nella testa. È come l'aria per il pallone: di concreto c'è solo un sottilissimo strato di gomma elastica, tutto il resto è aria».
«L'ultimo colloquio al telefono dunque rovesciò le nostre vite: per accumulo, per eccesso, quasi che esse potessero cambiare solo traboccando. Zezi poi asserí, magari velleitariamente, che era stato come il sussulto piú luminoso d'una lampadina prima che si fulmini. A voler chiamare luce l'infelicità, o addirittura la violenza, e buio l'assestamento raggiunto fra noi».
Un racconto: l'insolito regalo di compleanno di un marito a una moglie che lo accusa di non amarla più. Quando scende la sera, e fa freddo fuori e dentro, alla luce blanda di una lampada un uomo «quasi vecchio» legge alla sua compagna una storia d'amore che ha appena finito di scrivere per lei, nel tentativo di ritrovare l'intesa d'un tempo.
Torna così un inverno lontano e insolitamente nevoso, quando un giovane magistrato all'inizio della sua carriera arriva dal continente su un'isola. Là, dentro una precaria camera d'affitto, gli tocca smaltire insieme alle carte processuali la noia della solitudine. Ma una sera la telefonata di una sconosciuta increspa la calma triste e piatta di quello scenario. Sembra un errore, uno scherzo, e invece è l'inizio di una relazione.
Chi lo chiama è Zezi, una diciassettenne buffa («una squaw bambina»), persino bella e a suo modo infelice: d'una «fragilità impudica ». Insiste a cercarlo, serenamente sfacciata, con la sua voce puerile ma di contralto; e presto il magistrato non riesce a fare a meno di quelle telefonate. S'imbatte allora in una realtà sconosciuta, che è già amore, anche se il nome gli verrà solo più tardi; una zona inesplorata di sé nella quale si perde, costretto a fare i conti con la propria vita, in bilico tra le rigidità della professione e le imprudenze frivole (le assennate follie?) della ragazza. Ma cosa cerca Zezi? Perché vanta amori di ogni genere e con indecenza soave si dà della puttana? Forse per recuperare qualcosa che ha perduto, che non ha mai avuto? Per mitomania? O soltanto per civetteria? Che si tratti di bisogno di protezione o di malizia, lei gli propone un fidanzamento, però condizionato. Così il giudice prende a frequentarne ogni giorno la villa, Villa Mimosa, imparando da un vecchio grammofono lo strazio dei tanghi argentini e la Pavane di Ravel; ma dopo non sta ai patti: come se d'improvviso si fossero scambiati innocenza e corruzione, in un gioco delle parti che è la dolorosa fine d'ogni gioco. Segue un anno di sospensione e silenzio, poi la storia si ripete: lo squillo di una telefonata sembra riaprire il ciclo. Ma l'emozione che ne deriva è una vertigine dissolta in un attimo, «come nei sogni di chi crede di stare su un precipizio e invece si ritrova sopra un qualsiasi gradino». Come se una nuova cognizione del dolore avesse d'un tratto cancellato quella strana passione, lasciando solo uno sconforto cocente degli altri e di sé.
Quella di Mannuzzu è una scrittura che s'impregna di dolore, malinconia, sbigottimento.
Un perimetro di tensioni e passioni, dove tutto procede per sottili trapassi, in una prosa fitta di dialoghi, stranita e colma di risonanze.
La paura è un respiro trattenuto, le parole diventano un sussurro e cedono al silenzio. Quando riceve la telefonata, la voce femminile che lo strappa al sonno è spaventata e gli dà appuntamento per il giorno successivo, in un’aula di tribunale. Un incontro che non avverrà, perché in quell’aula, davanti ai suoi occhi, un uomo uccide la ragazza e si toglie la vita. Da lei, fa in tempo a udire solo poche sillabe. Solara.
Basta quel nome. Un nome che lo riporta al pomeriggio in cui sua moglie muore in un incidente stradale, lasciandolo solo a crescere Giulia. E ancora più indietro, all’estate in cui una bomba fa esplodere in una strada di Palermo la vita di un magistrato. Solo un episodio di una lunga stagione di stragi che, ancora una volta, getta l’Italia nel terrore. La verità di quei giorni è sepolta sotto un cumulo di macerie che in troppi hanno interesse a non rimuovere.
Forse, l’uomo avrebbe dovuto lasciar perdere, il giorno in cui ha sentito quel nome. Fingere di non sapere che l’inchiesta su cui si erano inutilmente accaniti suo padre e sua moglie, entrambi giornalisti, aveva lasciato nervi scoperti.
Perché in un Paese che si regge sui silenzi e le menzogne, la verità può diventare inafferrabile.
È una sera di pioggia battente a Roma e, mentre il Tevere esonda, sull’autobus 175 si sta stretti. Troppo stretti, forse, la gente quasi si restringe per evitare di sedersi accanto a quattro ragazzini sgualciti: «i soliti rumeni», mormora una donna. Ma che non sono rumeni, Carlotta, anche lei su quell’autobus, se ne accorge subito. È incuriosita, e si rivolge loro in inglese. Poche domande semplici, guardandoli negli occhi, occhi stanchi ma scintillanti. Scopre, con stupore, che quei quattro ragazzini vengono dall’Afghanistan. Scopre che sono giunti in Italia a piedi, dopo un’incredibile marcia durata cinque mesi e cinquemila chilometri. Sorridono ora, sembrano contenti, contenti che il loro viaggio sia giunto alla meta prefissata, alla Piramide, la fermata dove trascorreranno la notte in quella che per loro è “la città di Asterix”. Quattro ragazzini afgani a Roma, soli, sotto la pioggia, in un mondo magico e ostile. Carlotta dà loro appuntamento per la mattina seguente. Ne ritrova solo uno, Akmed.
È l’inizio di una emozionante storia umana, tra una giovane donna e un figlio della guerra. Una storia inaspettata, a volte feroce altre perfino comica, che traccerà la propria strada seguendo le briciole di poeti e sognatori. Una storia in cui tutto diviene emergenza e ogni parola perde di significato. O ne acquista di più importanti, di nuovi.
È il 23 giugno 1866. Il giorno seguente le truppe imperiali austriache sconfiggeranno quelle del giovane regno d’Italia a Custoza. Quasi un mese dopo identica sorte avrà la battaglia navale di Lissa. Ma Garibaldi è saldamente attestato nel Trentino e con le camicie rosse dei suoi volontari semina il panico tra i militari austriaci e la popolazione fedele a Francesco Giuseppe. «Amore mio, uccidi subito questo Garibaldi», scrive la principessa Leopoldina Lobkowitz al marito, conte Fedrigo Bossi Fedrigotti, che si è arruolato volontario nelle truppe imperiali.
Leopoldina arriva dagli splendori di Vienna, dagli agi di immense tenute in Boemia. Da lì è giunta a Rovereto in casa dello sposo, nobile «povero» di una povera provincia dell’impero, di cognome italiano, di dialetto trentino, ma di sentimenti incrollabilmente a sbur gici. Al suo fianco Leopoldina vive questo sconvolgersi del mondo che già prelude al crollo dell’Austria Felix. Nel quadro degli eventi militari e politici, scandito dalle lettere dei due sposi-amanti – raccolte con amore e tradotte in romanzo dalla bisnipote Isabella – si svolge la trepidante vicenda privata dei due protagonisti, delle loro famiglie, del loro contorno di amici.
La vita, la morte, l’eredità, la roba. Le regole del sangue. Un mondo posseduto da riti primitivi e passioni inestinguibili, un mondo di uomini dolci come il miele e feroci come animali, attaccati con pelle e unghie alla terra. Questo mondo e la sua epopea di donne devote, di gente che si toglieva il pane di bocca per amore della roba, rivive nelle pagine del romanzo che il nonno Aurelio, uomo di fede repubblicana e mangiapreti, incitava l’autore a scrivere, e che è intitolato alla fortuna. Nella fortuna il vecchio aveva sperato per ricostituire il patrimonio che il capostipite, nonno Arcangelo, aveva dilapidato, tra amori e odi, grandezze e miserie. Aurelio, prossimo alla morte, aveva mostrato al nipote prediletto delle schegge di legno dorato, donate a lui da Arcangelo; le aveva conservate in gran segreto nella disperata speranza che potessero tornare a essere le ali dell’Arcangelo Michele, il protettore del capostipite, e riportare la famiglia agli antichi splendori liberandola finalmente dal fato avverso e crudele. Le parole dell’autore ne hanno tramandato la memoria ai discendenti di Arcangelo e Aurelio. Anche se non saranno mai più proprietari del Regno di Colle di Pietra, la terra nessuno riuscirà più a sottrargliela.
Questo è un romanzo sulla memoria e fatto di memoria, una scrittura che viene dalla terra dura e arcigna, ma che trascende l’autore perché vive di vita propria. È la storia di un’intera esistenza, il regalo di un grande scrittore al suo pubblico. Un glorioso banchetto di vivi e morti tra terra e cielo.
Impacciati adolescenti o agiati uomini di mezza età, attrici nel fiore degli anni o anziane donne dalla bellezza sfiorita, signore dall'aria spenta che celano letterate di grande successo, coppie intriganti, ragazze disposte a tutto e giovani ingenue, seduttori e giocatori d'azzardo: in ogni racconto è rappresentata una "morale" che potrebbe ben costituire l'obiettivo di un saggio. Questi racconti completano la riflessione iniziata con il romanzo “I dialoghi degli amanti”: con la loro leggerezza, il distacco ironico e la canzonatura del modo corrente di pensare predispongono il lettore alla passione, alla diversità e al candore dei “Dialoghi”, al vero amore fatto di passione, erotismo, sessualità e sentimento.
In un Lazio selvaggio e incantato vivono i due gemelli Remo e Romolo. Remo, predestinato al successo in qualità di primogenito, è molto legato al padre, il pastore Faustolo, che ripone in lui le speranze di riscatto del proprio popolo asservito ai Quiriti, nuovi padroni di Settemonti. Romolo, invece, si dedica al brigantaggio e gode piuttosto dell'appoggio della madre, Acca Larenzia, donna misteriosa in odore di magia. Mentre il primo, ombroso e dotato di strani poteri, è guardato con sospetto dai coetanei, il secondo raccoglie intorno a sé una banda di giovani su cui impone la propria autorità e il proprio carisma. Al compimento del diciassettesimo anno d'età, entrambi i fratelli entrano nell'esercito dei Sabini. Ma il destino li ha investiti di un'altra missione: fondare la città che governerà il mondo.
23 novembre 1980: il terremoto colpisce la Basilicata e la Campania, provocando migliaia di morti, dispersi e senzatetto. Un'antropologa milanese si precipita a Palmira, minuscolo centro dell'Appennino che ha la particolarità di non figurare sulle carte geografiche. Trova strade e ferrovie interrotte, dighe e ponti crollati, abitazioni rase al suolo, famiglie distrutte. Solo una falegnameria è rimasta in piedi e dentro, notte e giorno, mastro Gerusalemme fabbrica il mobilio per una sposa, l'ultima del paese. Sulle ante sta disegnando le leggende che si tramandano negli anni: misteriose profezie di gente senza tempo e memoria, miracoli di un luogo favoloso dove convivono cristiani, ebrei, musulmani. I pannelli dei mobili sono l'unica testimonianza che Palmira sia esistita veramente e in essi si compie il destino di ogni uomo. Tra l'antropologa e il falegname inizia un dialogo di sguardi sfuggenti e di parole arcane, un viaggio alla ricerca dell'ultima sposa, un'avventura nei segreti di questa comunità, dalla remota fondazione di Patriarca Maggiore all'apocalisse del terremoto che ha trasformato il paese in un immenso presepe di morti. Grazie a una lingua modulata sull'affabulazione dei sogni e a un gioco di incastro fra epica orale, mito e cronaca, con questo fantasioso romanzo Giuseppe Lupo celebra un evento che fa da spartiacque nella recente storia del Mezzogiorno e segna la fine di una civiltà.
Il titolo viene da un'usanza sette-ottocentesca di cui parla lo scrittore Giuseppe Rovani nel romanzo “Cento anni”: uomini di mondo si facevano dipingere la maschera di un noto personaggio del tempo, poi se la applicavano sul volto per stupire, infastidire o impaurire la gente per strada o nei salotti. Il protagonista, vissuto nella convinzione di assomigliare all'amato padre, scoprirà, alla fine, di essere identico al detestato nonno. Almeno nei tratti del volto. Le due figure del padre e del nonno sono l'oggetto di una doppia indagine da parte del narratore. Entrambi sono legati a un mistero: il padre a un inspiegabile suicidio, il nonno a una colpevole sparizione che ha generato sofferenza e senso d'abbandono. Entrambi sono legati a una figura femminile assente: il primo ne è il marito, il secondo il padre.
Si dice che i gatti abbiano sette, persino nove vite. Che riescano a precipitare da altezze vertiginose per poi rialzarsi, darsi una lisciata al pelo e spiccare un altro salto. Giovanni Prati, che con i gatti sa persino parlare, di vite ne ha avute tante da perdere il conto. È stato traduttore e poeta, cuoco, sceneggiatore, esperto di cooperazione nei paesi in via di sviluppo.
È stato, per dieci anni, uomo di punta della Infinite Power Limited, la più potente multinazionale nel settore dell'aviation marketing. Fino a oggi: perché stamattina Giovanni Prati ha raccolto le sue cose dalla scrivania, ha messo nella borsa il notebook e se n'è andato. Per cominciare una vita nuova, un'altra, a modo suo. Una scorta di bottiglie per sciogliere i pensieri, i messaggi sul cellulare a scandire come epigrafi sgrammaticate le ore.
Davanti a lui un weekend eterno durante il quale dovrà nascondersi e prepararsi, fare il punto di ciò che è stato e prendere congedo: dai colleghi, dagli amici, soprattutto dai suoi ragazzi, unica costante che resiste nel terremoto dei giorni. Per Giovanni si tratta dell'unica forma di amore possibile: che siano figli di papà o clandestini che si lasciano abbordare davanti alla stazione, quello che lo cattura è la loro bellezza. Sono giovani, giovanissimi, quattro peli di barba e architetture di gel sulla testa.
E allora, se il lavoro è il mezzo e il pretesto per girare il mondo, se le giornate sono fatte di riunioni e pranzi aziendali, Giovanni aspetta paziente di trovarsi solo per avventurarsi nelle città notturne e disegnare la sua personalissima geografia sentimentale, una mappa fatta di volti e di corpi. Nella contemplazione adorante dei propri sensualissimi dèi, Giovanni sopravvive e insieme s'infligge la più crudele delle pene: nel confronto con la giovinezza, la vecchiaia diventa evidenza che annichilisce.
Comincia così, con la percezione del proprio decadimento, la crisi di Giovanni Prati, ed è solo il principio di una frana che pare voler travolgere tutto, il lavoro e le amicizie e gli amori. Ai piedi di questa frana, nella preparazione dell'ultima fuga, Giovanni sarà costretto a fare i conti con le proprie scelte, fino ad accorgersi che scappare fortissimo, in fondo, non è troppo diverso da inseguire.
Sarà costretto soprattutto a raccontarsi per quello che è: un uomo provocatorio e liberissimo che rifiuta l'autocommiserazione e sceglie una voce ironica, vitale, sfrontata. Ed è proprio nel parossismo dell'ironia e della sfrontatezza che sentiamo lo scricchiolio di un'impalcatura che cede e rivela, all'aprirsi di crepe e fratture, il dolore profondo e la paura di un individuo incapace, come tutti noi, di rassegnazione.